L’ANGELO DI FUOCO, di Prokof’ev alla Scala

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Anzitutto un moto di disappunto: il cast della serata del 28 non era lo stesso della prima: anzi, era quasi completamente cambiato. Renata, che alla prima era interpretata da Elmira Veda, il 28 sera è stata interpretata da Larissa Gogolevskaja, una soprano russa (almeno dal nome; io non l’ho mai sentita), che concorreva, con probabilità di successo, con la Eaglen in quanto a metri cubi di spazio scenico occupato; Ruprecht, invece che da Leiferkus, era interpretato da Nikolaj Putilin; l’inquisitore invece che da Burchuladze, da Vladimir Vaneev, e così via. Il direttore era invece sempre Bartoletti.

Non so se sia una regola scritta o non scritta, ma le serate in abbonamento alla Scala dovrebbero essere interpretate dal cast della Prima (che, con la nuova gestione è sempre una serata fuori abbonamento).

Chiusa questa premessa, che mi sembrava doverosa, veniamo allo spettacolo.

L’Angelo di fuoco è un’opera che io trovo bellissima, a differenza di un pubblico (almeno quello della sera del 28) non numerosissimo, non attentissimo, e, negli applausi piuttosto freddo. Forse sarà perché è un’opera che non concede molto al belcantismo (ma è molto difficile, soprattutto per il soprano), forse sarà perché è dominata da una musica estremamente cromatica, ricchissima di dissonanze, forse  sarà per un cast che non ho trovato eccelso, fatto sta che non ho avvertito entusiasmo.

Come molti sanno l’opera è stata tratta dallo stesso Prokof’ev da un romanzo dello scrittore simbolista russo Brjusov. Prokof’ev lo ignorava, ma il romanzo aveva le proprie radici in un periodo burrascoso della vita di Brjusov, coinvolto sentimentalmente con una bella ma modesta scrittrice russa, Nina Petrovskaja, che tuttavia era perdutamente innamorata di un altro scrittore simbolista, Belij, del quale si dice fosse bellissimo, addirittura angelico, ma di comportamento mistico-ascetico, e che della povera Nina proprio non ne voleva sapere (almeno dopo un primo periodo di intensa passione). Di qui una complessa vicenda di attrazioni e repulsioni reciproche, con coinvolgimenti del mondo della magia (Brjusov credeva in questa arte), sfide a duello, etc.

In questo romanzo (come nell’opera) i protagonisti sono facilmente individuabili come i personaggi delle vicende reali. Io non ho letto il romanzo, sul quale la critica si esprime in modo non entusiasta. Sembra tuttavia che, ovviamente, il romanzo sia stato scritto con l’intento di mettere in cattiva luce sia il collega Belij, che soprattutto la bella Nina. Il fatto curioso è che Prokof’ev ignorava le vere radici della vicenda, e ancor più stranamente, che la Nina, ormai invecchiata e dedita a droga ed alcolismo, pur vivendo a Parigi a poca distanza da Prokof’ev, non seppe mai dell’opera e del fatto che le sue vicende fossero state portate sulla scena.

Questa premessa mi è sembrata necessaria per poter leggere con maggiore chiarezza tutte le implicazioni di un’opera drammaticamente piuttosto sconnessa, ma affascinante sia sotto il profilo musicale che su quello delle possibili chiavi di lettura.

Dei tre personaggi della vicenda reale, solo Brjusov (identificabile con Ruprecht) e Nina (identificabile con Renata) agiscono sulla scena. Belij, da identificarsi con quello strano miscuglio rappresentato da l’angelo di fuoco Madiel, o dalla sua controfigura umana, il conte Genricha, appare solo in due occasioni come personaggio muto. Gli altri personaggi sono di contorno, e in buona parte estranei alla vicenda, e inventati da Prokof’ev per dare all’opera una sua espressività, dalla quale non è assente un’ironia, che definirei molto greve, se non grottesca.

La cosa da notare è il diverso trattamento musicale che Prokof’ev usa per Renata e per Ruprecht. Nel primo caso prevalgono due temi, estremamente cromatici, molto sinuosi come linea melodica quando fanno riferimento al mondo degli spiriti e della magia nera; la linea melodica si fa invece più dolce quando interviene il suo amore per l’angelo di fuoco, per Madiel. Al contrario le linee melodiche associate a Ruprecht, sono più dirette, se non diatoniche. Il suo tema è un tema virile, d’azione. L’accompagnamento orchestrale si comporta di conseguenza. Nelle scene del mondo dello spiritismo, si ascolta un accompagnamento fatto da diverse figurazioni di ostinato, che si ripetono in varia misura. I timbri in questi casi sono affidati soprattutto ai legni acuti (nella tradizione operistica spesso associati con la menzogna, con lo sberleffo), ai violini sui registri del flautato, o all’associazione di registri strumentali molto acuti e molto gravi in contemporanea. Tutto questo dà un senso di onirismo, di mistero molto bello a sentirsi. Con Ruprecht l’orchestra ha accenti più marziali, gli strumenti che più frequentemente accompagnano il personaggio sono gli ottoni. Questi contrasti tematici e timbrici, si concluderanno nell’ultimo atto, quello famoso della ridda delle monache indemoniate, nel quale la parte principale è affidata a voci quasi esclusivamente femminili (in particolare ai cori delle monache), che formano uno spettrale responsorio col canto da basso dell’inquisitore.

Per me è impossibile non essere affascinati da questo intenso gioco timbrico-melodico che ci accompagna in un mondo sempre in bilico fra il reale e l’irreale, fra onirismo e realtà dei sentimenti.

Le scene dell’opera che a me sono più piaciute sono state:

1)    il racconto di Renata, che rievoca la visita dell’Angelo nella sua infanzia, il suo amore, l’incontro col conte Genricha, e il successivo abbandono. Si tratta di un lungo “arioso” (mi sembra si possa definire così) dove i temi principali di Renata e del mondo degli spiriti, vengono enunciati. Qualcuno trova troppo lunga questa presentazione. Personalmente non sono d’accordo. Le linee melodiche sinuose e cromatiche, e il ricco accompagnamento orchestrale hanno attirato il mio interesse dall’inizio alla fine.

2)    La predizione dell’indovina alla fine del primo atto: musica e canto molto grotteschi, apertura alle fasi successive della vicenda. Prevalgono i toni acuti dei legni che ammantano la voce un po’ misteriosa del mezzosoprano.

3)    La scena centrale del secondo atto: i tentativi di Renata di evocare gli spiriti; i famosi colpi sul muro di uno spirito che si annuncia; il tutto sottolineato da un timbro flautato e stridente dei violini, con accenti scanditi da una nota ripetuta di ottone. Poi la delusione per la beffa dello spirito, e lo stridente, acuto “Genricha” in fortissimo dissonante di Renata.

4)    Tutta la scena del colloquio di Ruprecht con Agrippa, a partire dall’entr’acte. È una scena geniale. La musica ha un andamento incalzante, senza pause, senza prender fiato, direi, come lo stesso dialogo fra i due. Agrippa tenta di dissuadere Ruprecht dal ricorrere alla magia nera, sbugiardato da un coro di scheletri, che verso la fine, con un breve, ma estremamente intenso intervento di coro, lo accusano di essere bugiardo.

5)    La scena, a partire dal secondo entr’acte: prima il duello con Genricha (musica d’azione, tendenzialmente diatonica); poi Ruprecht ferito gravemente e Renata che, commossa, gli confida il suo amore. Qui un coro femminile le fa il verso. La musica è portata sui toni acuti, estremamente cromatica e sinuosa, e i legni danno la loro impronta beffarda alla scena.

6)    La scena di Mefistofele e Faust. Mefistofele è un personaggio grottesco, protagonista di un’ironia greve, direi antipatica: si mangia un bambino per poi restituirlo vivo e vegeto da un bidone della spazzatura. Forse questo punto, che probabilmente è indispensabile per il successivo passaggio alla scena della ridda delle indemoniate, è in funzione all’equilibrio dell’opera. Tuttavia forse il grottesco è un po’ troppo accentuato, e io l’ho trovato un po’ estraneo al contesto.

7)    La scena finale della ridda, di cui ho già parlato, dominata da più cori femminili, cui fa da responsorio il canto dell’inquisitore. Anche qui prevale il grottesco. L’ironia è portata al parossismo. E proprio da questa scena parte e si conclude la chiave di lettura.

La chiave di lettura dell’opera, a mio avviso, datane dal regista, è quella della ambiguità dei concetti di male e bene, più che non del loro scontro. Tutta l’opera porta con sé questa sensazione di ambiguità, che è già insita nella musica. Il regista la sottolinea, con le figurazioni in trasparenza sullo sfondo, di volta in volta illuminate: l’angelo Madiel e Genricha vengono presentati ora color bianco, ora color rosso. Ripetutamente si vede in trasparenza la figura di Renata bambina che tiene in mano un cerchio (chiaro riferimento all’innocenza); la stessa Renata oscilla fra il voler la morte di Genricha come impostore, e la sua adorazione totale come presunta incarnazione dell’angelo. Molto spesso le parole “amore” e “perdono” vengono associate a nefandezze. Nella scena finale il “male”, l’invasamento demoniaco, è contrastato da un inquisitore “il bene?” che veste una grottesco paludamento che ricorda le divise naziste. E alla fine, quando Renata è ormai condannata al rogo, come espressione del male trionfante, il regista fa apparire sullo sfondo, estremamente luminosa, la sua immagine di bambina con un cerchio, evidente simbolo di innocenza.

L’esecuzione: La messa in scena è molto bella, (il regista è Cobelli, lo scenografo Tommasi) estremamente simbolista, ma anche piuttosto esplicita. Mentre sulla scena si svolgono le vicende, sullo sfondo, in trasparenza, con apposita illuminazione, appaiono i simboli della vicenda: di volta in volta Madiel, angelo bianco, Genricha, angelo rosso, Renata bambina innocente. Gli arredi sono di legno, delle semplici impalcature dentro le quali si svolgono azioni mimiche, che ricordano l’inquisizione, le stregonerie, etc. Da notare alcuni particolari, come, ad esempio, in due atti la torre del duomo di Colonia, tutta costruita in legno, compare sullo sfondo, inclinata a significare il mondo sconnesso della vicenda; altri arredi, la porta d’ingresso, una grata divisoria, il tavolo dell’osteria, tutti vengono disposti in modo distorto e instabile. Tutto questo accentua la sensazione di ambiguità.

L’orchestra ha suonato molto bene, nonostante una partitura che mi sembra molto difficile. Non aggiungo altro. Bartoletti non ha fatto rimpiangere la direzione di Chailly del 1994. Naturalmente nessun paragone è possibile con l’esecuzione di Gergiev, straordinaria sotto ogni punto di vista, ma ascoltata da me solo in CD.

Quello che forse ha lasciato a desiderare di più è stato il cast. Come ho detto il cast della prima è stato completamente sostituito. Dato che la prima è stata trasmessa in diretta RAI e ho avuto modo di registrarla, mi sembra che non ci siano dubbi sulla superiorità del cast della prima rispetto a quello del 28 sera.

A questo punto, mentre Schillogeno dorme della grossa, favorito dal mio sproloquio, in silenzio per non svegliarlo, tolgo le tende e me ne vado.

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