Iconografie giustapposte

La duplice Passione di William Xerra




Da tempo si aggirano nei quadri di William Xerra i lacerti perduti di quadri antichi. Un occhio, un volto, il lembo di un fondale, frammenti di tele ormai dissolte affiorano tra gli spazi geometrici, i segni e le scritture, tra le uniformi campiture di colore. Sospesi tra l’oblio di quello che sono stati e  la presenza di un’intenzione figurale spezzata, affermano e negano, rilanciano e commentano la nostalgia per la pittura e la rinuncia al suo senso forte della tradizione – e la copia fino quasi a ingannare l’occhio del Cristo morto di Mantegna che campeggia nella luminosa torre studio di Ziano è lì a ricordarci l’orgoglio dell’artefice per l’abilità e il dominio delle tecniche e, insieme, il monito per le vie dirette che la modernità epigonale gli preclude.

A un tratto, però, nel grande quadro del 1998 che sta ai prodromi immediati della serie esposta qui, la tensione si rafforza, il prelievo diventa ingombrante, irrompono in primo piano le fattezze gigantesche del padre putativo. Dallo sfondo labirintico di Amiens, contendendosi lo spazio lungo il confine irregolare degli squarci che ancora la rovina del tempo gli ha inferto, si impone allo sguardo la figura quasi completa della Glorificazione di San Giuseppe. Così quando dai meandri del mercato antiquario emergono, trascinate dai secoli chissà da dove, alla de
riva, accatastate, abrase, annerite, ma finalmente intere, salvate, le quattordici tele di un oscuro maestro lombardo del primo Settecento, è già pronto ad accoglierle un problema, è già dispiegata ad articolarle una grammatica, ma nuova è la soluzione adottata, originale è la ricerca che porta Xerra a queste iconografie giustapposte. Certo, è all’opera qui quella visione schizomorfica – la discontinuità del processo immaginativo portato all’estremo, la sintassi frammentata, le proposizioni dissonanti e il lessico eterogeneo scanditi da un ritmo elementare – quel tentativo insomma di comporre follia e metodo che si rifà alle poetiche della neoavanguardia italiana cui tanto deve la nascita dell’arte di Xerra, e che è prolungato con eleganza nel movimento simpatetico dei distici di Paul Vangelisti che riproducono nel linguaggio poetico la struttura duale e le sequenze parallele dei quadri, mimandone la leggibilità in successione delle coppie o dei soli elementi primi o secondi di ciascuna, come già fu nelle belle cartoline-collages di Luci e colori d’Italia (1996). Ma c’è dell’altro, il procedimento è stato sottoposto a una metamorfosi, che lo ha trasformato fornendogli insieme altri fini. Ad attrarre l’attenzione è l’enigmatico magnete verbale che Xerra ha trascritto a cornice del dodicesimo quadro, ma si intuisce proiettato a includere l’intera impresa, il passo del Vangelo gnostico, alla cui inesauribile richiesta di commento con fatica sfuggirà chiunque sia chiamato a interrogarsi, con mezzi diversi, sul suo senso.

Nel commentario che accompagna la traduzione di Luigi Moraldi (Adelphi, 1984), appena diversa da quella einaudiana degli apocrifi impiegata da Xerra, del frammento 22 nel Vangelo di Tomaso si dice; “ritorna il pensiero dell’unità primordiale”. E si elencano luoghi di Clemente, degli Atti di Pietro e di Tomaso e di altri, nei quali le unità di interno e esterno, alto e basso, maschio e femmina, tutte annunciano l’avvento del Regno dei Cieli. Eppure nel nostro passo le cose si complicano, nel bel mezzo dell’enumerazione sembra insinuarsi uno spiritello pneumatico deciso a scombinarne il fluire simmetrico, a riscriverne la melodia. Se è chiaro a che cosa si riferisca “in modo che due siano uno” e quanto segue fino a “una cosa sola”, che cosa vuol dire, infatti – almeno restando alla traduzione italiana – “un occhio al posto [o “in luogo” come vuole Moraldi] di un occhio e una mano al posto di una mano e un piede al posto di un piede”? E, soprattutto, che cosa significa “un’immagine al posto di un’immagine”, il punto illuminante nel quale è sembrato all’artista di riconoscere quanto già sapeva sul suo fare? Orientandosi a orecchio tra gli echi polifonici delle dottrine gnostiche che si mescolano al canto monodico del cristianesimo primitivo, Xerra ha avvertito la dissonanza, ha sentito, dopo l’uno nel due, il perdurare del due nell’uno, ed ha inteso con sicurezza “un’immagine al posto di un’immagine” come, nello spazio, un’immagine accanto a un’immagine e, nel tempo, un’immagine che evoca un’immagine.

Ecco dunque allestita la “macchina” che produce l’opera. Da un lato – il sinistro, appunto quello che il sacro vuole per sé – scorre la storia sacra, soltanto mitigata dalla bonomia delle figure, con le facce larghe, le complessioni tarchiate e l’aspetto popolare che prestarono loro le genti dei due lati del Po che ne furono il probabile modello. Nientemeno che una delle grandi narrazioni fondatrici della nostra cultura, il cuore della fede cristiana, la storia della Passione di Cristo, in quattordici quadri dalla condanna fino all’inumazione del Cristo morto. Ma, con essa, scorre anche il corrimano, il sostegno e l’invadenza della storia dell’arte, la grande tradizione artistica italiana, la sua iconografia codificata e la sua solida costruzione della rappresentazione, il bagliore lontano della gloria della pittura, colta qui nel margine epigonale della sua potenza, ma assunta a indicare per intero uno degli estremi della cesura, contigua messa a distanza e discontinua connessione, che ogni quadro racchiude. Dall’altro lato, il destro, scorre la storia profana. Secondo quel procedimento caro all’imitatio della pietà medievale per cui ricapitolare le esistenze terrene alla luce della vicenda di Cristo che esemplarmente le compendia tutte è atto di umiltà e non di presunzione, ritraendosi, trattenendosi, i riquadri alla destra evitano di ripercorrere esplicitamente la storia alla loro sinistra, tentano invece una meditazione, un pensiero a margine sull’immagine che di volta a volta affiancano e la riportano a una sequenza di eventi semplici, alla storia di un uomo condannato a morte, che soffre e incontra nel suo cammino buoni e cattivi, si impegnano nell’impresa di rammemorazione e conoscenza innescata dalla ripetizione originale, dall’esperienza individuale sulla scorta delle immagini fisse, “luoghi comuni” nei quali ritrovarsi, ciascuno col proprio. E, dal punto di vista dello spettatore, raccontano, riepilogano storie plurali.

Riepilogano, innanzitutto, un rapporto con l’arte del Novecento,  rievocandone le forme per allusione. Come, per esempio, nell’eclisse che corrisponde alla prima caduta di Cristo
[III], il quadrato nero con l’olio sbavato all’esterno nella tempera dello sfondo bianco che richiama il gesto assoluto e inaugurale di Casimir Malevič, oppure la linea sinuosa di luce che traccia un nudo di donna affiorante
dalla notte, e sensualità e pianto, nella parentesi vermiglia aperta accanto alla Maddalena [VIII], che rende sommesso omaggio a Picasso, ovvero, infine, “i pensieri e le riflessioni che ci sorreggono”, a fronte della seconda caduta del condannat
o [VII], scritti, cancellati e riscritti, esitanti, corsivi e maiuscoli, nel segno delle eleganti grafie di Cy Twombly, oppure il ricorso concettuale a formule iconiche, nel cervello giustapposto alla Veronica [VI], o verbali e cr
omatiche, nel giallo che mente a confutare l’amicizia del Cireneo [V].
Ma le immagini di Xerra raccolgono anche e sugg
eriscono le tracce di una vita, adombrano le trame di un riflesso autobiografico, i frammenti sparsi di eventi cruciali e quotidiani: dalla croce nera della “carte” sbucate da un vecchio baule – la burocrazia che opprime la conduzione dell’azienda agricola familiare,le quote del latte, gli avvocati, le pratiche al municipio – che accompagna l’assunzione
della croce [II]; all’incontro con la madre che fa tutt’uno con l’incrocio di sguardi tra Cristo e Maria [IV] e rinuncia alla pienezza del simbolo dispiegato – la rosa del giardino e il pane fatto in casa dell’amore materno, cancellati e ridotti ai minimi termini
di nuvolette bianche su un mariano e un po’ ironico sfondo celestino – per concentrarsi sulla reminiscenza puntuale, la marina (quasi una foto di Luigi Ghirri rifatta dai colori di un bambino) del “Ti ricordi William la prima volta che siamo andati al mare…”, il foglio del congedo militare paterno del “Ti ricordi William la volta che il babbo è tornato dal Montenegro…”; fino all’inserimento – ancora una volta, come nei precedenti II e IV, prelievo dalla vita accanto a prelievo dell’arte – dei disegni della nipotina Vittoria a dilatare la rara occorrenza iconografica del puttino che sorregge il Cristo deposto e fa da contrappunto vitale all’oscuramento della sua vita, come
gli sgargianti colori del disegno infantile contrastano le polaroid virate al nero integrale che li sovrastano [XIII].
Più in generale la “macchina” che produce pittura in luogo di pittura, immagine accanto a immagine, sviluppa la sua azione performativa – macchina del pensiero, della memoria e delle emozioni – ne registra le traiettorie e ci mostra come il dolore rabbui, la madre scateni il ricordo, le parole confondano, l’amico ti aiuti quando non te lo aspetti e menta quando lo credi sincero e, di nuovo più da vicino, nell’astrazione geometrica che si fa
figura etimologica estraendo la superficie dalla bidimensionalità, i giudici rinchiudano [I], cadere finalmente ci insegni che il mondo è aperto alle linee di fuga dei trecentosessanta gradi delle sue dimens
ioni [IX], il potere – chi ci ha in suo potere – si prenda alla lettera gioco di noi, nelle carte, nei dadi e nella scacchiera appena barrati di fronte alla spartizion
e delle vesti prima della croce [X].
Ci chiama però, da ultimo, a meditare sul dolore e sulla morte. Ci fa sostare sull’indifferenza prossima al culmine della tragedia, raggiunta nel turbine di pennellate rosse quasi sgorgate dai chiodi piantati nella carne: suprema saggezza e distacco del santo di fronte ai dolori del mondo e, insieme, suprema reiezione del mondo verso l’ultimo (se pure il primo) degli uo
mini, che – rifuggendo i toni sublimi – risuona nella frase del Diario di Piergiorgio Bellocchio rimasta impigliata nel quadro [XI] a caratteri scarlatti (“Nessuno s’era accorto di nulla. Nessuno si riteneva disturbato”). Ci indica, dinanzi al mistero della Crocifissione, la via sapienzale dell’incommensurabile, che esalta le perfezioni geometriche dei rettangoli dell’anti
co artigiano giocando sull’“A”[ssoluto] maiuscolo delle scomposizioni e degli incroci da esse consentite [XII], e che inscrive la tangenza tra visibile e invisibile nel segno chiaro del fluire incessante del tempo oltre l’involarsi dello spi
rito vitale [XIV].

Se, pertanto, l’opera si dipana lungo le stazioni della Passione, in essa comunque si conclude. Passione senza redenzione, dunque, e gnosi moderna, se di gnosi si tratta, che non conosce la trascendenza, se non quella immanente alla rappresentazione artistica, che pure riflette sin nell’interno della sua struttura. Tragico moderno, se tragico vuole essere, fermo nel mantenere irresoluto il conflitto, e dramma luttuoso che non arretra di fronte alla rappresentazione della vita nel suo aspetto terrificante, che si espone fino alla calcinazione di fronte all’assoluto della morte. Tra gli estremi, divaricati sin nella topologia di ogni quadro, si istituisce l’opera di Xerra, la sua messa a distanza fino al prezzo del mentalismo allegorico e semplificatore del tratto e delle corrispondenze, che non cerca la consolazione del pathos e neppure di mitigare la durezza della deriva nel nulla m induce lo sguardo alla pietà creaturale verso il corpo che muore, spinge a rivolgerlo al tragitto non breve che ad esso conduce, lo vincola a ripercorrerne con pazienza tutte le stazioni, ad amarne le esitazioni e gli affetti, i tremori e le passioni, le paure e gli slanci, a patirne gli errori e riconoscerne gli infine necessari – se mai prima casuali e arbitrari – radicamenti.

La duplice Passione di Xerra ci ricorda, in conclusione, la lucida emozione di Elias Canetti, che seppe poi fars
ene guida nel discendere a sondare gli abissi dell’abiezione umana, quando osservò di fronte al Cristo morto di Grünewald: “Guardavo il corpo senza lacrimevole smarrimento, lo stato orripilante di quel morto mi sembrava vero, e davanti a quella verità compresi ciò che mi aveva turbato nella altre crocifissioni: la bellezza, la trasfigurazione. La trasfigurazione si addice al concerto degli angeli, ma non alla croce. Ciò da cui nella realtà avremmo certo distolto lo sguardo con raccapriccio, qui, in questo dipinto, era ancora possibile coglierlo nella sua pienezza: un ricordo dell’orrore che gli uomini si procurano l’un l’altro”. Ma, anche, sembra quasi che ci dica: “Lascia il punto di vista del nulla all’abisso che sprofonda su se stesso: sei il punto vivo che continua a cadere. Non poi per così poco”.


Andrea Borsari, 2000