LA FESTA DEL RITORNO, di Carmine Abate

 

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Lo scrittore è nato a Carfizzi, una comunità arbëreshe, cioè italo-albanese. E il libro è ambientato in una di queste comunità. L’emigrazione in Italia degli Albanesi avvenne in gran parte nella seconda metà del XIV secolo, ma anche successivamente, per lo più per arruolarsi come soldati di ventura presso qualche signorotto, oppure per sfuggire ai Turchi che stavano invadendo la loro terra, o per trovare lavoro come contadini. Le loro discendenze fondarono piccole comunità che si insediarono in diversi paesi principalmente della Calabria, ma anche della Sicilia, delle Puglie e della Basilicata. Nei secoli queste comunità hanno mantenuto molti dei costumi originari, e soprattutto la lingua.

Un bambino racconta la sua eccitazione nella notte di Natale, quando nella piazza del paese viene acceso un grande fuoco, e la gente si affolla ad ammirarlo o entra nella chiesa per la funzione.

La notte di Natale per il bambino non è solo la festività religiosa, la fantasmagoria del fuoco, il via vai della gente, le funzioni liturgiche, etc. ma è soprattutto la gioia di poter sedere accanto al padre e di ascoltare i suoi racconti.

Il padre è uno dei tanti meridionali che per mantenere la famiglia è stato costretto ad emigrare. Una lunga emigrazione, interrotta solo dai suoi brevi e scarsi ritorni. Il bambino del padre ricorda la gioia di queste sue rare presenze, ma soprattutto il dolore degli abbandoni.

Ora il padre è tornato definitivamente, e il bambino pende dalle sue labbra ad ascoltare avventure e disavventure in terra straniera.

Il libro alterna i racconti paterni davanti al fuoco, e, come dei flash-back, i ricordi del bambino durante le lunghe giornate passate da solo, le sue esplorazioni della natura, i giochi con i compagni, e la terribile casuale scoperta che la sorella, la figlia di suo padre, è l’amante di un uomo sposato.

Si alternano nel racconto dunque le descrizioni della durezza della vita di emigrante, gli incontri, gli amori, le delusioni di un uomo sradicato dalla propria terra, con le vicende della famiglia lontana che portano gioia ma anche turbamento e confusione nella quotidianità, marachelle infantili, malattie, e la storia di un amore illecito che avrà alla fine un finale convulso, addirittura con un rapimento e una minaccia di omicidio fortunatamente sventata dal tempestivo intervento del cane.

L’alternarsi di due piani narrativi, il racconto del padre durante la notte di Natale e i ricordi del bambino non sono riusciti a destarmi un grande interesse. Episodi narrati vi sono, come la caccia al cinghiale durante la quale il cane viene mortalmente ferito, e sarà salvato da una strana persona che successivamente si saprà essere l’amante della sorella; la scoperta casuale della tresca e il suo impegno a non rivelarla; la malattia del bambino e il lungo ricovero in ospedale; la convalescenza al mare e l’incontro con l’uomo misterioso amante della sorella; il suo rapporto con lui, misto di timore e di ammirazione; e poi le vicende finali con il rapimento, la minaccia di morte e il lieto fine.

Tuttavia il racconto mi pare diluito in descrizioni ambientali, descrizione di sensazioni dei personaggi, descrizioni di piccoli episodi di vita quotidiana e così via. Manca quello che, leggendo, si avverte come l’interesse e il coinvolgimento in fatti che si snodano e che attendono una loro soluzione.

Il carattere del bambino è abbastanza ben definito: un bambino attaccato alla famiglia, diligente quanto basta, osservatore e capace di leggere nei fatti quello che più importa, e sofferente per la lontananza del padre.

Il padre è un emigrante che, nonostante la durezza della vita e dello sradicamento, ama una vita piena quale un paese come la Francia gli può offrire, che invece l’Italia, la Calabria, la sua comunità nella quotidianità monotona dell’umile lavoro dei campi, della disoccupazione, della scarsa disponibilità di danaro, non offre. Quello che ne risulta è un personaggio irrequieto, e forse non eccessivamente responsabile nei riguardi dei due figli. 

L’autore, nei dialoghi, nei racconti, a volte ricorre alla lingua arbëreshe: che è una lingua (orgogliosamente annota), e non un semplice dialetto. Tuttavia questo artificio non aiuta molto a dare l’impressione di essere in una comunità con tradizioni, modi di vivere, ritualità molto diverse da quelle tipiche dell’Italia meridionale. E tanto meno dà la sensazione che queste comunità abbiano un orgoglio di identità. Forse il tempo ha stemperato queste caratteristiche, e la lingua ne è rimasto forse l’unico segno tangibile.

 

 

 

 

 

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