Immagini per un profilo di William Xerra



1. Gli anni sessanta.

Primi incontri tra parole e immagine

Le immagini di questa collezione dedicata all’arte di William Xerra consentono di ricostruire in modo esemplare il percorso dell’artista negli ultimi vent’anni, attraverso le fasi più significative della sua ricerca, condotta sulla sottile e sempre diversa interrelazione tra immagine e parola.

Prima del ciclo dei cosiddetti “VIVE” che inizia nei primi anni settanta, e da cui questa collezione prende avvio con quattro opere rilevanti dal 1972 al 1977, il lavoro di Xerra ha conosciuto un breve periodo di pittura legata a suggestioni di carattere informale. Ma già attorno al 1966-67 i modelli astratti o figurativi della pittura non reggono di fronte alla necessità di affidarsi al linguaggio verbale, usato in modo trasgressivo dell’ordine comunicativo convenzionale.

Accanto a questo affioramento della parola disarticolata e dissacrante c’è anche il tentativo di materializzare nella spazio un rapporto fluido e mobile con l’ambiente, attraverso la creazione di oggetti costruiti con un occhio rivolto alla realtà e l’altro all’immaginazione. Ci troviamo di fronte a un gioco di rimandi ironici, una sete di occupare la spazio in tutti i modi, con dimensioni e rapporti inconsueti.

Vediamo Xerra costruire luoghi fatti di superfici riflettenti e inventare strutture sagomate in cui lo sguardo dello spettatore deve cadere come un trappola mentale dove le superfici diventano strumenti intercambiabili della rappresentazione. Queste operazioni condotte nell’ambiente costituiscono una fase della ricerca di Xerra che viene prontamente superata da un forte e definitivo interesse verso la cultura letteraria della cosiddetta “poesia visiva”, un movimento d’avanguardia attivo già da alcuni anni a livello internazionale.

Sottolineare, dunque, che alla fine degli anni sessanta Xerra è attratto dal comportamento dei poeti e dei pittori che sperimentano un “incontro di codici”, un intreccio dei linguaggi e una reciproca tensione tra poesia e pittura, significa cogliere lo spazio culturale a cui il giovane artista si riferisce come scelta di tipo linguistico ed esistenziale.

L’incontro e la frequentazione di poeti come Corrado Costa, Giorgio Celli, Emilio Villa, Sebastiano Vassalli e Antonio Porta gli consente di respirare un’aria ancora fortemente intrisa dello sperimentalismo della neo-avanguardia italiana. All’inizio degli anni settanta con Corrado Costa pubblica il libro-oggetto “Il gran voyeur” e realizza “tre poemi flippers” che lo proiettano verso una complessa identità dell’atto creativo, non riducibile al solitario progetto mentale dell’opera ma aperto a molteplici e improvvise intrusioni di altre forme di sensibilità.

Siamo pienamente immersi nel rapporto tra diversi codici proposti dalla poesia visiva, un’operazione di vasta importanza che da un lato affronta la crisi del linguaggio poetico e dall’altro dilata le possibilità dell’arte visiva in senso stretto. Nei “flippers” le parole sostituiscono i punti di scorrimento della pallina, prendono il posto dei numeri fissi sulla schermo e costituiscono in tal modo un poema visivo ricco di combinazioni tra parole e immagini.

Sempre nei prima anni settanta Xerra realizza sculture che sono soprattutto situazioni di comportamento spaziale che il pubblico deve saper assimilare, ogni mostra dedicata a questa ricerca viene intitolata “Labirinto scultura ambiente” quasi a significare la necessità di spostare l’attenzione sul processo di trasformazione dello spazio-scultura, non sull’oggetto singolo in quanto tale.

Contemporaneamente l’artista si muove sull’idea della cancellazione, dell’occultamento di parti d’immagine; lo vediamo lavorare sulla definizione estetica di “lapidi” in cui è stata sostituita l’immagine del volto con uno specchio. la cancellazione del ritratto del defunto e non del nome rappresenta un gioco tra presenza e assenza con cui Xerra fa costantemente i conti nel suo esperimento d’immagine.

L’artista affronta questa problematica anche nell’operazione sulla storia della Madonna del Pero la cui apparizione non avviene o, meglio, viene cancellata e documentata come assenza da un gruppo di artisti e di critici, tra i quali Pierre Restany che scrive a questo proposito: “Il miracolo demistificato incarna la presenza della propria assenza. Il mistero diventa gioco”1.

È questa una fase concettuale che permette a Xerra di indagare le strutture del linguaggio come strumenti di critica della spazio della rappresentazione, come oltraggio dei limiti imposti dal sistema dell’arte, operando verso una trasgressione continua delle sue regole di produzione e di ricezione.

2. Gli anni settanta

La parola VIVE come immagine costante della scrittura

Tra le immagini di questa collezione ci sono alcuni importanti esempi, come dicevamo, dalla serie intitolata “VIVE“, uno dei cicli di Xerra più conosciuti e riconosciuti dal pubblico e dalla critica militante.

Queste opere sono datate tra il 1972 e il 1977 e documentano le differenti strategie linguistiche che il nostro autore propone nell’ambito dei rapporti tra scrittura e pittura. Nell’opera del 1972 l’artista interviene con segni di inchiostro su un foglio su cui sono stampate otto pagine tipografi che
pressoché illeggibili in virtù della sovrapposizione delle righe. Alcuni segni di sbarramento e crocette di cancellazione appaiono qua e là, insieme con la parola “Vive”, riferita ad un particolare punto della pagina, e scritta di proprio pugno come usa fare il correttore di bozze per recuperare un parte del testo, anche una breve parole che ha cancellato precedentemente. Un’opera come questa colloca la ricerca di Xerra in un abito ben preciso che riguarda le radici della poesia visiva nell’avanguardia storica di Duchamp a Man Ray, ma anche nell’ambito della neo-avanguardia, con dichiarato riferimento alle pagine cancellate che un altro artista italiano, Emulio Isgrò, aveva reinventato con tempestività nel 1964 sui medesimi modelli storici.

“Nei confronti della altre declinazioni della poesia visiva, che tendono piuttosto alla complessità del messaggio e ad una articolazione linguistica spinta spesso fino al limite della ridondanza, l’opera di Xerra si situa, in questo momento, in una postazione abbastanza diversa, se non addirittura opposta. Semmai, essa fa pensare alle prove di Isgrò, alla abolizione dell’immagine e alle cancellazioni con le quali l’artista dà una risposta alla sovrabbondanza comunicativa della ionosfera urbana mediata dalla pop art. Xerra si colloca dalla stessa parte e non è un caso che una sua opera rechi insieme, a mo’ di exempla, una cancellazione di Ma Ray e una di Isgrò, accompagnate però dal termine “vive” vero e proprio leit-motiv della sua poetica”2.

Questa consapevolezza di lavorare all’interno di una “tradizione del nuovo” radicata nelle ricerche d’avanguardia del nostro secolo non impedisce a Xerra di fissare i termini della propria originalità, del proprio stile inconfondibile costruito su un atteggiamento rigorosamente concettuale, non intellettualistico, e su una capacità di sostenere l’esperienza esecutiva dell’opera con diverse tecniche di montaggio
. Se infatti “Vive” del 1972 comporta come abbiamo osservato, un semplice intervento grafico sulle tracce della composizione di otto pagine tipografiche, in “Vive” del 1975 gli interventi sull’incisione d’epoca di un libro di anatomia sono più complessi anche se mantengono una loro rigorosa impaginazione. Si tratta di un rettangolo nero che occulta la parte centrale dell’immagine citata, a sua volta cancellato in parte da un colore chiaro su cui l’artista ha scritto in rosso, simulando una scrittura a stampatello, la parola VIVE. I significati che si possono evincere sono molteplici e quasi tutti plausibili di effettivi legami con ciò che si vede sulla pagina. Vive l’immagine della cultura del passato, vive il grembo della figura femminile rappresentata nella tavola atomica del libro, vive l’immaginazione dell’artista di fronte alla conoscenza scientifica dell’uomo, vivono infine le possibilità di inventare continuamente nuovi orizzonti per la comunicazione intersoggettiva, anche a partire da un semplice frammento visivo.

Quello del frammento o del dettaglio di una immagine è, del resto, un tratto linguistico che Xerra usa costantemente e che va oltre la dimensione specifica di queste opere dedicate al “Vive”. Tuttavia in esse compare con grande suggestione, soprattutto là dove l’artista le utilizza come reperti diretti, come materie da inserire sulla tela e con cui costruire il tessuto dell’opera. In “Vive” del 1976 una freccia raccorda la parola “vive” con quel punto della tela antica la cui rappresentazione si fa vaga, quasi irriconoscibile, cancellata dall’usura del tempo, essendo svanita l’immagine con la caduta del colore.

“Xerra cancella sezioni della realtà, pone in rilievo figure secondarie,
aspetti marginali, Xerra vuole dunque recuperare una sezione del mondo che è cancellata, che è rimossa. (…) Dunque il sistema della cancellatura e dell’affioramento dei particolari è un modo per recuperare ciò che viene escluso, esattamente come lo specchio al posto dell’immagine sulla pietra tombale era modo per recuperare il fatto della nostra stessa morte, un fatto cancellato”3.

Tuttavia bisogna riconoscere, al di là delle pur preziose letture psicanalitiche, che prevale un fondamentale interesse estetico nella scelta di questi frammenti utili alla costruzione fisica della superficie.

Xerra inserisce queste parti di dipinti ritrovati sì con l’intenzione di riscattarli dall’anonimato della storia, ma senza alcuna intenzione culturalistica e senza adesione verso le nascenti poetiche della citazione, della storia dell’arte o di altri codici.

Tutto il meccanismo del linguaggio di Xerra parte da premesse anteriori, l’operazione proviene sempre da quel versante della poesia visiva attento al valore fisico dell’immagine, dunque attirato dalla semplice veste materiale e materia di questi frammenti, dalla loro consunzione fisica e dal fascino del loro colore consumato, dunque da quel particolare  tono pittorico che essi assumono in rapporto agli altri elementi. Comunque sia, la parola “Vive” dà nuovo senso a quella parte dell’immagine citata a cui essa si riferisce, solitamente una parte cancellata, distrutta, invisibile, corrosa, incapace di comunicare se non lo spazio vuoto che occupa nel campo visivo
totale.

Nell’ultima opera di questa collezione dedicata al “Vive”, 1977, il gesto sospeso della figura sacra di un antico dipinto assume il senso di un nuovo spazio pittorico assorto su se stesso, silenzioso e muto di fronte alla posa incontrastata di quel minimo frammento di tela, steso su un altro frammento rettangolare di tela, a sua volta appoggiata ad un’altra tela di fondo su telaio interinale. Tutti questi passaggi di materiali affini consentono all’immagine di mantenere un tono quasi monocromo che non distoglie l’attenzione del lettore dal rapporto linguistico tra la parola e l’immagine, questi due universi provenienti da spazi e tempi tra di loro distanti che Xerra riesce ad evocare nel luogo unico e isolato dell’opera.

Né va dimenticato che la parola “Vive” è uscita diverse volte dalla pagina o dalla tela in cui è stata originariamente pensata. Xerra ha infatti dedicato negli anni settanta, parallelamente a queste opere bidimensionali, un discreto numero di azioni che si collocano oltre lo spazio di fruizione della galleria d’arte. La parola “Vive” assume una funzione magica e quasi sacrale, entra negli ambienti più diversi, nel 1978 viene per esempio apporta nel “percorso rituale nei sassi di Matera” dove è scritta su un vetro trasparente che si infrange al culmine del percorso medesimo. Nello stesso anno Xerra usa “Vive” nei riguardi di Venezia forse immaginando la salvezza di questa città-mito, e al tempo stesso ironizzando sulla sua identità sempre più mondana, lontana dall’essere un luogo creativo dell’arte.

3. Gli anni Ottanta

Rivelando infiniti frammenti di immagini perdute.

Torniamo alle opere della collezione e agli infiniti tramiti suggeriti dai degni e dai colori che emergono sotto il vigile controllo dell’artista.

Ci sono per esempio due carte del 1982 e del 1983 che insinuano nel percorso di Xerra un diverso clima di lavoro, lontano sia dagli interventi ambientali, (sculture, oggetti, azioni) sia dagli esiti legati alla poesia visiva e ai suoi riflessi più o meno concettuali. Si tratta di due opere che mettono in luce l’apertura immaginativa dell’artista, che entra ed esce dai suoi giochi linguistici e
mantiene sempre un grande piacere verso gli strumenti tradizionali del disegno e della pittura. In “Verdissimo” (1982) il colore nominato e scritto con tanta determinazione assume invece l’aria rarefatta di una luminosità appena percepibile. Il disinvolto uso del pastello e l’indubbia garanzia del segno dominano i motivi della rappresentazione con un senso di fugace memoria delle immagini, quasi sciolte dai loro vincoli iconografici di cui Xerra tiene pur sempre conto. Una libera grafia e una lirica adesione del colore alle figure che vagano nel bianco costituiscono il clima originale dell’alt
ro foglio intitolato “Di vetro”, 1983. La visualità dell’opera prescinde dall’insieme dei significati che l’artista condensa sulla carta con parole allusive ad una animalità selvaggia e quasi primitiva delle forme. Con un repertorio immaginativo legato alla memoria Xerra disegna profili, ritratti primordiali, segni e tratteggi, tramiti visibili con cui capta le forme dell’inconscio. L’uso del collage permette inoltre di attirare qualunque materia nel valore scenico e cromatico della pagina, come suggerisce la cartina dell’arancia, la figurina riflessa nel disegno da un lato e nell’ombra gialla dall’altro.

Opere di questa natura consentono una lettura piacevole di ciò che si vede e di ciò che il titolo suggerisce, isolando solo alcune parole tracciate sulla superficie.

Tuttavia non si può comprendere fino in fondo il contesto esistenziale e culturale che ogni immagine mette in gioco, troppo fitti sono i riferimenti, le citazioni, gli incastri di senso che l’artista sollecita in spazi così brevi e condensati. Bisogna allora preoccuparsi di “capire con gli occhi” il valore del montaggio e della decostruzione che Xerra opera come metodologia di una nuova conoscenza, senza gerarchie tra parola e immagine ma con una infinita e reciproca possibilità di sconfinare “altrove”, là dove non c’è punto di partenza e neppure punto di arrivo.

Interessa dunque il processo di queste congiunzioni fisiche e mentali, per esempio in “Tre frammenti”, 1986, un rigoroso collage di carte e brani di tela dipinta, secondo la consueta e complessa tecnica su telaio interinale, offrono il clima della gamma pittorica che Xerra va
recuperando a metà degli anni ottanta, con tutti gli elementi del suo linguaggio in perfetto equilibrio. Vediamoli: c’è il supporto come rovesciamento del rapporto consueto con la pittura, l’inserimento di dettagli di tele antiche come galleggiamento del tempo passato nel tempo presente dell’opera, ci sono le parole scritte come testimonianza della propria autografia, il colore lieve e trasparente come luce immateriale che inonda tutta la superficie, il segno della matita che talvolta collega punti lontani nella spazio e talvolta definisce con leggere sfumature i bordi dei frammenti. Tutto concorre a trasformare gli strumenti descritti in possibilità di visione assoluta che, per paradosso, avviene attraverso porzioni incompiute della scrittura e della pittura.

“Quello che accomuna sempre i diversi lavori è la voluta ricerca di una spiccata asimmetria; per cui l’equilibrio stesso dell’opera non è mai statico, ma è sempre dinamico e quindi lontano dal tipo d’impianto quale avrebbe potuto essere quello dei recuperati lembi di tele antiche. Anzi, è proprio il contrasto tra l’impostazione asimmetrica di questi lavori e quella certamente simmetrica delle vecchie tele qui utilizzate a conferire una ulteriore nota di spaesamento all’intera vicenda creativa”4.

Ciò che risulta evidente è che ogni opera è un organismo collegato agli altri ma anche un testo autonomo e specifico, almeno per il tipo di frammenti di originali o di copie di altri artisti esibiti o di disegni riprodotti di propria mano da Xerra. Il repertorio è ampio e di non semplice decifrazione, come ap
pare nel santo di cui si scorge solo un gesto nel “Mare dei benefizi”, 1984, oppure nella figura in alto di cui si osserva solo una gamba accanto all’ovale celeste della “Casa all’inferno”, 1984.
Coma abbiamo visto, Xerra si serve in questi anni di n
umerose citazioni di tele antiche, esse occupano un ruolo diversificato pur rimanendo fedeli all’ideologia di fondo, che è quella della sorpresa e dello spaesamento linguistico, e soprattutto dell’ironia.

Un volto di donna “importato dall’Italia, terra d’aranci” domina il poema visivo dedicato alle figure della “Madonna bambino e santi”. Il dettaglio di una figura diversa in avanti diventa nel titolo “Come verso”, creando doppi sensi e sottili incroci tra parola e immagine. D’altro lato due frammenti che rappresentano la bocca i una donna stanno in scena a rivelare il “talento di Maria”.

L’idea di rivelazione è del resto uno dei concetti più cari al fare linguistico di Xerra; in “Rivelando”, 1988, sembra che siano solo segni muti a costituire il fragile appoggio per l’occhio che vaga da un punto all’altro della tela in cerca di signif
icati degni di essere vissuti.

L’artista è proprio colui che comunica l’atto della rivelazione, non importa che cosa si svela o si rivela, decisivo è riconoscere quanta esperienza si afferra in questo difficile procedimento creativo. Rispetto al problema della citazione Xerra non è mai categorico: che si tratti ora di una pittura religiosa del seicento o di un disegno di architettura del settecento poco importa, ciò che conta è il grado di ambigua suggestione che ogni citazione riesce a sollecitare, lo spazio di interpretazione che sa alimentare al di là di sterili ragioni culturalistiche.

“Non si tratta di certo citazionismo attuale secondo cui l’arte non avrebbe più avvenire. Il discorso di Xerra è un altro: l’arte si trascina dietro il passato come una lunga catena affascinante, ma questo passato è usato per mostrare con spregiudicatezza l’aspetto nascosto dell’elaborazione delle fonti iconografiche. Il modo più corretto per guardare l’opera di Xerra mi pare sia proprio questo: di cogliervi la testimonianza dell’uso libero, poetico, ironico di tutti gli elementi messi in gioco: è un’opera di sapienza e persino di virtuosismo, ma anche di estremo pudore per quel suo svelare l’anima a poco a poco”5.

“Una mano nell’opera sua”, 1989, costituisce un altro esempio di quest
a libertà d’azione che Xerra reclama per la sua ricerca di sospensione dei significati dell’immagine. La costruzione dei rapporti tra parola e immagine si fa sempre più sintetica, una zona oscura e segreta si affaccia in un clima di geometrica luminosità, una circonferenza virtuale s’interseca con una rigorosa definizione dello spazio al quale tuttavia sfugge sempre qualche evento del colore e del segno. Il procedimento creativo di Xerra il carattere di una lente e inesauribile introspezione durante la quale vengono individuati i luoghi della memoria, i segni sedimentati della cultura e i labirinti sempre aperti dell’immaginazione, Questa componenti agiscono simultaneamente, non è possibile dividerli, sono diventati ormai il magma espressivo e comunicativo dell’artista, un impulso insopprimibile che proietta questi dati interiori verso una nuova comunicazione.

4. Verso gli anni novanta

Nuovi pensieri pittorici e altre tentazioni creative

Abbiamo finora registrato una costante presenza del titolo a sostegno del già complesso livello verbale e visivo che l’artista è solito sollecitare. La titolazione ha infatti la funzione di spiazzare la lettura dell’opera oltre lo straniamento già presente nel testo visivo.

Tuttavia ogni buona regola ha la sua eccezione. Nel nutrito gruppo di carte recenti, 1989-1991, di cui si avvale il profilo di questa collezione, non compare infatti l’uso del titolo, sostituito dalla classica forma “Senza titolo” di cui i pittori dell’arte astratta contemporanea hanno fatto largo uso.

Questa scelta risponde alla precisa volontà di concentrare la lettura sul linguaggio visivo in se stesso, sprovvisto di qualunque strumento di racconto o di spiegazione dell’immagine. Dunque, le carte “senza titolo” che Xerra ha inventato negli ultimi anni indugiano più sul versante della pittura che su quello della poesia visiva o dell’arte concettuale. Si tratta di puri pensieri pittorici c alberati nel sapiente uso del collage, del disegno, del pastello o dell’inchiostro, come se si trattasse di evocare altre soglie, altri spazi dell’immaginazione.

La preziosità della carta, che l’artista sceglie come immagine di partenza già ricca di luminosità pittorica costituisce lo spazio privilegiato per questi respiri leggeri del colore, segni fragili, minime citazioni ridotte a ironiche figurine della storia dell’arte, tratteggi veloci e macchie di pensiero rivolte verso la memoria individuale e collettiva.

“Questa vocazione al ricorso si trova anche nelle opere recenti, in cui sullo sfondo di un azzurro malinconico e fluviale si allineano ritagli di colore, digrammi, scritture di quaderno, reperti di icone, bende e garze grafiche. La composizione si è fatta ora quasi esclusivamente pittorica, più omogenea rispetto al suo tessuto, spesso giunge ad una essenzialità costruttiva giocando con la nitidezza della geometria, con l’intersezione calibrata delle diagonali, con la tagliente perentorietà dei perimetri”6.

Anche se le tecniche di montaggio e di sconfinamento tra parole e immagini sono quelle che ben conosciamo in Xerra, bisogna sottolineare che il clima di questi fogli è del tutto estraneo all’austera presenza delle tele, somiglia quasi al rapporto che intercorre per un pittore tra l’incantevole esercizio dell’acquarello e il rigore costruttivo della pittura a olio. Ma non è proprio così; infatti nella carte di Xerra c’è una proiezione mentale verso uno spazio che va oltre queste forme e queste tracce fissate con immediatezza sul foglio. C’è un’ambizione da parte dell’artista di tornare a fare i conti con l’ambiente, con le installazioni di materiali in luoghi aperti, con l’intervento su scala ben diversa di quella cui la pittura è comunque soggiogata.

Si coglie in sostanza un senso di appunto provvisorio, ma non per questo minore, di terapie da tenere a mente per un ulteriore approfondimento. Osservando questi puri concetti spaziali si avverte che se non parlano come di consueto, proprio per assenza del titolo, pur tuttavia sprigionano dal loro silenzio assoluto e dalla loro sintesi visiva un forte impulso a travasare queste energie altrove, nell’ambiente, comunque fuori sa foglio.

“Nel passaggio dalla scrittura-pittura alle attuali ‘proiezioni’ William Xerra ha illustrato ancora una volta la sua sensibilità organica della mobilità nello spazio interno del suo immaginario. La tela, il telaio, la pagina bianca sono dei concetti spaziali che corrispondono a laconici influssi poetici del pensiero attivo di Xerra. Una cornice che non chiude, ma che delimita la fine del discorso retorico e l’inizio della grande libertà dello spirito. Un confine insomma che si apre su due campi uguali della stessa libertà”7.

Basta infatti tornare al nuovo e recente impegno delle tele e osservare “De Umbris idearum”, 1992, per verificare l’ansia di vastità e di confronto con la di
mensione aerea della pittura, con la collocazione spaziale della misura antica della pala, e con ulteriori dilatazioni parietali.

Non sappiamo se la pittura saprà da sola soddisfare questo desiderio innato di invadere lo spazio e di avvolgerlo in quella dimensione fantastica che Xerra persegue da oltre vent’anni; certo è che ogni nuova mossa non potrà ignorare tutti gli strumenti già sperimentati, dalla pittura all’happening, dal foglio al libro-oggetto, all’azzardo di immagini sempre sconcertanti. Tali sono per esempio gli oggetti o, se si vuole, le sculture parallele ai dipinti di questi ultimi anni, vale a dire le combinazioni eccentriche di forme quotidiane che creano forme irreali, surreali e anche metafisiche, come si è recentemente visto in una rassegna vicina al design curata da Restany. Come giustificare la distanza da queste opere dal soffio delle carte pittoriche di cui abbiamo parlato, come interpretare la manipolazione fantastica di oggetti d’uso rispetto al clima di una ricerca che fa riferimento soltanto all’utilizzazione di una propria archeologia interiore, privata e folle, assoluta e per nulla domestica?

Non c’è giustificazione alle direzioni contrastanti che Xerra per temperamento ha sempre affrontato; l’arte di “errare” è il sintomo della sua intima vitalità. Spostarsi da un luogo all’altro significa vuotarsi e riempirsi di nuovi stimoli, da un lato disegnare forme imprendibili, dall’altro affermare oggetti per un nuovo uso.

Xerra non ha infatti soluzioni ma una capacità irriducibile a rivelare le parti nascoste della realtà, a riscoprirle e farle di nuovo vivere sulla via del territorio davvero creativo, ambiguo e indeterminato, perfino irresponsabile, come è il linguaggio dei poeti.

Claudio Cerritelli, 1991


NOTE

(1)P. Restany, testo di accompagnamento all’happening in S. Damiano di Piacenza (26/10/1973), “Verifica del miracolo”, edizioni Vanni Scheiwiller, Milano 1976

(2)F. Menna, Le parole della pittura, testo inedito del 1988 pubblicato in catalogo mostra Galleria Mazzocchi-Parma, febbraio-marzo 1990.

(3)A.C. Quintavalle, Xerra e il rimosso, in “Vive”, edizioni Geiger 1976

(4)G. Dorfles, Unità estetica nell’opera metasemantica in Xerra, in “Xerra, ellera, errare, strale”, Nuova Prearo Editore 1985

(5)R. Boscaglia, La tela come spazio condiviso, in Gran Bazar, n. 57, Milano 1987

(6)E. Pontiggia, Il refuso, il ricordo, in catalogo mostra Studio Steffanoni 1991

(7)P. Restany, La verità dell’apparenza è poesia, in catalogo mostra Studio Steffanoni, 1991