LA JUIVE, dalla Wiener Staatsoper (diretta radiofonica)

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La RAI sul terzo programma radiofonico in questo periodo sta trasmettendo, in diretta o in differita, rappresentazioni di opere che nel passato hanno avuto un non indifferente successo, ma che da tempo sono praticamente uscite dal repertorio dei maggiori teatri. Questo è stato il caso di Sneguročka di Rimskij-Korsakov, rappresentato al Concertgebow di Amsterdam, e più recentemente è stato il caso della Juive di Halevy, rappresentata al Wiener Staatsoper.

Ho avuto modo di ascoltare questa Grand-opéra nella diretta radiofonica di sabato 23 ottobre. Mi ha attirato soprattutto il fatto che si tratta di una delle più classiche Grand-opéra francesi, genere operistico che conosco poco, anche perché esso è raramente frequentato nei teatri italiani.

Andando a spulciare notizie sulla Juive, ho visto che questa opera ha avuto un enorme successo durante tutto il XIX secolo, ma che successivamente la sua frequentazione è via via andata in declino, prima di tutto proprio in Francia, ma anche nel resto d’Europa.

Le ragioni di tale declino vengono attribuite a numerosi fattori. Anzitutto l’ostilità che in Francia si è sviluppata contro il genere Grand-opéra negli ambienti musicali degli inizi del XX secolo, quando la scena musicale era dominata da compositori come Faure (che era anche direttore del Conservatorio di Parigi), Debussy, Frank, D’Indy e tutti in atteggiamento reattivo contro il Grand-opéra. In secondo luogo, specificamente per La Juive, per il tipo di argomento trattato. Si tratta di una trama che si basa sul conflitto fra ebrei e cristiani. L’argomento è molto delicato. Sappiamo quale sia, ancora oggi la sensibilità della gente su questo problema, e il fatto che l’ultima rappresentazione parigina sia avvenuta nel 1936, quando in Germania era scatenata la persecuzione antisemita, la dice lunga. Per avere un’idea della cosa, è opportuno ricordare che Halevy era ebreo, anche se la sua identità ebraica era messa sotto tono (il suo vero cognome era Levy), e che nel periodo in cui La Juive è stata composta (anni Trenta del XIX secolo) sembrava che le ostilità contro gli ebrei stessero lasciando il posto a una forma di convivenza più razionale. Infine, penso che anche il costo delle rappresentazioni sia un elemento scoraggiante. Il Grand-opéra è uno spettacolo grandioso, con molti interpreti di primo piano (La Juive ne ha ben cinque), masse corali, complessi di ballo, grande orchestra, sontuose scenografie, etc.

Devo dire subito che a me l’opera è piaciuta moltissimo. La musica è veramente bella; i momenti di emozione profonda sono frequenti. La sua lunghezza non appesantisce l’ascolto, che anzi è continuamente stimolato da arie, e pezzi d’assieme e concertati, che alternano virtuosismo vocale a momenti di intimo pathos, e l’orchestra viene usata in tutte le sue possibilità timbriche. Indubbiamente non si può certo affermare che la retorica sia assente. Ve n’è in abbondanza. Ma si tratta di una retorica mai volgare, sempre sul filo di una eleganza tutta francese. Noi sappiamo che la cultura francese, soprattutto in quel periodo storico, non era esente dalla retorica. Pensiamo al fasto delle corti imperiali, alla “grandeur“, etc. Ma io trovo tutto questo sempre permeato da uno spirito di eleganza, di raffinata ricerca di equilibri, di intelligenza che finiscono per fare apprezzare questo genere di retorica. Si può dissentire su questo, ma io la penso così. Per confronto basti pensare alla bolsaggine delle retoriche imperiali che hanno prevalso nel nostro paese in un passato non lontano.

La trama dell’opera è molto complicata (come si conviene ad una Grand-opéra), ricca di colpi di scena, e, presa di per sé, piuttosto triviale: la potremmo paragonare alla trama di qualche telenovela che ci ammannisce la televisione. In sintesi si tratta della storia d’amore, datata 1400, fra un principe dell’impero (Leopoldo) con una giovane ebrea (Rachel). Questo porterà i malcapitati ad un’atroce supplizio finale, che però sarà eseguito solo sui personaggi ebraici (la giovane innamorata e il padre, Eleazar, forse il vero protagonista dell’opera), mentre il principe sarà condonato. Su questo scheletro si sviluppano una serie di vicende che mettono in evidenza da una parte la discriminazione (e l’odio, la ferocia) che i cristiani mostrano nei confronti egli ebrei (il rapporto fra un cristiano e un’ebrea viene punito con la morte); e dall’altra l’orgoglio, il desiderio di rivalsa che anima i personaggi ebraici che non esitano, morendo, a punire con la più atroce delle vendette, i loro persecutori. L’ebreo padre, Eleazar rivela, un attimo prima di essere giustiziato, che Rachel, creduta sua figlia, altri non è che la figlia del cardinale che li ha condannati, e che lui, Eleazar, aveva salvato da un incendio che, anni prima, aveva distrutto la famiglia del cardinale. E questa rivelazione avviene proprio mentre la fanciulla viene lanciata dal boia nel calderone di olio bollente (forma di supplizio, evidentemente ritenuta appropriata per gli ebrei).

Conflitti aspri, quindi, nell’opera che danno la possibilità di dispiegarsi di vari e diversi stati d’animo, che la musica di Halevy interpreta in modo molto efficace.

Quali sono i passaggi più belli dell’opera? Molti, per la verità. La serenata che nel primo atto il principe Leopoldo canta a Rachel, ricchissima di virtuosismi. La cavatina del cardinale che, ancora nel primo atto, mostra una prima forma di clemenza nei confronti dei due ebrei. È stata paragonata a quella di Sarastro nel Flauto magico. E poi il concertato finale del primo atto.

Nel secondo atto, il rito ebraico della Pasqua, con una bellissima preghiera di Eleazar (che tuttavia non è mutuata da alcun canto ebraico, anche se ne ricalca lo stile), e il duetto e il terzetto finali in cui Leopold confessa prima a Rachel, ancora ignara, e poi anche ad Eleazar, di essere cristiano, e non ebreo come in primo tempo si era presentato. Questo dà luogo ad un bellissimo duetto d’amore, ricco di tristi presagi.

Ancora nel terzo atto tutto lo splendore della Grand-opéra nella sala del palazzo dove si doveva celebrare la festa in onore del principe, ma che termina con la rivelazione pubblica dell’amore fra l’ebrea e il principe cristiano, e il successivo anatema e la condanna a morte.

Il quarto atto contiene tre duetti e un’aria finale tutti estremamente densi di emozione. Esprimono i tentativi di salvare gli sventurati al loro destino, e l’orgoglio dei due ebrei che non vogliono abiurare. Ma esprimono anche tutti i dubbi e le angosce di ciascuno di loro, nel sapere che l’oggetto del loro amore (Leopoldo per Rachel, e Rachel per Eleazar) sarà destinato ad una sorte orribile, forse solo per orgoglio o per perseguire una forma di vendetta.

Il quinto atto è quello dove si consuma il supplizio.

L’esecuzione, almeno quella musicale (la parte visiva, ovviamente, non l’ho vista) è stata di altissimo livello.

L’orchestra era guidata da una donna, Simone Young, direttore australiano. È la prima volta che sento una donna dirigere un’orchestra, e devo dire che essa è stata all’altezza della situazione. Direzione sicura di un’orchestra di grande livello come quella dell’opera di Vienna. E questo già lo si percepisce dall’introduzione orchestrale. Nel corso dell’opera tutti gli strumenti suonano in modo molto limpido, il fraseggio è curato, le dinamiche perfettamente adatte agli stati d’animo della vicenda. Da notare che quest’anno (bicentenario della nascita di Halevy) La Juive è stata rappresentata anche a New York, al Carnegie Hall, in forma di concerto. Anche in quella occasione il direttore d’orchestra era una donna, Eve Queler, e, a giudicare dalle critiche, molto brava.

Gli interpreti: Sopra tutti metterei Neil Shikoff, che interpretava Eleazar. Voce bella, tono drammatico, come si conviene al personaggio, ma non privo tuttavia di dubbi e di esitazioni, come avviene nella sua ultima aria del quarto atto, quando è tentato di salvare la vita alla figlia abiurando la religione ebraica. In quella occasione ci sono stati due minuti di applausi a scena aperta.

Molto brava mi è sembrata anche Rachel (Soile Isokoski),  il cui personaggio è interpretato da un soprano lirico-drammatico. Il suo canto, intenso, che dà pieno risalto alle emozioni, ha disegnato una Rachel credibile nei diversi stati d’animo: lo stupore, l’orrore della confessione di Leopoldo, il suo amore che la spinge a decidere di fuggire con lui, la delusione che la colpisce quando si accorge che Leopoldo è il principe imperiale già sposato, e la sua accusa; e i duetti nel quarto atto, in cui da una parte cede, nonostante tutto, all’amore che sente per Leopoldo e acconsente a salvarlo, e dall’altra resiste alle suppliche del cardinale, che la vorrebbe salvare, sfoderando l’orgoglio della propria religione. Veramente una interpretazione superba.

All’altezza della situazione anche gli atri tre interpreti: Eudoxia (Regina Schorg), la moglie di Leopoldo, soprano di coloratura, le cui arie sono vere fantasmagorie di virtuosismo, molto bene eseguite, e Leopoldo (Zoran Teodorovich), il cui ruolo è pure di grande virtuosismo e difficoltà, svolto complessivamente bene, anche se nell’ultima acuto della serenata del primo atto, la sua voce ha avuto un cedimento istantaneo,  ciò che gli ha un po’ rovinato la performance. Anche De Brogni (Alastair Miles), il cardinale, si è rivelato un basso dalla voce calda e solenne, tuttavia, a mio avviso, in qualche difficoltà nelle note più basse (e nella sua parte ce ne sono molte).

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