DIPINGERE?

 
 

Da Biffi Arte fino al 12 novembre un’esauriente esposizione antologica che ripercorre una intensa vicenda di sperimentazioni

William Xerra, l’arte fabbrica di pensiero

Mostra in due sezioni: Dipingere? Fotografare? Sullo sfondo c’è il peso della doppia tradizione


 

I lavori più recenti di Xerra, quelli che aprono la mostra da Biffi Arte a Piacenza, sono alcuni collage su carta intitolati Dialogo assente, titolo che forse contrassegna un altro ciclo prolungato: con
sistono principalmente in volti posti in opposizione su sfondi di geometrie elementari. Una scena semplice e diretta, d’ordine grafico come fossero bozzetti di un’opera maggiore. Parafrasando un altro ciclo dell’artista, di alcuni anni fa, potremmo dire che questi volti sono “la metà del dialogo”, perché sono “dia” senza “logo”. Nessuno ascolterà l’artista se l’artista non ascolta che l’arte. Il dovere che lo attende sarà di esiliarsi in patria per godere uno sguardo ampio e responsabile al di fuori del proprio mondo. Anche così l’arte torna a interrogarsi sullo statuto che le è dato, a essere fabbrica di pensiero oltre che di immagini.
Pertanto ci sta bene che in questa disposizione d’animo Xerra abbia scelto per la mostra piacentina un confronto serrato tra se stesso e due moloch dell’arte: la pittura e la fotografia. Nei loro confronti permane vivissima la tensione costante della vigilia, un particolare senso di attesa chiuso al margine e perciò irrisolto. Pittura e fotografia sono due capisaldo
del linguaggio artistico e, nel medesimo tempo, due strumenti da doppio taglio, cioè da maneggiare con cautela – e pensare che sono i più frequentati e demoliti dal dilettantismo e dalla comunicazione di massa.
In virtù di un vissuto di per sé ricchissimo e mutevole, che ha conosciuto gli snodi fondamentali del nostro tempo, Xerra può leggere il rapporto tra l’artista e i suoi mezzi – parliamo di qualsiasi artista che ragioni, non di lui solo – con distacco e rinnovata incredulità.
Lo certificano i punti interrogativi che campeggiano sulle due sezioni della mostra: Dipingere? Fotografare? Sullo sfondo c’è il peso della doppia tradizione: una è la tradizione della pittura italiana, nella quale lui si forma e che abbandonerà presto ma verso cui ritorna spesso; l’altra è la tradizione del nuovo, diciamo così, vale a dire quella del moderno che ha nutrito le stagioni centrali dell’arte contemporanea di valori anche politici, anche strettamente culturali, oltre che artistici: le poetiche dell’oggetto; la poesia visiva; il preambolo concettuale, vengono da lì, dall’idea di moderno.
Chi abbia la cura di visitare la mostra piacentina con occhio anche storiografico, vedrà che il lavoro di Xerra ha proceduto soprattutto, e in forte contrasto, tra questi due valori tecnici, pittura e fotografia: l’uno morbido e l’altro duro; l’uno sensuale, riflessivo, e l’altro narrante e riflettente senza tregua. Si concretizza proprio qui l’estensione antologica della mostra, cioè nell’arcipelago documentale che vuole dar conto di quaranta e passa anni di lavoro sempre in linea con
la ricerca del tempo. Le due anime si richiamano continuamente: così lo si vede evocare il valore della pittura, che poi è la più soggettiva delle testimonianze, in pieno esproprio concettuale, con quel “vive” che diventa negli anni la sua sigla più celebre. Poi si assiste al raffreddamento della pittura trasformata in citazione, in frammento estraneo captato nel mezzo di un allestimento; e ancora attraverso quel medesimo frammento, rinnovare il desiderio di accogliente bellezza che ha fatto la fortuna della pittura italiana nei secoli. Quel che si vede, dopotutto, è che tanto la pittura quanto la fotografia (e l’installazione, perché no?)
sono finestre mai chiuse e mai del tutto aperte: Ma così è stata un po’ tutta l’arte italiana tra gli anni Sessanta e il nuovo secolo: nomade – direbbe Bonita Oliva –; anzi progredente dall’origine, testimonierebbe Celant.
In Xerra, quando dipinge, prevale il frammento, lo sappiamo; e il verso, la parola caduta e raccolta, impigliata (per un processo che poi era il cuore significante del telaio interinale, ’75); prevale un’ombra di cose assenti, e richiami alla classicità come all’ordine “felice” della cose. Quando fotografa, predomina il corso eventuale della cose, gli accadimenti
che si manifestano all’artista come atti compiuti, cui sovrapporre solo la propria sigla, come avviene a Matera nel “percorso rituale tra i sassi” (’78).

La mostra consente di ripercorrere una intensa vicenda di sperimentazioni: rivediamo l’happening di San Damiano con la registrazione della mancata apparizione della Madonna nell’orto di mamma Rosa (’73); l’incredibile bancarella di madonnine in gesso e plastica per pellegrini, rosari e bottiglie di acqua benedetta, allestita a Bologna – ben prima delle appropriazioni kitsch degli americani anni 80. E vi ritroviamo alcune innumerevoli variazioni sulla fabbricazione di poesia visiva e concreta: sul libro-oggetto e sul libro d’artista; le lapidi con lo specchio nell’ovale della foto; i “vive” sui frammenti antichi; l’insegna “io mento” sulle fantasmagorie tiepide della città di oggi; infine cartoline e video che presi di per sé, in autonomia, raccontano quaranta anni di arte italiana.

Se però dovessimo
dare un ordine al nostro piacere, vorremmo fossero riletti e rivalutati adeguatamente i cicli degli anni Settanta; appunto lapidi, buste riflettenti, i primi “vive”, gli excursus performativi, allestimenti fotografici, una serie di scenografia senza attori e senza sipario ancora attuali: cioè la parte più avanzata ed emozionante della ricerca di quegli anni. In pratica quel che uscì dalla sua officina nei tempi generosi e tesi che precedono e seguono il dolmen alla Resistenza. Ma è un punto di vista personale, si intende.
Concludiamo con tre opere tra le minori, anzi, minorissime: L’una si chiama semplicemente Scrittura e consiste in un foglio di carta liberamente squadrato con grafie senza voce che sembrano automatismi: è del 1973 ed è null’altro che un dettaglio
nel contesto di una mostra intera. Non si nota nemmeno: Però racchiude la cifra doppia e inquietante del suo lavoro così com’è, tra ragione e rivolta, desiderio e paura nel segno di Rimbaud, eroe ritrovato dei suoi tempi. La seconda è un gioco: la Fallografie, falli murali riprodotti in fotografia su un libricino minuscolo. È un esempio di trasfigurazione della realtà con l’arma del comico, secondo il modo più consueta dell’avanguardia.

Il terzo lavoro, invece, non è nemmeno in mostra ma dobbiamo testimoniarlo per chiudere con un segno di esistenza. Si tratta di un’immagine privata, però riprodotta in centinaia di copie, che l’autore non ha inserito nel suo canone dimenticandola tra le inezie e nel contempo trascurando che però le inezie, null’altro che poco, sono i grani del destino. Il lavoro di cui parlo è l’etichetta del vino di casa su cui sta scritto, distinguibile nella grafia di Xerra: “vino vero”. Null’altro. Segno allora che ci sono delle verità.


Eugenio Gazzola

Libertà, 2 novembre 2011