TRISTAN UND ISOLDE, alla Scala

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Affrontata e superata la rabbia per lo sciopero di una sessantina orchestrali che inopinatamente e senza un serio motivo mi hanno deluso nell’attesa e privato, come abbonato del turno C, della possibilità di assistere al Tristano e Isotta scaligero, devo ringraziare, e non smetterò mai di farlo, Pinuccia e Lux che invece mi hanno restituito questa possibilità rimediando per me un biglietto per il giorno 28.

Ed effettivamente mi sono reso conto che sarebbe stata una grande perdita non potervi assistere, anche se l’opera è stata più volte trasmessa in video da diverse emittenti, sia come registrazione diretta, sia come diretta-differita. Come da sempre sostengo, la visione in teatro è molto diversa (e direi l’unica realmente autentica) rispetto alle diverse forme riproduttive sia in audio che in video; e anche in questa occasione ne ho avuto conferma.

Il Tristano, credo, è una delle opere, di Wagner, ma anche in assoluto, più sottoposte ad analisi e a critica da parte di musicologi, critici, studiosi, e banco di prova di grande complessità per direttori e registi.

È quindi operazione di scarso interesse, e comunque presuntuosa al limite dell’inaccettabile, che un profano, armato solo di passione per la musica e per il teatro, si cimenti a trovare forme anche solo un po’ originali di interpretazione.

Credo che il motivo centrale dell’opera, come è stato ripetutamente osservato, sia l’amore in termini assoluti, quello che Wagner pone al centro del crocevia rappresentato dai binomi giorno-notte, e vita-morte, situato quindi oltre ogni possibile valutazione morale; e non riuscendo egli ad esprimerlo con le parole (il valore letterario del libretto mi sembra modesto), riesce a farlo in modo superlativo, magistrale, assoluto, con la musica, dove indefinitezza dell’armonia, scomparsa di ogni punto di attrazione tonale, dilatazione dei temi, fluidità dei timbri ci accompagnano a ricreare nelle sensibilità di noi ascoltatori l’emozione di un mistero mai risolto e mai risolvibile: l’amore non come completamento ma come alternativa alla vita.

È universalmente accettato che il Tristano apra, non solo nella musica di Wagner, nuovi orizzonti, che vediamo poi riflettersi nel terzo atto del Siegfried, nel Götterdämmerung e nel Parsifal. Ma credo che la peculiarità dell’incontro eloquentissimo fra il motivo che regge l’opera e la musica che lo esprime, nel Tristano, sia irripetibile. E ciò rappresenta una sfida che affascina sia il direttore d’orchestra, sia il regista che l’affrontano, ma anche l’ascoltatore e l’appassionato che la recepiscono.

La direzione di Barenboim e la regia di Chereau in questa edizione scaligera erano molto attese: Barenboim è oggi, credo a ragione, considerato uno dei direttori più attenti e credibili nelle opere di Wagner, e Chereau ci ha impresso nella memoria la strabiliante interpretazione del Ring di Bayreuth del lontano 1977. Sul lato opposto, nell’attesa dell’opera, molti osservatori facevano notare che oggi non vi siano cantanti dotati di mezzi vocali idonei ad affrontare le impervie difficoltà che l’opera offre, e che ciò avrebbe potuto rappresentare un fattore di debolezza della rappresentazione.

Dopo aver potuto finalmente vedere questo Tristano a teatro, devo sinceramente ammettere di esserne rimasto affascinato. Certo, il mio giudizio può essere influenzato da vari fattori: innanzitutto è la prima volta che assisto dal vivo a quest’opera meravigliosa, anche se ho visto e sentito diverse registrazioni; in secondo luogo, ho una particolare ammirazione per il direttore e per il regista, basata però solo su registrazioni di opere wagneriane. Ma la di là di questi fattori che possono essere strumenti di “pregiudizio”, quello che è emerso dopo le oltre quattro ore di musica e di spettacolo è stato un pieno coinvolgimento e una grande emozione.

La regia di Chereau, da quello che mi è parso evidente, si è basata principalmente sulla riconduzione del mito a termini fortemente umani. Io non ho trovato significati particolarmente “politici”, emergere dalla sua messa in scena. Sì, forse la nave che esce da un buco della storia (rappresentata dal grande muro di mattoni che copre lo sfondo della scena del primo atto); oppure pacchi di varie dimensioni che coprono la tolda di una nave inglese che viene dall’Irlanda e che raffigura in certo qual modo la spoliazione colonialista dei paesi vinti. Ma non mi sembra che l’aspetto “politico” vada oltre questo, e neppure mi sembra essere l’elemento chiave di lettura della interpretazione registica.

L’amore esplode come un momento liberatorio dopo la bevuta del filtro. Quello che era il giorno, o la vita (la lotta fra i regni d’Irlanda e di Cornovaglia-Inghilterra, le azioni eroiche, gli ideali di onore e fedeltà, ecc.) si trasforma nella notte-morte. L’attrazione fra i due esseri, rimasta latente e compressa nelle dimensioni vita-giorno, si libera con violenza nella dimensione notte-morte, dopo che l’assunzione del filtro (veleno non nella realtà, ma nella convinzione soggettiva) si offre loro come l’ingresso alla morte. E il regista ci ha offerto proprio la violenza del sentimento che ignora e oltrepassa ogni rimasuglio del giorno e della vita, e si precipita in un amplesso incurante di tutto ciò che lo circonda, anche della ciurma di marinai intenti a scaricare il bottino di guerra. Essi, come lo stesso Re Mark che sale sulla nave a prendere Isolde, appartengono al “polo“ vita; la passione fra i due al “polo” morte.

Tutto ciò, attraverso la lunga e meravigliosa elaborazione musicale del secondo atto, porta poi alla conclusione nel terzo: Tristan, pur ferito gravemente, non può morire in assenza di Isolde, e tutto il terzo atto non è altro che la estenuante attesa che al giorno possa succedere finalmente la notte e alla vita la morte: e ciò non può accade se non proprio nel momento in cui Isolde si ricongiunge a Tristan.

Nei particolari con i quali la regia si realizza, prevalgono quelli che si impongono di fare emergere l’aspetto umano, carnale della vicenda. Oltre alla violenza dell’amplesso alla fine del primo atto, vale la drammatica conclusione del secondo (Tristan, contrariamente alla didascalia wagneriana, si precipita disarmato su Melot e si fa trafiggere dopo aver chiamato Isolde alla notte eterna del suo castello: notte quindi come morte), e la dolce malinconia del terzo manifestata attraverso la struggente melodia del corno inglese e la tenera e premurosa assistenza di amici e vassalli al corpo gravemente ferito di Tristan. Scenografia e costumi, come si era già osservato nella sua regia del Ring del ‘77, sono privi di un riferimento temporale o di luogo, ma si offrono come realtà a se stanti, valide per ciò che “contengono”, non in quanto “contenitori”.

La direzione orchestrale è stata di altissimo livello, e credo che questo giudizio sia stato ampiamente condiviso non solo dal pubblico, ma anche da numerosi critici e osservatori. Barenboim ha saputo rendere al massimo l’indefinitezza delle armonie e dei timbri orchestrali, servito da un’orchestra al meglio delle sue capacità esecutive.

Il cast dei cantanti ha dato vita ai personaggi con grande capacità interpretativa, dando corpo pieno e convincente alle indicazioni registiche di Chereau. I vociologhi hanno pesantemente criticato la prestazione vocale di Ian Storey, e espresso qualche dubbio su quella di Waltraud Meier. Ma, dal mio punto di vista sono critiche che non intaccano la grande bellezza, e, diciamo, la riuscita finale della rappresentazione. In particolare Storey, la sera del 28, ha cantato in condizioni fisiche non perfette, come lo speaker del teatro all’inizio dell’opera ci ha fatto sapere; e la sua voce aveva uno sgradevole timbro “da patata in bocca”. Ma il suo personaggio di Tristan c’era ed era reale, e questo è soprattutto, secondo me, quello che importa e va valorizzato nella sua interpretazione. Sulla Meier non posso dire altro che è stata una Isolde strepitosa. Splendido anche Matti Salminen nel doloroso ruolo di Re Mark, e Grochowski in quello di un Kurwenal rude ma dolcissimo nell’affetto per il suo amico Tristan. La Michelle de Young come nutrice ci ha offerto l’immagine speculare di Isolde: il buon senso dell’età, la calma affettuosa, ma anche lo sgomento di chi, vissuta sempre nel giorno, non capisce il senso della notte.

Alla fine e dopo ogni atto, grandissimi applausi del pubblico, che mi sono sembrati pienamente motivati.

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