VITA, al Piccolo Teatro Studio, Milano

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Non conosco nulla di Tutino e quindi l’aver visto quest’opera e’ (stata) 
per me un’esperienza nuova. Ma, come diro’ meglio in seguito, nuova fino 
ad un certo punto.

 Anzitutto l’opera. Si tratta di una libera interpretazione, fatta dalla 
poetessa Patrizia Valduga della piece teatrale “Wit” della scrittrice 
americana Margaret Edson, vincitrice del premio Pulitzer nel 1998. 
La vicenda e’ stata molto ben sintetizzata dallo stesso Tutino in una 
intervista radiofonica, e riporto qui le sue parole: 
”Una donna si ammala di tumore, una donna esperta di poesia metafisica e 
di letteratura inglese del Seicento, e scopre che la razionalità, 
l’intelletto e tutto il suo modo di leggere il mondo, modo di leggere la 
vita, crolla davanti a questa prospettiva. Quindi tutta la sua scienza 
non le basta più. E in pratica viene ospedalizzata e drogata poi, perché 
la cura cui si sottopone è terribile, e ha naturalmente molte visioni, 
molti incontri fantastici, e poi naturalmente muore.”

Il libretto e’ molto bello e contiene notevoli squarci di poesia. Sulla 
scena si avvicendano fatti che potremmo definire di “cronaca”: la 
diagnosi, il colloquio della paziente con medici, infermieri, le 
procedure degli esami e delle terapia, e anche la sofferenza e il 
decadimento della donna, oltre ad una grottesca intrusione mediatica del 
giornalismo TV; con momenti di interiorita’, di richiamo al mondo della 
poesia, la ragion di vita della donna, rappresentato sulla scena dal 
personaggio di John Donne, il poeta da lei piu’ studiato e piu’ amato, e 
da un quartetto di medici in abiti seicenteschi (sul modello dei quadri 
di Rembrandt), che, anche visivamente collegano la “cronaca” (la 
malattia) alla “cultura”, cioe’ al mondo interiore (la poesia).

Strutturalmente l’opera e’ organizzata su dieci scene. 
Drammaturgicamente l’elemento portante e’ rappresentato dal percorso 
della donna, la professoressa Victoria Bearing, nickname Vita, (sia 
nella sua componente fisica, che nella sua componente interiore), dal 
momento della diagnosi al momento della morte: percorso che passa dal 
senso di smarrimento al momento della diagnosi, ai vari affioramenti del 
suo rapporto passato con la poesia, al confrontarlo con 
l’ineluttabilita’ del presente, al senso di solitudine, di passivita’ 
che tutto questo le crea, al quale ella cerca di reagire con l’aiuto di 
John Donne, alla sua rassegnazione durante i delicati esami diagnostici, 
al suo decadimento corporeo provocato dalle cure, alla sua regressione 
al momento dell’infanzia, alla paura terrorizzante (che poi e’ l’unico 
momento di un vero contatto umano, quello con l’infermiera Susie che 
l’assiste), fino al rifiuto delle cure intensive (rifiuto alla fine 
negatogli dalla disattenzione dei medici), e alla morte fra le braccia 
di John Donne.

Come nota personale, diro’ che in uno come me, che per quarant’anni ha 
esercitato la professione dell’oncologo, e che ha vissuto direttamente 
centinaia e centinaia di questi percorsi, l’argomento e il modo molto 
veritiero e pervadente con cui e’ stato narrato (le motivazioni addotte 
dai medici sulla natura della malattia e delle cure, le domande e le 
risposte medico-paziente, certe freddezze o certi distacchi non voluti, 
ma avvertiti dal malato, il ruolo non solo tecnico, ma molto spesso 
umano del personali infermieristico, etc.), hanno provocato un 
coinvolgimento che forse va oltre quello del semplice spettatore, per 
affiorare come ricordo di momenti drammatici piu’ volte e diversamente 
vissuti, e comunque sempre intensamente partecipati.

La musica. Non sono un musicologo e quindi potro’ dire anche delle 
bestialita’. Ma l’impressione che ne ho ricavato e’ stata quella di un 
compositore che anziche’ spingere la propria attenzione, direi la 
propria curiosita’ nel futuro, ha girato la testa di 180 gradi e ha 
guardato soprattutto al passato. Il linguaggio e’ tonale, a volte anche 
politonale, certo con dissonanze, ma all’interno della tonalita’. La 
struttura e’ a numeri chiusi (arie, ariosi, ensemble, intermezzi 
orchestrali) su un tappeto sonoro che utilizza molto il modo ostinato 
(piccole cellule tematiche ripetute, spesso variate nella tonalita’, nel 
timbro o anche nel ritmo), che fa venire alla mente i minimalisti. Ma la 
musica di Tutino e’ molto lontana da quella dei minimalisti, dove 
l’ostinato ha soprattutto una forza propulsiva, mentre in Tutino ha 
valore soprattutto descrittivo-ambientale e di valorizzazione della 
vocalita’.

La vocalita’ risponde soprattutto alla logica formale dell’opera 
protonovecentesca (Puccini?), con alternanza di recitativi (spesso 
concitati) e numeri chiusi (melodici), senza soluzione di continuita’, e 
un accompagnamento orchestrale molto ricco di colore con timbri spesso 
tratti da strumenti di sapore un po’ “esotico”, come lo xilofono o la 
marimba, ma anche da strumenti tradizionali, come archi, flauto, oboe, 
timpani.

La musica assume un carattere grottesco quando commenta ad esempio i 
colloqui (destinati all’incomunicabilita’) fra il primario e la malata, 
o le procedure degli esami, e diventa piu’ melodica o addirittura lirica 
quando al centro dell’attenzione c ‘e’ la sensibilita’ ferita della 
donna o il suo rapporto con la poesia. Ad esempio la musica che 
accompagna l’esame pelvico alterna la freddezza dei timbri esotici 
(xilofono e marimba, appunto) alla delicata melodia del flauto che 
interpreta la sofferenza, il pudore della donna. Oppure il corale 
iniziale “Dio e’ Dio perche’ e’ Dio della salvezza” assume un andamento 
quasi di marcia funebre, scandita del suono cupo e lugubre dei timpani. 
Oppure ancora in una delle arie di John Donne “Death be not proud”, il 
canto melodico si intreccia con la melodia dell’oboe che a volte 
raddopia la voce, a volte se ne distacca. Esempi di questo genere se ne 
potrebbero fare moltissimi. 
I testi dei canti sono in grande misura tratti o da poesie o sermoni di 
John Donne, oppure da poesie seicentesche italiane, o ancora da poesie 
della stessa Valduga. Quasi sempre i testi si riferiscono al tema della 
morte e del suo rapporto con la vita, con espressioni come “Ma morte e 
vita e’ vita insieme a morte” o, ancora piu’ complicate come nell’aria 
di Vita su un sonetto italiano del Seicento “Vita che per dar morte a 
quella morte”, dove le rime alternate sono tutte rappresentate dalle 
parole “vita” e “morte” che concludono ogni endecasillabo. Tipico 
esempio di poesia barocca italiana (“È del poeta il fin la 
meraviglia!”).

Le arie e gli ariosi, soprattutto quelli di Vita e di John Donne hanno 
una vena melodica molto ampia, e spesso un grande lirismo. A volte sono 
inframmezzati da recitativi concitati, come il sermone di Donne detto 
”Il duello della morte”, nell’ultima scena, cantato mentre si sta 
svolgendo il tentativo di rianimazione sbagliato, e comunque inefficace 
di Victoria, che sta morendo; o da recitativi “asettici” con domande 
burocratiche del personale ospedaliero, mentre Vita canta la poesia di 
Donne “Morte non essere fiera, se ti han detta possente e spaventosa” 
(poesia che successivamente Donne cantera’ nella sua aria in lingua 
inglese e con tutt’altro spirito e significato). 
Ma non manca il grottesco, rappresentato dall’ensemble in ritmo di 
valzer, quasi una vaudeville, alla fine della quinta scena, quando 
medici e studenti, a conclusione della lezione del primario sul caso, 
cantano l’inizio della chemioterapia paragonandola a un “Grand Tour”. O 
dall’intervista televisiva costruita su un arioso “presuntuoso” del 
primario. 
Altro episodio significativo e’ l’intermezzo orchestrale, che descrive 
la sofferenza della donna che affronta la chemioterapia e che si 
conclude poi con l’aria sulla poesia della Valduga “O poesia, poesia” 
con accenti altamente lirici. Durante quest’aria Vita viene via via 
avviluppata dal cavi di color rosso finche’ viene rivestita di una 
specie di tunica rossa, elemento simbolico della chemioterapia e della 
sua sofferenza.

Non si puo’ certo dire che questa musica non attragga. Questa sua 
continua mobilita’ di linguaggio, timbrica, ritmica infarcita di 
modulazioni improvvise, con squarci lirici, o in alternativa grotteschi, 
riesce a fare entrare nello spirito del percorso della donna malata, sia 
nella sua sofferenza fisica che nella sua ricerca interiore. Ma non 
possono non venire in mente due precedenti, a mio avviso molto piu’ 
convincenti, piu’ forti, anche se meno dettagliati. Parlo della morte di 
Violetta o di quella di Mimi’. In entrambi i casi siamo davanti alle 
ineluttabilita’ di una malattia: nell’Ottocento la tubercolosi, nel 
Duemila il cancro. Ma quello che mi fa rimanere perplesso e’ che Tutino 
usa un linguaggio, certo, molto differente dai due esempi citati, ma 
ancora vincolato allo stesso fattore emotivo. E in questo, secondo me 
Verdi e Puccini sono infinitamente superiori. 
Se devo immaginare una musica che accompagna il percorso di un malato di 
tumore che affronta le sofferenze e la morte, mi sembra che un 
linguaggio meno melodico, meno lirico, piu’ “avanzato” potrebbe essere 
piu’ vicino alla nostra sensibilita’. Carla Moreni, la musicologa del 
Sole24ore addirittura, in suo intervento radiofonico a caldo, pur 
apprezzando sostanzialmente l’opera, ha tuttavia parlato di “occasione 
perduta”. Probabilmente non ha tutti i torti.

La messa in scena. Il Piccolo Teatro Studio si presenta come una specie 
di anfiteatro, un cilindro, aperto su un lato. Sulle pareti del cilindro 
vi sono diversi ordini di balconate, e alla base del cilindro tre o 
quattro ordini degradanti di poltrone. Al centro c’e’ la cavea dove si 
svolge l’azione. L’orchestra e’ situata in una specie di recesso 
ricavato nel punto dove il cilindro si apre. 
Le scene sono molto scarne, e dominate da alcuni manichini di 
grandissime dimensioni quali si vedevano ad esempio nelle sale 
anatomiche di un tempo, e che incombono per tutta l’opera. Arredi come 
alcuni letti bianchi di ospedale al momento opportuno vengono calati 
dall’alto; oppure quando Victoria ha momenti di solitudine nella sua 
stanza, si sopraeleva dal pavimento una specie di 
piattaforma-montacarichi che isola la donna dall’ambiente circostante. 
Piu’ che gli arredi, danno vita visiva alla vicenda i costumi. Quelli di 
Victoria cambiano nel corso dell’opera. Da una vestito “normale” si 
passa alla sottoveste, e poi al camicione bianco dei malati ricoverati, 
fino alla scena in cui appare totalmente priva di capelli, e sempre piu’ 
”consumata” dalla violenza della chemioterapia. 
John Donne ha un vestito nero, con grande colletto bianco, tipico 
dell’uomo di scienza o di fede del Seicento. E similmente sono vestiti i 
medici seicenteschi (vedere i quadri di Rembrandt), il cui canto e’ 
rappresentato dal corale della prima scena, e successivamente nella 
decima scena. La loro presenza e il loro canto da’ un sapore arcaico e 
stabilisce il collegamento fra il presente (la malattia) e il passato 
(lo studio). 
Il personale dell’ospedale indossa costumi grotteschi: specie di 
vestiti, calandre, camici o qualche cosa del genere, bianchi ma con 
vistose cuciture e bottoni rossi. E pure i capelli sono color rosso 
carota. Anche le loro movenze richiamano piu’ i manichini che persone 
umane. Cio’ sottolinea in modo sempre piu’ stridente il distacco fra la 
”scienza” e umanita’. Noi diremmo fra la cura della malattia e la cura 
del malato.

L’esecuzione. Nulla posso dire sul direttore se non che ha saputo 
rendere con chiarezza gli aspetti timbrici, melodici, e anche armonici 
(quando c’erano), e che ha saputo dare alle voci il loro ruolo.

Straordinariamente brava Anna Caterina Antonacci che sia col canto, sia 
con le movenze fisiche ha saputo dare realta’ convincente a questo 
complesso personaggio; e bravissimo anche Michele Pertusi, un John Donne 
mai sopra le righe, ma solenne, accattivante, consolatorio, vera 
personificazione non tanto di un personaggio, ma di una vita. 
Un grande plauso va anche a tutti gli altri personaggi: i principali, 
come Susie l’infermiera, interpretata da Laura Cherici; Jason Poster, il 
medico “curante” con il suo attivismo e il suo entusiasmo a volte 
completamente fuori posto, interpretato dal tenore Keith Olsen; Kelekian 
il primario che non entra mai in contatto con l’essenza, con l’anima 
della malata, ma si preoccupa solo del suo ruolo di “scienziato”. E 
anche agli interpreti che ricoprono ruoli minori, di volta in volta 
quello del personale ospedaliero, quello della troupe televisiva, o 
quello dei medici seicenteschi.

Basta. Sono stanco e mi rendo conto di aver parlato troppo. Richiesta 
quindi inevitabile di scuse a coloro che si sono annoiati.

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