Salome alla Scala

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Dire qualche cosa sulla Salome che non sia banale o che non sia già stato detto più che un’impresa difficile, è un’impresa inutile. Salome è quello che è: un’opera che parla intensamente a chi l’ascolta, e chi l’ascolta, se a sua volta sente il bisogno di esprimere ciò che ha ricevuto, ben presto scopre che tutto quello che può dire sono le solite banalità: erotismo, trasgressione, passione, lussuria, etc. Almeno questo è ciò che capita a me.

Ma è questo quello che si prova, o almeno che io provo all’ascolto di quest’opera? Certamente no. O per lo meno, quello che sento è qualche cosa che non si può descrivere a parole; è qualche cosa di molto più intrigante, molto più coinvolgente. Insomma la sensazione che ho è quella di trovarmi di fronte a un capolavoro che ti parla, ti arricchisce dentro, ma ti impedisce di portare all’esterno ciò che ti ha dato. Il rapporto deve essere esclusivo fra te e lui; fra te e Salome, fra te e Jochanaan.

E quello che più mi stupisce è che ogni volta che ascolto l’opera, è come se l’ascoltassi per la prima volta. Non c’è mai un dejà vu, una scena che mi stimoli a noia come davanti a qualche cosa di saputo e risaputo. Lo strabiliante contrasto fra la parte centrale, quasi macchiettistica nella figura di Erode e nelle discussioni degli ebrei, e le due parti “esterne”, il duetto devastante fra Salome e Joachaan all’inizio, e il terribile monologo finale alla fine, è l’elemento chiave che si rinnova continuamente e che dà allo spettatore la sensazione di trovarsi ogni volta davanti una nuova provocazione. Forse la parte più “stanca” è proprio la danza dei sette veli, quella che nell’immaginario collettivo dovrebbe essere il sostegno e l’espressione maggiore della seduzione e dell’erotismo, cioè quella che viene ritenuta la cifra distintiva di Salome.
Forse non è un caso che alla Scala abbiano già ripetuto quest’opera per ben tre volte in dodici anni, e cosa ancor più strabiliante, con tre allestimenti diversi: nel 1995 (direttore Myung-Whun Chung, regista Engel), nel 2002 (direttore Ulf Schirmer, regista Cobelli), e nel 2007. Mai successo con le altre opere.

La rappresentazione scaligera, l’ultima, con la regia di Bondy e la direzione di Harding ha rinnovato il miracolo. Non si tratta di un nuovo allestimento, come impudentemente si legge nel programma scaligero, ma di un allestimento del 1997 del Covent Garden. Ma tant’è: sorvoliamo. Il regista ha scelto, al posto delle più frequentate scenografie grandiose della reggia di Erode, un ambiente scarno, disegnato da Erich Wonder (qualcuno direbbe “minimalista”, ma io trovo questo termine semplificatore e tutto sommato sbagliato, poiché non dice nulla sul significato che lega la scenografia alla regia), privo di arredi, con lo spazio scenico diviso in tre parti: una più ampia a destra delimitata da pareti con grandi finestre chiuse da persiane che lascino trasparire la luce lunare (potrebbe essere una stanza, ma a me sembra più congruo definirla uno “spazio scenico”); una centrale rappresentata da una specie di scivolo, qualche cosa che dà movimento alla scenografia; una posteriore che è una specie di inizio di corridoio che si immagina porti all’interno del palazzo.
Anche i costumi seguono questo tipo di logica. Essi non rispondono ad alcun periodo riconoscibile. Soldati vestiti da strane e improbabili divise, Salome vestita da una tunica e un velo che viene continuamente sventolato, Erode con una specie di semplicissima vestaglia rossa e la immancabile corona, Erodiade con uno strano vestito che potrebbe essere un vestito da sera, e un’acconciatura ancora più strana; infine Jochanaan con una specie di costume alla Tarzan. Anche i costumi rispondono, più che a una logica descrittiva, a una logica “espressiva”.
La regia, cioè il modo di porre i personaggi davanti al dramma e quindi di offrirli allo spettatore tende a rimarcare le conflittualità: Salome contro Jochanaan, Erodiade contro Erode, Salome contro Erode, Jochanaan contro Erodiade, gli ebrei contro Jochanaan ma soprattutto gli uni contro gli altri. I cantanti sono molto espressivi: bravissima soprattutto Salome (Nadja Michael, oltretutto debuttante nell’opera) che, nel canto come nelle movenze sceniche, esprime a meraviglia il nascere della devastante passione, e la sua conclusione, nel monologo finale davanti alla testa, che la estrania, la isola dall’ambiente circostante che si sfuoca sempre più, per poi tornare bruscamente alla realtà col il violento accordo orchestrale che introduce l’ultima frase di Erode (e dell’opera): “Uccidete quella donna!”.
Altrettanto bravo è un Erode (Peter Bronder) macchietta quel tanto che basta, molto convincente, con una voce melliflua bene adatta al ruolo. Molto bella anche la scena degli ebrei, di tono decisamente caricaturale: oltre ai cinque cantanti, una piccola folla di comparse con libri in consultazione, indici levati, etc. (tanto che qualche sprovveduto ha accusato l’ebreo Body di essere antisemita?!). Lo Jochanaan di Falk Struckman non mi ha detto nulla di particolare, anche se forse c’è da osservare un canto alquanto sopra le righe. Di normale amministrazione le altre parti (Iris Vermillon nella parte di Erodiade, Matthias Klink nella parte di Narraboth, Natela Nicoli nella parte del Paggio).
La direzione di Harding mi è sembrata privilegiare soprattutto gli stati d’animo, con un uso della dinamica molto ampio, e caratteristiche espressive accentuate. Forse tutto questo porta a trascurare quello che in Strauss, comunque, è un elemento significante, cioè il suono. È palese che non siamo certo di fronte a un Karajan, e nemmeno a un Levine. Ma, appunto, quello che mi sembra l’aspetto più interessante, è che secondo me non esiste un modo “giusto” e tanti modi “sbagliati” di interpretare un’opera. Ognuno, ogni interprete, dà allo spettatore quello che è il frutto della sua riflessione. A lui sta il saperlo esprimere; allo spettatore, il saperlo capire.

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