MATERIALI PER RACCONTI POSSIBILI

 
 
 

Materiali per racconti possibili

Sebastiano Ricci, i Farnese e altro


Negli spazi di una mostra non sempre si possono costruire racconti e quello di Xerra, il suo racconto che qui viene esposto, ha radici tanto complesse che gli si dovrebbe dedicare non soltanto una sala, che pure è evento significativo nel rinnovato Palazzo Farnese a Piacenza, ma ben più di questo. Perché, per capire Xerra, si devono vedere i suoi disegni e si deve intendere la sua opera come progetto, come non finito, come dialogo che non si chiude. Così questi sei pezzi devono leggersi, si sarebbe detto un tempo, quale opera aperta; ma su che cosa, e perché mai aperta?

Xerra ha ormai alle spalle alcuni decenni di attività e, dagli inizi in cui si confrontava con lo spazio assurdamente compresso del mantegnesco Cristo morto di Brera, scoprendovi prospettive diverse come nei quadri di Jan e Hubert Van Eyck e di Rogier van der Weyden, da quegli inizi lontani sono passati molti dipinti, anzi, moltissimi. E tutti modellati attorno ad alcuni pochi principi che Xerra ha costruito per proprio conto, anche se non gli sono certo stati estranei la poesia visiva, la cultura del dadaismo – soprattutto Kurt Schwitters con i suoi Merzbau – e l’impianto di Mondrian e di De Stijl. E poi il gusto dell’antico, il sapore della qualità delle pitture del passato, ma anche la sapienza del recupero di quell’antico che viene scartato, abbandonata da tanti: vecchie cornici, tele di rintelaggio, frammenti di pittura che altri ritagliano per rendere vendibili facendo a pezzi e distruggendo le grandi pale.

Tutto questo, ma anche molto altro, c’è nelle scelte di questi anni di Xerra. La idea che le parole abbiano dietro di sé come una traccia, che siano delle comete, che abbiano come una scia di significati, che evochino dunque eventi, che evochino altre parole e, dunque, altre immagini. E Xerra poi ha capito ancora altro, e questo glielo deve aver suggerito Max Ernst che, con i suoi frottages deve essere stato per lui come un antico maestro; ha capito che le imprimature, le tracce sulle superfici, ma anche le superfici stesse intese come materia, come texture, sono importanti; e, del resto, lo avevano inteso prima i cubisti, ma in senso formalista, e lo capiscono i dada, e lo riprendono, questo discorso, proprio i surrealisti.

Così anche l’idea di confrontarsi con i resti, con il passato, con il frammento, diventa idea di confrontarsi con la durata, con la storia. Dipingere è anche costruire un dialogo con la storia. Eppure fin qui non ci siamo ancora avvicinati alla ricerca di Xerra come si dovrebbe; dire quali sono le sue scelte nel contemporaneo e dunque capire la componente moderna della sua lingua non basta a coglierne le radici. Xerra infatti conosce tanto bene l’antico che sceglie la qualità nelle sue opere, individuando una funzione narrativa, evocativa, di questi frammenti ed esponendoli in determinati punti focali, in certe zone critiche dell’impianto dell’opera che egli sapientemente costruisce per via della sezione aurea, oppure di proporzioni legate alla tradizione di De Stijl; come si è detto. Così ecco l’antica tradizione dell’uso dio testi antecedenti e quella nuova che fa adottare l’impianto moderno facendole finire stranamente insieme. Ed ecco insieme immagini e parole, e poi segni improvvisi e netti, di proporzionamento, di taglio, di correlazione. Cui si devono aggiungere le parole che Xerra enuclea, qualcuna di particolare fortuna nella sua ricerca, come “vive”, che è ambigua citazione, si sa, dei correttori di bozze che salvano un rigo, una frase, una parola soltanto, ma che nel contesto di un dipinto di Xerra suggerisce che una immagine – morta – appunto viva, oppure che deve restare qualcosa che prima era scomparso o che non appare evidente, oppure che deve emergere un segno che è stato abraso, scavato, espunto. Insomma la poesia visiva di Xerra è insieme anche un’impresa di restauro e correzione delle bozze delle immagini.

Ma chi guarda i dipinti di Xerra scopre ben di più, scopre una proporzione sublime, un impianto assoluto degli spazi, una sapienza nel calibrare la messa in scena e organizzare le forme che non sono consuete. Nella storia della nostra pittura Xerra, da una ventina di anni, resta un isolato e non perché non conosca ma perché non ha seguito le mode e, se si poteva un tempo collegarlo alla cultura dell’informale, dopo quella fase, che pure gli ha fatto dipingere pezzi importanti, ha preso una strada diversa, che ritroviamo coincidere solo con la ricerca della poesia visiva, con la ricerca dei poeti che puntano alla scrittura come immagine ma che non trova riscontro nella pittura più o meno tradizionale. Certo, Burri e Tápies e Lucia Fontana e anche Fausto Melotti hanno insegnato tante cose a Xerra ma lui, da quelle opere, ha assunto solo certi impianti e campiture, certi proporzionamenti e scelte di costruzione, ma poi ha portato avanti un proprio discorso. Di che discorso si tratta?

Proviamo a considerare questi dipinti. Uno è recentissimo e si impegna in un difficile confronto non con Sebastiano Ricci semplicemente ma con l’idea dell’opera, con la citazione di un frammento antico di mano e poi con delle mani disegnate, e ancora ecco un’enorme stola e poi un dettaglio ripreso dal Clemente VII col Cardinal Farnese: insomma nel grande spazio delle campiture, dove i ritmi del dipingere sono intervalli temporali, Xerra reinventa la funzione del dettaglio e ricompone, come nel montaggio di Dziga Vertov, l’ordine del racconto. Quasi come un formalista russo che analizzi un’opera e la scomponga, come Sklovskij o Tinjanov, ecco che le pitture qui perdono la loro originaria sintassi e si presentano come dettagli, dilatati, enormi, che hanno un loro improvviso, fortissimo impatto.

Xerra sa usare sapientemente i suoi mezzi e in un dipinto più antico di questo che è recentissimo, del 1997, propone le imprimiture del Pordenone di Santa Maria di Campagna e un dettaglio di dipinto come ritagliato, il tutto contro una scandita campitura quasi di trittico che è solo spazio di penombra. E in un altro pezzo, pure qui esposto, ecco la scritta “Rosa da Tivoli”, tipica del rovescio di un rintelaggio, calligrafica e debordante, mentre proprio quella tela che si fa sacco e materia vede affiorare un paesaggio come impresso dall’altra parte dell’opera, ma che invece è abile opera di Xerra che dipinge le ombre di una impressa pittorica memoria. E sempre lui, Xerra, inserisce qui un riquadro di dipinto, citazione dentro uno spazio moderno che taglia una linea rossa, forte come una sbarra che colleghi insieme presente e passato.

Un altro pezzo suggerisce un discorso ulteriore, fondato sull’uso dell’oro in foglio, sulla citazione di un frammento di pittura più antica di quella che si presenta e che pure, anche se fatta adesso, vive dentro un’aura arcaica; e l’oro infatti è lo spazio senza spazio, lo spazio indefinito, è dimensione senza tempo e senza eventi dentro cui, come unico accadimento, ritroviamo il pezzo, il frammento, il ritaglio di un’opera diversa.

Dunque, con questi sei pezzi, che cosa ci vuole dire Xerra? Prima di tutto che le opere d’arte non sono mai concluse, mai finite, che sono opere che proseguono nel tempo e che nel tempo si aggregano, si aggiungono ad altre opere, e queste opere che seguono alle prime possono usare le più antiche come frammenti, come citazioni di – frasi – dentro un nuovo contesto.

Dunque le opere che costruisce Xerra sono frammenti della memoria citati dentro uno spazio nuovo che li propone esplicitamente come tali, dunque che non li legge mai come pezzi finiti, conclusi. Xerra racconta il passato dei frammenti e lo evoca davanti a noi rendendo chiaro che esso, per essere inteso, deve essere distrutto. Se pensate alle città e a come si utilizzano i pezzi di edificio antico, oppure se pensate alle case moderne e a come si utilizzano dentro di esse gli oggetti del passato, spesso frammentati, distrutti, ricomposti, non vi meraviglierete che Xerra ricicli proprio il poco che resta di più importanti, ma per sempre perdute opere d’arte, che sono segnali, simboli, ma insieme anche frammenti di una diversa temporalità.

Ma allora che senso avrà mai questo lavorare per frammenti, questo voler proporre l’arte come arte della memoria, questo voler annullare le citazioni dell’antico in un tessuto moderno di immagine? Che senso avrà, insomma, pensare la funzione dell’artista come quella di un escavatore del passato, non dunque di un eversore del proprio tempo ma, semmai, di un protagonista di nuovi rapporti fra antico e nuovo?

Forse anche per questo Xerra non ha mai voluto porsi come attore delle avanguardie e neppure ha voluto mai porsi come compartecipe di gruppi; in fondo ha a lungo gravitato su Brera e su Milano, ha vissuto gli anni più vivaci  del dibattito in quella città, è stato lontano dalle mitologie del naturalismo e ha puntato su altre scelte, ma tutto questo non è servito a fare di lui un attore di gruppo, un fine dicitore in una compagnia di giro, di quelle che vediamo affollare le scene dei teatri urbani, dico le gallerie, per qualche mese o qualche anno, per poi sciogliersi e scomparire. Xerra è sempre uguale a se stesso da circa trenta anni, e propone scelte che non possono spiegarsi se non con una consapevolezza interdisciplinare del linguaggio. Se Xerra fosse un musicista, proporrebbe un antico tema, lo citerebbe, appunto, e lo ripercorrerebbe secondo nuovi modelli. Se fosse un letterato egualmente la cadenza, il ritorno a una antica struttura dovrebbero essere riorganizzati entro una nuova strofa, entro una dimensione di racconto diversa. Se Xerra fosse architetto proporrebbe pure un vecchio schema, la citazione di un sintagma del passato, oppure capitello, voluta, colonna, dentro uno spazio del tutto nuovo.

Così ci siamo un poco accostati a Xerra e al suo modo di operare: il suo modo di usare la citazione è sempre fuori dal contesto, nella migliore tradizione dada; la citazione, infatti, serve a costruire uno spazio della storia; la citazione esalta la durata e fa comprendere che l’opera – vive – entro un spazio che sta in un luogo ambiguo, fra passato e presente, un luogo temporale che, programmaticamente non viene definito. Lo invidia il supporto che dà l’idea della materia; lo individua la immagine che dà l’idea che esista, dentro quel frammento tato, uno stato arcaico; lo individua la griglia compositiva moderna che dà l’idea del linguaggio di oggi che serve per capire e riorganizzare sintatticamente quelli precedenti. Ma dove stia il vero, quella fase che permetterebbe a noi di dialogare direttamente con l’opera, è impossibile cogliere in Xerra. E la chiave è forse proprio quel quadro col fondo oro, con le lamine d’oro distese pazientemente sul supporto e accostate, dove lo spazio è quello di un piano ideale, senza tempo, senza profondità, senza durata se non mentale.

Così l’opera di Xerra rappresenta solo in apparenza un evento davanti a noi, ma in realtà è un non evento, un non accadimento che si determina fuori dal tempo. Perché il tempo dell’artista e quello dello spettatore non sono mai coerenti e compito di chi crea è di evidenziare questa contraddizione: per Xerra dunque nell’opera d’arte, nelle proprie opere d’arte ma anche in tutte le opere d’arte. In queste opere non accade veramente mai nulla, se non la dimensione possibile dell’accadere. Per questo Xerra sublima le figure, sublima i rapporti, sublima le materie componendo questi suoi puzzle incredibili e assoluti, di una qualità tanto alta che difficilmente intendi la complessa tensione mentale che sta a monte di essi. Come un suono troppo acuto, un colore nel suo assoluto essere in attingibile, una lirica restata sospesa in un lontano sogno.


Arturo Carlo Quintavalle, ottobre 1997.

 

MOSTRA


WILLIAM XERRA

Materiali per racconti possibili Sebastiano Ricci, i Farnese e altro.


Ed. SKIRA, 1997


Introduzione di Arturo Carlo Quintavalle


Episodio collocato nel percorso espositivo

“I Farnese a Piacenza: Il Palazzo e i Fasti”


15 novembre -

14 dicembre 1997


Piacenza, Pinacoteca di Palazzo Farnese

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