Si potrebbe partire dalla seguente considerazione, ovvia ma non per questo meno vera: che il significato di un’operazione estetico-culturale non è univoco, cioè non può essere valutato in termini assoluti, indipendenti dal contesto in cui si pone. Per cui un intervento di carattere estetico e di natura temporanea all’interno di una città assume un determinato senso se avviene in una metropoli, o in una capitale, o in una città comunque abituata a simili iniziative; si caratterizza ben diversamente se si svolge in un ambito poco disponibile verso tali espressioni del fare arte nella contemporaneità.

Se la considerazione che si è fatta corrisponde al vero, va detto che le due iniziative piacentine riunite sotto il concetto di “arte in cantiere”, pur così lontane l’una dall’altra per concezione ispiratrice e per modalità di realizzazione, hanno costituito per Piacenza un’occasione significativa, per più aspetti memorabile. Per la qualità delle proposte, entrambe le volte, che hanno visto il coinvolgimento convinto di operatori seri quali Marco Introini e William Xerra (continuiamo a ritenere, come si vede, che la validità sociologica di una proposta culturale abbia senso soprattutto se supportata dal valore dei singoli: insomma, in una prospettiva quasi idealistica e romantica!); per la possibilità di uno sguardo inedito consentito a noi, a noi abitanti di una città (e ai fortunati che, provenendo da altri luoghi, hanno saputo e sono venuti), dentro la realtà di un cantiere, in una sua fase aurorale, proemiale, quando il vecchio, di cui non resterà traccia, convive con il nuovo. Al tempo stesso si è verificato l’incontro, di impressionante vividezza, tra un pubblico abbastanza largo, non necessariamente il solito, sin troppo prevedibile, che si incontra alle rassegne d’avanguardia, e un’idea di fare arte che felicemente travalica i confini, espressivi prima di tutto, e come dire topografici, data la assolutamente inedita collocazione. Se poi si aggiunge che i due incontri con l’arte in cantiere, progettati dalla fertile mente di due architetti, si sono svolti in un clima di festa, leggermente straniante proprio nel suo adottare modalità nuove, fresche, da alba (tali invero, sicuramente, per Piacenza), ci si può rendere conto di quanto all’arte sia possibile chiedere risposte (abbozzi di risposta) a vantaggio di un riuso, di una riscoperta, di una rinascita quasi della città (e prima di tutto anche di noi stessi).


Stefano Fugazza

critico, direttore della Galleria d’arte moderna “Ricci Oddi” di Piacenza.

ABBOZZI DI RISPOSTA