L’Innesto tra lo spazio e la parola “forma l’esecuzione tra il manico dell’ascia e la crescita delle piante”

Alla fine degli anni Sessanta Xerra, stimolato dal rapporto con i poeti, amplia la ricerca sullo spazio-ambiente ed esplora la linea di confine di un altro campo, in virtù del quale alimentare il gesto con nuove sperimentazioni.

Già nelle serigrafie del 1967-68 Xerra lavora con le forbici, ma è con i collage per Uno spazio dopo che il taglio acquista un significato pertinente alla ricerca sullo spazio-tempo estesa al segno. Ciò appare chiaro nella serie degli Innesti, dove il taglio si rivela, nell’immagine efficace della talea (cat. 284), indice dell’innesto. Quando Costa scrive, “l’innesto fa aderire, salda in uno dei due di qualcosa di diverso in cambio sta nel mezzo, forma l’esecuzione, insiste sullo stacco”, dobbiamo pensare al linguaggio come al campo in cui il taglio, che non è, bene inteso,separazione,
né cesura, si innesta, cioè a dire intreccia, unisce, stabilisce un collegamento. In Innesto del 1969 nella sagoma si innesta una forbice, già strumento dello stacco fra pieni e vuoti, che insiste, in questo caso, sull’articolazione del linguaggio. Nella poesia Innesto del 1970, Costa fa risaltare la funzione sostitutiva e restitutiva della parola che ben emerge nella figura del chiasmo18, e Xerra, nella serie degli
Innesti, sa cogliere il senso profondo dell’innesto tra lo spazio e la parola che forma l’esecuzione tra il manico dell’ascia e la crescita delle piante, e mette in figura la linea intermedia al margine della scrittura.
Questo appare chiaro nella sagoma disegnata come fosse una scultura, nella quale si innestano segni alfabetici e una freccia. Una scrittura intermittente, che serba il ricordo dei personaggi lirici di Licini, pur tuttavia non silente o sospesa, bensì innestata con sottili fili, memori della tradizione postsurrealistica di Menotti, al campo del linguaggio. La freccia di Xerra insiste sullo stacco, è un segno grafico che indica la posizione mediana, quella del collegamento tra le cose che sono quelle che mancano e, dunque, l’orlo, il margine, il contorno, tutti vocaboli che ricorrono nella poesia di Costa. E se il confine della parola è una crepa
nel reale, la poesia ne azzarda la sutura. Nelle fotocopie del 1971 per Seguendo uno dei due, con innesti di parole frammentate, ma ancor più negli interventi per il libro Innesto del 1972,
dove magmatici addensamenti disegnati a spruzzo, quasi impronte di spugnature alla Klein, smaterializzano il foglio e lambiscono il margine della pagina, compaiono parentesi, frecce e asterischi. Sono, questi, elementi importanti del lavoro di Xerra, segni grafici che attraversano la pagina e ritroviamo anche nella poesia di Costa. Ci spetta solo un quarto di parola, scrive Costa19, si parla con un quarto per muovere i restanti tre quarti della parola, che non appartengono a un orologio che fa a meno del sole e dell’ombra. A una parola fatta di vento, geografia, suono, emozioni, terrore, alludono dunque, la parentesi e la freccia.
È appropriato attribuire rilevanza agli Innesti perché il taglio, che approda da questo momento al campo del linguaggio iconico e verbale, è un gesto fondamentale del percorso di Xerra, che torna, senza soluzione di continuità, con articolate motivazioni, dalla serie Amore alla poetica del frammento. D’altra parte se la poesia di Costa esibisce correzioni, parentesi e frecce, utilizzate da Xerra negli Innesti del 1972, la freccia
si rivela una componente integrante del “Vive”, che nello stesso anno fa il suo esordio sulle stampe tipografiche ripetutamente sovraimpresse, usate per avviare i macchinari in tipografia. Xerra, che negli anni Sessanta e nei prima anni Settanta lavora all’ufficio pubblicità della Rizzi Donelli Breviglieri, ha una quotidiana dimestichezza col lavoro in tipografia e la grafica editoriale, ma guarda con attenzione diversa alla scrittura illeggibile delle stampe destinate alla distruzione. Apponendo il Vive sulle stampe recuperate,
Xerra, innanzitutto, effettua un gesto di critica nei confronti fell’opera d’arte “rara e preziosa” destinata al mercato, effettua un gesto che, in primo luogo, è riscattato dall’accidentalità e provvisorietà dei comportamenti quotidiani, inclusi gli incidenti imprevisti affioranti nelle cose di uso comune, qui un oggetto di scrittura, che trova agganci con il concetto di intermedia introdotto da Higgins e congeniale alle scelte dei fratelli Spatola20. Il riferimento storico e, dunque, l’iconografia del Vive è, come rileva Quintavalle21, il lavoro di Duchamp e Man Ray, e di legami con il gesto dada e il ready-made parla Tagliaferri22. Nell’interesse per il rimosso e il marginale, Xerra porta avanti, nell’alveo di una modificazione irreversibile il cui punto di partenza sono il dadaismo e il futurismo, l’abolizione di un’idea d’opera d’arte realizzata con i metodi tradizionali, ma non dimentica neppure gli interventi dei Nouveaux Réalistes, ai quali rende omaggio in un’opera del 1972. Xerra tuttavia non aderisce ad alcun gruppo e sceglie una strada tutt’affatto peculiare, una personalissima indagine dagli elementi contingenti e contradditori delle scritture, sia iconiche sia verbali. Nel Vive sono presenti due fasi, la cancellazione e la riabilitazione dell’affermazione negata; il primo di questi momenti è, come si evidenziava, recupero della provvisorietà e indicazione della dissoluzione delle frontiere tra arte e pubblico, ma anche segnalazione della inadeguatezza del segno e dell’indeterminatezza della espressioni linguistiche23. Xerra guarda con diversa attenzione alle stampe sovrapposte e illeggibili, ma la sua non è una scrittura negata, né azzerata, pensiamo ai testi illeggibili di Agnetti in Obsoleto, agli spartiti musicali di Marocco, agli Zeroglifici di Spatola. Il Vive di Xerra pone in primo piano un’altra questione, l’indicazione del margine tra presenza e assenza, che si insinua ai bordi della scrittura o tra le quinte della scena, e fa risaltare la frammentarietà della rappresentazione e del linguaggio. L’emergere nel Vive d’alcuni segni-ideogrammi, in particolare la freccia e la parentesi, stabilisce nessi di grande interesse con correzioni di Costa e le opere di Villa; la freccia indica qualcosa che non è visibile, la cui assenza non deriva dalle cancellature, ma è obliata nell’orlo della scrittura cancellata. Il Vive e altri segni grafici, l’asterisco che segnala una sostituzione o la “V” che indica il punto in cui deve essere attuato l’inserimento di una parola nel testo, vengono dal gergo dei correttori di bozze: Xerra riabilita, quindi, il margine che separa il due campi della scrittura, un confine labile e ambiguo, come a dire una temporalità diversa, quella del doppio, dove il “vive” e il “niente” si riflettono, come in uno specchio.
Di segno diverso è l’immissione di nuovi segni grafici nel lavoro di Isgrò, pensiamo a Jacqueline del 1965, dove la freccia è un segno linguistico che indica un’assenza provocata, quella della parola o dell’immagine, per mettere in risalto la critica alla ridondanza della comunicazione di massa e l’insensatezza dei suoi codici, eliminandone le tracce.
Xerra punta sulla stratificazione della memoria, sul sovrapporsi dei tempi e della culture e nei Vive del 1973 interviene con cancellature e stratificazioni della materia pittorica, stesure di colore bianco, nero o argento, su minute di atti notarili del XVII o XIX secolo. L’utilizzo di antichi e disusati fogli manoscritti è una riflessione sulla calligrafia, sulla storia della scrittura: Xerra recupera tracce della normalizzazione della grafica, quella laica e mercantile, legata all’encomio, lontana dal rapporto col sacro e col corpo, e nella materialità del gesto cancella ogni garanzia di autenticità, motivo, questo della corruzione portata dall’usura nella perversione del linguaggio, sul quale insiste Pound, al quale, in questi anni, Xerra si accosta con attenta considerazione.
In un manoscritto del 1733 con interventi a collage (cat. 351), Xerra inserisce un’immagine del flipper e la scrittura «per non rifare la stessa strada / con la tintura che cambia colore», evidenziata da uno spesso strato di tempera nera e argento, e alla minuta notarile sovrappone, quindi, il frammento di un gesto poetico legato a uno strumento tecnologico. Altrove è la calligrafia, intermittente e illeggibile, a essere riabilitata dal Vive come atto erotico e amoroso, che trasgredisce l’origine mercantile della scrittura occidentale, un gesto che ritrova il piacere della materia pittorica dei primi anni Sessanta. Nel Vive delle stampe tipografiche il gesto è correzione, indicazione della memoria, del tempo sospeso tra parentesi, mentre il progetto della poetica flipper è un’azione che procede oltre il concettuale, da Beuys a Merz a Pascali, che è statico e prolifera sull’impulso e sull’improvvisazione del probabilismo emergente nella casualità della frase. L’idea di scomporre e ricomporre un flipper trasformando i numeri sul quadrante con innesti di parole che ad ogni scatto della pallina si combinino a formare poemi sempre diversi, nasce nell’autunno del 1971. Per Xerra e Costa l’unica logica possibile è l’ambiguità percettiva connessa alla casualità combinatoria del frammento segnico nella frase. La poetica del flipper, quantunque nasca da casuali combinazioni, dista dall’automatismo psichico teorizzato da Breton ed Eluard, dacché non è l’inconscio a essere agito nel poema improvvisato, bensì è il congegno dei dispositivi elettronici azionato con il concorso dei visitatori a determinare frammenti di poesia24. È un’arte ludica, quella della logica combinatoria fatta di scatti ritmici, che richiama la poetica dada. Intervenire sulla scrittura vuol dire in questo caso oltrepassare il confine tra operazione artistica e realtà tout-court, eluderne la contrapposizione inglobando l’esterno che interagisce nel movimento interrotto dell’attività ludica. La parola esce dall’ovvietà per immergersi in una semantica ambigua, caratterizzata dalla provvisorietà, come nelle poesie che Costa improvvisa leggendo in modo frammentario le pagine dei quotidiani, trasformando le declamazioni dinamiche e sinottiche dei poemi paroliberi, improvvisati e sceneggiati nel teatro futurista di varietà, nella logica combinatoria e casuale dei frammenti di una realtà comune e abituale, innestandovi elementi di surreale ambiguità. Ecco che meglio si comprende il ricorrere di “or”, “ora” e della “&” nel quadrante del flipper, un testo scritto, scenico, pittorico e gestuale, caratterizzato dall’intermittenza della congiunzione tra la virtualità del segno e il rimosso.
In questa versione cinetica di un testo giocato per paradossi, attraverso combinazioni di tipo logico-linguistico connesse all’area della ricerca cibernetica, il coup de dés mostra frammenti che si combinano e ricompongono dinamicamente, ben diversamente dai collage di Ernst, dagli assemblaggi di Schwitters, da décollages dei Nouveaux Réalistes. Lampone, decorato con pelli esotico-coloniali, riecheggia il ricupero polimaterico di Prampolini o di Schwitt
ers, e certe atmosfere sospese della metafisica di De Chirico. Lavare, addobbato con tela bianca dalle trasparenze alla Twombly, fa emergere il mistero de L’Enigma di Isidore Ducasse, rievocato da Xerra in Contiamo i minuti del 1975. Si tratta di un’azione scenica che consiste nella esibizione di alcuni oggetti comuni, una sveglia, delle forbici, un vaso, e così via;
Xerra indica e nomina l’oggetto, prima che questo, seguendo un’accurata messa in scena e recitazione, sia presentato sul palcoscenico da attori che declamano versi alla Balestrini. L’azione ha una precisa durata, un tempo e un luogo ben definito, il palcoscenico, spazio della rappresentazione teatrale.
Gli oggetti sono disposti sul palcoscenico secondo l’iconografia del genere della natura morta. L’artista piacentino attua, in tal modo, anche una critica nei confronti della rappresentazione pittorica. Il problema della rappresentazione, questo è il tema dell’intervento, che termina con l’immagine degli oggetti coperti da un lenzuolo bianco. Gli oggetti sono mostrati, esibiti in breve lasso di tempo, poi scompaiono, ché la loro presenza è cancellata dalla rappresentazione, dall’essere stati nominati:
Xerra ripercorre a ritroso  l’enigma, svelandone l’arcano significato. L’ambiguità dell’oggetto coperto dalla tela è l’assenza delle cose velate dal loro nome.
In Ultima cena un’idea di Flipper non realizzato, di cui si conservano al CSAC i disegni preparatori, Xerra trascrivendo il linguaggio dei fumetti, che già aveva utilizzato negli acrilici, dà voce al muto colloquio tra gli apostoli in un gioco combinatorio nei frammenti di scrittura si giustappongono in poemi cinetici delle immagini. Ecco che il frammento svolge una funzione nuova all’interno dello spazio del racconto. Non sol
o il linguaggio, ma anche la narrazione è parte integrante del gioco combinatorio; in questa logica rientra anche un’opera del 1980, intitolata Bene dove un frammento di tela antica con martirio di San Pietro Martire Domenicano e i lacerti di scrittura emergono nella densa e scura stesura della materia pittorica entro i quadranti di un Flipper, ché questo è lo schema della composizione in cui si inserisce il racconto. Gli innesti di parole, infatti, trasgrediscono la storia narrata nella pittura antica, e tuttavia ne restituiscono la funzione discorsiva, giocandola su paradosso.