La Natività di Gesù, la sua Passione e Morte, sono i fondali di scena davanti a cui vediamo ricongiunti gli estremi bordi dell’esistenza. Di tali scenari abbiamo presto conoscenza e lunghissimo ricordo. Mi accade, per esempio, di conservare l’immagine del piede inerme e nudo di Stefano dipinto nella lunetta di una chiesa di campagna. Un piede lasciato indietro, fuori dalla tunica, mentre lui, a terra con le braccia alzate, tenta di proteggersi dalle pietre. Gli occhi fissano il suo aggressore più prossimo, che è raffigurato di schiena nell’atto di calare il colpo con un sasso più grande, sollevato a due mani sopra la testa. Nella memoria di quella pittura, il piede e gli occhi di Stefano sono ancora riuniti nell’immagine della pietà, nella presenza immanente del male, nella paura del dolore.

Similmente, con la stessa coazione a rivedere un solo brandello di figura, un certo punto della scena, abbiamo appreso lungo gli anni come taluni particolari fossero in sé sufficienti funzionando come parti per il tutto. Un panneggio della Madonna, un velo che il vento solleva o rigonfia come nella Sistina; il marmo gelido sotto la schiena del Cristo morto; i monti sugli sfondi delle Crocifissioni, le città ai margini del deserto, le acque del Battesimo, le rocce, i ghiacci taglienti e stregati, le palme di Gerusalemme, gli angeli distratti, i cartigli musicali, i tronchi di colonna, i resti dei templi, i caduti riversi sulle rovine, le frecce di Sebastiano.

Se anche finissero in cenere, questi fondali dell’età classica e della nostra memoria più vera, e se l’antro in cui li abbiamo riposti dovesse frangersi dopo un ultimo lampo, precipitando nel buio antico e per sempre; se anche le pitture fossero polvere temporanea che il solo fiatare disperde, noi sapremmo ricostruirli con l’intelligenza che ha in sé il disegno e nella completa ignoranza della forma, perché la consapevolezza della Scena tornerebbe sempre come eco a farci da modello.


Prima scena (i grandi macelli di Brecht)

[…]

In tetri tempi di sanguinoso smarrimento,

ordinato disordine,

pianificato arbitrio,

disumana umanità,

quando non vogliono più cessare, nelle nostre città,

le agitazioni;

in un mondo che è simile a un macello,

spinti da voci minacciose violenze,

perché la rude violenza del popolo miope non

spezzi le sue stesse macchine, non

calpesti il suo proprio pane,

vogliamo qui riportare

Iddio.

Poco celebrato ormai

già quasi famigerato

non più ammesso

nei luoghi della vita reale,

ma unica salvezza degli infimi.

Per questo ci siamo decisi

a battere il tamburo per lui,

sì che prenda piede nei quartieri della miseria

e la sua voce risuoni nei Grandi Macelli.

(Bertold Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, II, c)


L’America di Brecht è ripresa dalle strade di Chicago: come nei primi minuti di un film il quartiere dei macelli è riconoscibile dai colori del mattone, del ferro, dello smalto bianco di cui sono rivestite le celle, del vapore che sale dalle cisterne, della neve che richiude l’aria al passaggio degli operai.

Una disperazione strisciante e interminabile, perché inesausta, spinge gli uomini a difendere la loro prigione. Mentre nelle strade è calato lo sciopero Giovanna Dark e i Cappelli Neri mantengono in funzione le macchine, cioè mantengono tesa, in vita, la catena di produzione dei grandi macelli. È impossibile – perché è inumano – fare dell’uomo l’onesto e ragionevole fattore di un mondo concorde.


Seconda scena

Le baracche con i tetti spioventi, disposte a blocchi, sembrano architetture temporanee come villaggi dei cantieri mobili. E tuttavia c’è, nella loro apparente leggerezza, un senso di stanzialità. Tra una costruzione e l’altra scorrono strade larghe abbastanza per il passaggio di un autocarro; ciascuna baracca ha un’appartenenza e una ragione, è dormitorio o infermeria, direzione o corpo di guardia, abbattimento o pulizia. C’era tra loro un ordine rigoroso e razionale, luminoso, praticato con facilità da tutti. Perché Auschwitz è una espressione della geometria concreta: il disegno di un mondo che funziona come una macchina in tutte le sue parti, per piccole che siano.


Terza scena

Una cascina della bassa emiliana, come delle nostre tra il Po e la via Emilia. Una mattina del mese di gennaio, mentre è ancora buio e il freddo intenso è quasi privo di umidità, gli uomini abbattono il maiale fuori dal suo asilo. Gli aprono la gola con una lama sottile e affilatissima, raccogliendo in bacili ampi dal bordo basso il sangue caldo che sgorga copioso. Una caldaia d’acqua è messa a bollire sotto il porticato proprio a fianco della casa di abitazione. Dopo neppure un’ora le due mezzene della bestia (che in certi angoli della “bassa” è chiamato semplicemente “al ‘nimal”, cioè l’animale), pendono da un traliccio eretto con pali incrociati tenuti insieme dal filo di ferro. L’eccitazione intorno: dei cani, delle donne, dei bambini.

(E nel cimitero di San Cataldo a Modena, compaiono improvvisamente tutte insieme le forme elementari della paura: la cascina padana, la baracca di Auschwitz e il capannone del grande macello, come se Aldo Rossi avesse liberato il proprio deposito dai vecchi fondali che non lo lasciavano riposare.)


Quarta scena

Si trovano insieme sovrapposti in alcuni punti, gli edifici del Macello Comunale di Piacenza, le casette dei giochi di Norimberga e le chiese paleocristiane. Quadrilateri lunghi ricoperti da un tetto a capanna, dove le catene delle capriate sostengono talvolta ganci, carrucole, guide dei carri-ponte. Le murature sono di mattoni bruniti, con ombre color metallo e finestre chiuse da inferriate. Sul fronte, una guarnizione di lamiera percorre gli spioventi del tetto. Al centro, lettere rosse in rilievo: macello bovini, suini, tripperia. Di suo, invece, “Macello Comunale” è la moderna epopea della città; il primo dei suoi ventri non risolti.

Le capanne sono raccolte intorno a uno schema come le casette in legno dei giochi o come tutti gli universi di concentrazione del mondo. Ecco due forme originarie: la chiesa primitiva e la casetta di legno del gioco. Tra questi due luoghi trovano stanza Natività e Morte.

I religiosi avevano iniziato molto presto a seppellire i defunti sotto i pavimenti delle chiese, che in breve ne furono trapuntati con lapidi incise e croci, con versi della pietà e della speranza. Pavimenti di pietra, terracotta, marmo, si richiusero sul sangue dei morti in guerra, dei valorosi o dei munifici; degli appestati o dei santi. All’opposto delle tombe, come tra i soliti due fondali dell’aurora e del tramonto, una promessa d’infanzia immersa in una luce azzurra, in una «cheta atmosfera da stanza dei bambini» che sarebbe un epilogo raggelante.


Infine, questa Natività

Questo testo visitante, come una preghiera, come il passante attirato dalla luce, si è formato nei pressi di una capanna inutilizzata, nella quale sono state collocate, a disputarsi l’aria fredda, alcune linee rosse luminose, tremanti come fuochi. Tratti di parola, sono in realtà, sparsi brani di scrittura sovrapposti alle rive congiunte della vita e della morte, che dicono per lampi le storie di queste capanne dai tetti spioventi, i ferri del mestiere, le forme del campo, la visione degli uomini in grembiale sulla banchina. Accanto alla luce della Natività ci sono colonne e rotaie delle linee di macellazione: ogni strumento si muove sollevato dal suolo, fluttuando e sibilando nella luce rossa contro la trama delle inferriate. All’esterno, poi, le parole sbiancano verso l’alto buio nella lingua di una indicazione pura, nemmeno più di una parola: un unico e semplice sguardo. Unicità fulminea dell’arte, pratica accorta e cruenta che precipita in posti come questo, capanna o albergo di violenza e speranza; nel rosso della parola “rosso”; nel catalogo della guerra che ci appare nell’evidenza d’essere infinita come la catena organica della vita. Di strage degli innocenti già sempre rinviata e mai revocata.


Eugenio Gazzola


SCENE DAL CRIMINE

Un testo visitante

di Eugenio Gazzola