LA MESSA DELL’UOMO DISARMATO, di Luisito Bianchi

 

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Si tratta di un libro che mi ha lasciato alcune perplessità, anche se sotto certi aspetti l’ho trovato affascinante, tanto che la sua lettura mi ha impegnato ininterrottamente per alcuni giorni. Vi sono molti elementi che attirano l’attenzione: primo fa tutti, la ricerca della Parola, ovvero il senso che si deve dare alla propria vita, o forse alla vita in generale.

Che cosa sia la vita umana, quale sia la forza che determina le nostre azioni, quale sia il ruolo dell’autocoscienza, quale sia il ruolo del nostro rapporto con le altre vite che si intrecciano con la nostra: conoscere questo significa afferrare la Parola.

Le Fede insegna che il nostro passaggio su questa terra ha come scopo quello di onorare Dio. Cosa significa ciò nella quotidianità?  Questo vale anche per chi in Dio non crede? Alla fine si è costretti a chiederci: cosa è Dio?

Queste a me sembrano le domande centrali che il libro pone a chi legge, ma credo anche a chi scrive.

Per cercare di rispondere a queste domande, che ognuno in un certo momento della vita si pone, Bianchi ricostruisce un grande evento tragico, quello della seconda guerra mondiale e poi della lotta antifascista e antinazista culminata nella Resistenza, visto e vissuto dagli uomini che più semplicemente e più direttamente hanno a che fare con la vita nelle sue manifestazioni più elementari: gli abitanti di un villaggio di contadini.

Ne esplora così i valori, attraverso le reazioni che su una famiglia, e sugli altri abitanti, provocano i tragici eventi dei quali, da semplici spettatori, essi finiscono per diventare partecipi.

Quello che emerge e’ che questi valori elementari, sottratti agli intrighi e alle speculazioni che la vita più complessa, e in certo senso più mediata, di comunità cittadine o comunque più evolute convogliano, hanno una matrice religiosa. Non si tratta di una religione costituita da simboli, da riti, ma che ai simboli e ai riti finisce per approdare in quanto elementi di ordine e di certezza, proprio, ad esempio, come i riti dell’agricoltura. In sostanza mi pare di avere capito che non sia la religione a dettare in queste persone i valori, ma piuttosto  che siano i valori stessi, dettati dalla terra, che facciano approdare alla religione. La terra non consente deviazioni o speculazioni astratte. In essa solo il lavoro umano fatto con amore assieme la natura con i suoi grandi ineluttabili cicli, determina la produzione del frutto. Cioè, nella terra l’uomo si allea con Dio.

La chiave per capire il libro la si legge nell’ultima parte, ed è la risposta alla domanda più semplice e più diretta: “Ma tu credi in Dio?” La risposta è altrettanto semplice e diretta: “Solo Dio sa se credo in lui”. E questa risposta la può dare un cristiano credente come un non credente.

Il dubbio, la ricerca, l’umiltà e la consapevolezza dei propri limiti vengono posti come la condizione in dispensabile per sentire la Parola.

Fra i valori che aprono la strada per ascoltare la Parola in primo piano c’e’ la sacralità della vita, e tutto ciò che ne consegue: l’amicizia, l’amore, la condivisione delle gioie e delle sofferenze, il rispetto, e la consapevolezza che la vita umana non trascorre inutilmente, ma in un modo o nell’altro le sue azioni e i valori che le hanno ispirate, si trasmettono al prossimo e si tramandano nelle generazioni successive, anche se in forme diverse, nuove, e a volte, perché no, contradditore.

La memoria di ciò che è trascorso, con tutto il suo carico d’umanità (o di umanità nella disumanità) non può e non deve essere ignorata. E ha un suo senso affermare che i giusti che hanno trascorso la loro vita alla ricerca, anche inconsapevole, della Parola e che in questa ricerca hanno trovato la morte quasi vittime sacrificali dei sanguinosi e tragici eventi della guerra partigiana, siano considerati martiri-santi, anche se nessuna gerarchia religiosa ha formalizzato i riti per l’attribuzione di questa santità.

 

Per dipingere questo grande affresco, il libro di Bianchi si compone in un trittico: la prima parte si addentra nella vita semplice e diretta di una famiglia di contadini, in un villaggio della pianura padana. In questa pala sono presentati i personaggi, il loro rapporto con la terra, con la religione, con gli altri paesani. Tutto è ricostruito con l’attenzione e l’amore di chi sulla terra ha lavorato e nella terra ha vissuto: credenze, ciclicità delle stagioni e quindi ritualità dell’operare, sacralità della famiglia, sacralità dell’amicizia, ma anche chiacchiere, piccole invidie, piccoli contrasti, rispetto atavico delle gerarchie sociali, etc.

Sullo sfondo, un monastero benedettino, e un giovane, Franco (nella veste di narratore-personaggio), che, come novizio del convento, attraverso l’insegnamento del proprio maestro (dom Placido) viene a contatto con la ricerca della Parola. Allievo e Maestro saranno separati: Franco tornerà alla vita dei campi, il maestro verrà inviato a Roma a perfezionarsi nell’arte della musica. Entrambi tuttavia resteranno in contatto, e, ciascuno nel proprio ambiente, scambiandosi esperienze e riflessioni, continueranno nella ricerca che li aveva visti uniti.

L’ex-maestro cercherà la Parola nella musica e nel sentimento dell’amore terreno per una donna che, pur penetrando nelle profondità dell’animo, non si esprimerà in un rapporto fisico. L’ex-novizio la cercherà nel lavoro dei campi, nel rapporto con quella terra i cui prodotti danno da vivere all’uomo, i cui cicli stagionali cadenzano la vita di lavoro e sono anche simbolo dei riti religiosi sui quali si basa la vita monastica, o anche semplicemente quella del villaggio. 

 

La pala centrale del trittico è la storia della Resistenza all’invasione nazista e alla prepotenza fascista. Alcuni giovani del villaggio decidono di fuggire sulle montagne. Sono per lo più soldati reduci della prima fase della guerra: reduci dalla Russia, dalla Grecia, rientrati in patria dopo essere stati feriti, e che hanno ormai aperto gli occhi sugli orrori del fascismo e del nazismo; ma ci sono anche giovani e meno giovani che hanno da sempre creduto agli ideali del socialismo; alla convinzione che le differenze sociali (e spesso la fame e la povertà dei più deboli) non sono ineluttabile destino dell’uomo; che la vera umanità ha radici nell’uguaglianza dei bisogni, e nella necessità di esaudirli con il lavoro comune; e ci sono anche intellettuali che hanno clandestinamente combattuto il fascismo, che sono stati inviati al confino, che sono riusciti a fuggire.

Il racconto degli episodi militari della resistenza e’ ampio, e descrive bene la vita sulle montagne, fra gli attacchi alle caserme fasciste per rifornirsi di armi, le scaramucce, i terribili rastrellamenti, le strategie di lotta, i rapporti fra le bande, le loro diverse ideologie, rivalità, gelosie, ma anche la necessità di unificare gli sforzi nell’ideale comune e di combattere uniti per avere ragione dell’oppressore.

E, contemporaneamente, lo scrittore ci riporta alla vita del villaggio, dove i nazi-fascisti terrorizzano la gente e cercano i renitenti ai bandi di Graziani; dove gli abitanti che hanno parenti e amici sulle montagne, soffrono in attesa di notizie; e dove la vita continua, e il lavoro dei campi chiama, perché i cicli della natura non si arrestano neppure davanti ad una guerra di così grandi proporzioni.

Quello che importa di più allo scrittore è il senso della vita che si trova nella lotta armata: la difesa della libertà non può e non deve essere confusa con la vendetta. Gli scontri armati costano dei morti, da una parte e dall’altra. L’atto di uccidere è sempre una crudeltà, una ferita che si fa alla natura umana, un atto che pesa sulla coscienza, consapevolmente o inconsapevolmente. Questo insegnano alcuni dei protagonisti di questa pala centrale. Piero fa il medico partigiano, cura i feriti, siano essi partigiani, siano essi fascisti e si oppone alla esecuzione dei prigionieri spesso voluta dagli altri partigiani, sopraffatti dalla violenza della lotta. Rondine seppellisce con grande rispetto, e spesso a rischio della sua stessa vita, i morti, non importa se partigiani o fascisti: il rispetto per i morti è una profonda espressione del rispetto per la vita. Dom Benedetto, il monaco partigiano, si affianca disarmato alle squadre, e le conforta, indipendentemente dalla ideologia degli uomini; e parla loro di speranza, di fede nell’umanità, di giustizia divina ma anche di giustizia umana. Quando, in un’azione nella quale muore uno degli uomini, ed egli si sente costretto ad imbracciare un fucile, a sparare e a uccidere, porterà fino alla propria morte il peso dell’atto inumano (anche se giusto e inevitabile), e considererà la propria morte come l’espiazione del vulnus che egli, prima ancora che a se stesso, ha provocato all’uomo, creatura di Dio.

Tutto questo lungo racconto che occupa la pala centrale del trittico, non è altro che l’affiorare, attraverso la dura legge dei fatti di guerra, della Parola, cioè del significato della vita: la vita spesa, messa a rischio, ferita dagli atti di disumanità pur necessari per poter affidare alle generazioni successive un mondo più giusto, più umano, più rispettoso dei valori della natura, e quindi di Dio.

 

Questa eredità fa parte della terza pala, quella più pessimistica, anche se fremente di ottimismo. La società che esce dalla resistenza è certamente una società libera, ma anche piena di contraddizioni che contrappongono i valori antichi, quelli per i quali tante vite hanno sofferto o sono state spezzate, ai valori che via via nascono e si affermano, e non sempre sono valori positivi, riaffiorando antichi soprusi. 

I padri, i vecchi resistenti morti vengono ricordati con l’intestazione di una via o di una piazza del paese, ma questo è tutto; ben presto la memoria si spegne; i reduci tornano al loro lavoro senza speciali ambizioni o riconoscimenti; nessuno vuole più ascoltare le testimonianze della loro terribile esperienza; le nuove generazioni incalzano, premono per la costruzione della nuova società, che sarà la loro, non certo quella dei padri.

 Nel corso del racconto, questa evoluzione troverà il suo emblema nell’abbandono e nella trasformazione dell’agricoltura da contadina in industrializzata. Simbolica è la morte del vecchio agricoltore, che  sarà schiacciato da quel trattore che fra mille dubbi e tentennamenti è stato convinto ad acquistare. La meccanizzazione, l’industrializzazione uccidono la vecchia agricoltura, basata sul faticoso e amorevole lavoro dell’uomo.

In questa pala tornano i due protagonisti della prima: Franco, il novizio che ha abbandonato il convento e Dom Placido, il suo ex maestro. Entrambi, separatamente, senza più comunicare fra loro, hanno tuttavia continuato a cercare la Parola.

La resistenza li ha aiutati a trovarla? Sì, forse, ma certamente in modo diverso da quanto entrambi si aspettavano. La guerra, la resistenza, sono passate sopra di loro ed hanno condizionato la loro ricerca.

Entrambi si rendono conto di essere dei sopravvissuti. La resistenza è stata fatta da altri. Essi ne hanno solo subito il fascino, e il messaggio. 

Anche questa tuttavia è una strada.

Franco ha continuato a lavorare la terra fino all’ultimo, quando vicende familiari e i tempi mutati lo hanno costretto ad abbandonarla. È così tornato al monastero, non senza aver cercato di trasmettere i messaggi più importanti ai giovani nipoti, rappresentanti delle nuove generazioni. 

Dom Placido è passato attraverso l’amore “laico” per una donna vivendo tutte le dolcezze della presenza ma anche le terribili sofferenze dell’abbandono e del rimorso; e successivamente, attraverso una via di espiazione, distruggendo i frutti delle sue ricerca musicali, vivendo barbone fra i barboni, e comprendendo alla fine che l’espiazione non sta nel condannare quell’amore, ma capire che esso è un sentimento profondamente umano, e che anche esso è un modo per arrivare a comprendere la Parola. Alla fine torna al convento dove è eletto Abate dai suoi confratelli, e dove finalmente incontra nuovamente il suo amico ed ex-discepolo Franco.

Dopo l’incontro Franco capisce che la sua via per trovare la Parola e’ scrivere proprio questa storia. Questa, secondo me, è l’interpretazione del libro.

 

* * *

Dopo avere riflettuto sul fascino che il libro ha esercitato su di me, non posso non soffermarmi anche sull’aspetto formale.

Secondo me Luisito Bianchi non ha scritto un romanzo. Anche se il libro ne ha la forma, narrando eventi, è privo dell’unità formale necessaria, direi della drammaturgia intesa in senso classico. 

Il modo di scrivere si distribuisce fra eventi, narrati in modo molto, forse troppo diretto, a volte anche un po’ rozzo, e riflessioni, che nel libro abbondano, non sempre espresse in modo chiaro e facilmente comprensibile, e spesso messe in modo da interrompere la successione stessa degli eventi, tale da disturbare la lettura, almeno la mia. 

Le tre pale del trittico sono decisamente squilibrate, e il loro legame esula dalla continuità del racconto per rifugiarsi nello sviluppo del tema principale che è la ricerca e la manifestazione della Parola. 

I personaggi sono descritti in modo fin troppo uniforme, che esclude ogni introspezione psicologica, per sottolineare solo gli aspetti che interessano lo scrittore: cioè protagonisti di un mondo nel quale la Parola cerca inesauribilmente di esprimersi. Quindi più che personaggi mi sono apparsi come dei simboli.

Forse potrei definire il libro un memoriale accogliendo in sostanza quello che alla fine il suo protagonista svela essere il libro: l’impegno a raccontare tutto il lungo percorso della ricerca della Parola, proprio perché nel rivivere questo racconto, egli, come testimone riflesso e riflessivo, riesca a trovarla.

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