Lo specchio e il frammento

Nell’idea della lapidi che nasce in un cimitero di campagna, Xerra è coinvolto dal pathos dell’oggetto dimenticato:
L’artista piacentino non attua lo spostamento di un oggetto al di fuori del suo contesto abituale per inserirlo in un ambiente diverso al fine di rompere la logica consuetudinaria e trasgredire così un modo di vedere che ingabbia le cose negli schemi dell’utilitarismo e dei ricordi. Più precisamente questo è solo un aspetto marginale del lavoro di Xerra, che vuole certo condurre lo spettatore a percepire nuovi elementi e rapporti tra le cose, ma l’oggetto sul quale interviene non ha un valore d’uso, è, invece, carico di un forte significato simbolico.
Nel deragliamento intenzionale del pensiero percettivo Xerra si ricollega al ready-made di Duchamp, adattato alla ricerca di sospendere un evento tra assenza e restituzione25, ma non emerge come tratto peculiare la decontestualizzazione o metamorfosi dell’oggetto della cultura dada.
In luogo della fotografia del defunto l’artista piacentino inserisce uno specchio; anche nel Labirinto si era avvalso della potenzialità dell’immagine riflessa per coinvolgere lo spettatore, ma la fotoceramica è il frammento assente di un racconto che non è più possibile comprendere. Ed è proprio con l’intervento sulle Lapidi che il frammento, motivo dominante del lavoro di Xerra, prende avvio. La sua ricerca all’inizio degli anni Settanta si mostra complessa risultando tangente all’area del concettualismo; pensiamo a Kosuth, a Pascali, di cui va ricordato Requiescant del 1965, ma, in particolare,
al modenese Vaccari, che in Esposizioni in tempo reale n. 2 incorpora lo spettatore, fotografato e bloccato in un istante irripetibile, nell’azione espositiva. Xerra nell’operazione delle Lapidi, che sono già una cancellatura26, tiene conto delle indagini sul linguaggio della fotografia condotte dai fotografi emiliani, da Vaccari a Ghiri, sul filo delle ricerche di Ugo Mulas, che segnano profondamente all’inizio del decennio il rapporto tra arte e fotografia. Xerra alla fotografia sostituisce un specchio, e sicuramente considera l’ambiguità dell’immagine duplicata che caratterizza molte opere di Man Ray, ma pensa anche alla presenza oscura delle cose riflesse. Ripercorre, infatti, la tradizione d’immagine e pensa al motivo iconografico della giovane che guardandosi allo specchio scorge la figura della morte, allegoria della vanitas e memento mori, ma con la sua invenzione ribalta l’iconologia. Xerra attua un deragliamento intenzionale del pensiero percettivo surrogando la staticità degli specchi dipinti e fotografati con l’introduzione di un elemento nuovo: l’effetto estraniante prodotto in chi contempla la propria immagine riflessa nello specchio, fedele a ogni mutevole gesto ed espressione del momento, e l’eternità della lapide di marmo, e il suo essere fuori del tempo contingente. Le Lapidi per Costa, formano un libro di marmo in sfogliabile, una raccolta di storie non più leggibili, ed è, in questo senso, che si deve intendere Antologia, il libro-oggetto realizzato nel 1973 da Xerra in cui Costa soprascrive “niente”. Non si tratta di una raccolta di illustrazioni,
ma nemmeno di un libro inconsultabile, risolto in un apporto visivo immediato, come Libro dimenticato a memoria di Agnetti, pagine bianche tagliate di cui restano solo i margini bianchi, mentre vuoto è lo spazio della scrittura. L’ovale al centro di Antologia, in luogo del volto assente, lascia intravedere, invece, la superficie speculare, e presuppone una temporalità diversa, un racconto. Costa appone la scrittura niente, il nihil della produzione dadaista, e la & del Canto XC di Pound.
Lo specchio ritorna ne Il grand voyeur del 1971, dall’apparenza di un morbido cuscino da toccare come il seno in gomma-piuma ideato da Duchamp per la copertina di Le Surréalisme en 1947. Nel libro-oggetto è inserita la ruota del Flipper, e si susseguono fotocopie di particolari del corpo femminile; a uno di questi, che richiama alla mente il Monumento a D.A.F. De Sade di Man Ray, si con
trappone un foglio a specchio. Da questa giustapposizione deriva il progetto delle Buste riflettenti (1972): l’opera si presenta come uno schermo nero, soltanto se lo spettatore, che svolge un ruolo fondamentale, vi immerge il proprio sguardo essa acquista un senso. Xerra interiorizza il concetto dello svecchiamento, scrive Di Genova27, e le buste, in rapporto alla Land Art, sono il budello dell’ottica. Nelle buste, a differenza della Body Art, non è il corpo dell’artista a essere assunto come mezzo di espressione, ma nemmeno lo spettatore agisce immergendosi nelle buste-utero, come le definisce Di Genova, è piuttosto agito da meccanismi inconsci. Xerra, infatti, solo apparentemente esercita l’organo della vista, che non prescinde certo dalla corporeità (anzi, nel surrealismo l’occhio è l’oggetto sessuale per antonomasia) e attua una riproposta ludica della fase dello specchio, in termini lacaniani, la cui esperienza, tuttavia, incontra gli ambagi dell’anamorfosi speculare provocata dall’inflessione delle superfici specchianti.
Che il frammento origini dall’operazione delle lapidi si evince analizzando Amore, serie del 1973/74,
dove lo specchio gioca un ruolo essenziale; Xerra si rivolge, ora, all’immagine del volto amato, eros e thanatos si rispecchiano l’uno nel riflesso dell’altro. L’artista piacentino utilizza cartoline postali erotiche o di innamorati, immagini fotografiche, ritratti di coppia, dove è ritagliata, volta a volta, la figura femminile oppure quella maschile. Ci troviamo, anche in questo caso, a riflettere sul problema dell’assenza, e Xerra, come nelle lapidi, si confronta con un diverso utilizzo dell’immagine fotografica.
La cancellazione o frammentazione del ritratto fotografico mette in risalto quanto la funzione che questo ha di trattenere o custodire il volto dell’altro sia, invero, d’ordine simbolico. Nella serie Amore Xerra decostruisce il procedimento di costruzione dell’immagine, e nei collegati disegni intitolati Antologia delinea anche il contorno della fotografia e riflette sulla funzione determinante che la cornice svolge all’interno dei meccanismi di ricezione dell’immagine. Tiene conto della pratica analitica della fotografia e scompone la totalità della rappresentazione in segmenti; nella disposizione in sequenza della fotografia e del disegno al tratto delle carte de visite mostra di ripensare a La veuve joyeuse di Picabia e di avere presente gli esempi della narrative art. La scansione ritmica del suo racconto di evidente impianto simbolico crea un effetto di spaesamento che apre a letture additive. Nei collage Amore è lo spazio delle figure ritagliate, è il vuoto, infatti a permettere la circolazione del senso, come indica Lacan, che Costa, quando scrive “al centro c’è il tuo posto / al tuo posto non c’è nessuno”, tiene bene presente28. “La presenza di un corpo non muoverà mai desiderio quanto la sua assenza. E assenza qui non significa che qual corpo non c’è, ma che non si ha mai la sensazione di possederlo (…) è del vuoto che ci si innamora, non del pieno, e perciò amore è trascendenza”, afferma Galimberti29.
Xerra, infine, lascia emergere il conflitto della perduta unità nell’individualità, la sofferenza dionisiaca di cui è metafora la maschera del dio30, un motivo sul quale tornerà nella serie La metà del cuore della metà degli anni Novanta.
L’uso della fotografia sottende, si diceva, una critica nei confronti del procedimento di costruzione della realtà,
ma anche del sistema fondato sulla mimesi, e bene lo dimostrano i disegni della serie Idea di luogo del 197731. L’immagine fotografica e gli altri frammenti sono impaginati secondo una costruzione serrata e geometrica che rammenta certi collage di Schwitters, pensiamo a Worden Ist (1922) o Merz 133 (1924), ciò nondimeno alla misura dei rapporti tra i vari elementi della composizione non corrisponde un’accumulazione dei materiali recuperati, che si dislocano secondo una precisa intenzione critica nell’ampia spaziatura della superficie. I frammenti di fogli manoscritti, i lacerti di scrittura delimitano, infatti, l’immagine fotografica, ne sono, in qualche modo, il bordo, intendendo con ciò palesare una riflessione sullo statuto della cornice come soglia, margine e indice della rappresentazione.