MARIA STUARDA, alla Scala

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L’aspetto generalmente più trascurato, se non del tutto ignorato, dagli amanti dell’opera è il libretto. È vero che la grande maggioranza dei libretti (mi riferisco in particolare a quelli in lingua italiana, in quanto quelli in lingue non italiane sono, almeno per me, più difficili da valutare) sono scritti in una lingua ampollosa, spesso faticosa, e comunque di mediocre qualità letteraria, e che quindi tutta l’attenzione dello spettatore viene monopolizzata dalla musica che saprebbe esprimere sentimenti, emozioni, molto più complesse e impossibili da essere espresse dalla parola scritta.

Ma a me sembra che il rapporto fra libretto e musica nell’opera, intesa come espressione teatrale (e non solo, e non tanto, musicale) non dovrebbe essere trascurato, bensì, nei limiti del possibile, valorizzato.

Non è mia intenzione tanto riaprire la vecchia e dibattutissima questione se vengono prima le parole o se viene prima la musica. Ma credo che valga la pena di considerare l’opera, in quanto teatro che ha come linguaggio principale la musica, un insieme unitario, al quale partecipano in modo equilibrato musica, libretto, drammaturgia. Ne sono esempi di grande rilevanza, ad esempio, opere come le tre dapontiane musicate da Mozart, le ultime due della carriera di Verdi su libretti di Arrigo Boito, l’Orfeo e l’Alceste di Gluck su libretto di Ranieri Calzabigi, i libretti di Metastasio, il libretto di Busenello per L’incoronazione di Poppea, e anche molti altri libretti forse di valore letterario minore ma tale da consentire comunque l’auspicata unitarietà della rappresentazione teatrale, per limitarci alla lingua italiana (ma esempi simili si trovano anche in altre lingue, la tedesca, l’inglese, la francese, e soprattutto la cecoslovacca e la russa, ecc.)

Ma a fronte di questi esempi luminosi, vi sono in grande quantità libretti mediocri se non addirittura scadenti, che magari possono essere utilizzati dal compositore per scrivere della bella musica, ma che raramente rispondono al requisito di offrire una costruzione teatrale unitaria.

Uno di questi libretti è quello di Giuseppe Bardari utilizzato da Donizetti per la Maria Stuarda. Libretto tratto dall’omonima tragedia di Schiller, ne stravolge la drammaturgia, appiattendo i personaggi attorno a scontatissime lamentazioni di amori traditi, o non corrisposti o destinati ad un oscuro destino. La tragica vicenda, che ha ispirato artisti di ogni campo, che ha richiamato l’attenzione di storici, che ha commosso generazioni per la sua intrinseca crudeltà, in questo libretto non strappa un momento di emozione, non induce a partecipare alle vicende e ai sentimenti dei personaggi, non coinvolge nei loro pensieri, nelle loro reali sofferenze. Il conte di Leicester, che viene descritto come il principale motivo del contendere amoroso fra le due regine, appare come un personaggio piatto, ridicolo, privo della pur minima vitalità, che strilla, proclama e in pratica non agisce. La regina Elisabetta non fa altro che esprimere una scontatissima arroganza e gelosia, senza sfumature, piatta e costante per tutta l’opera. Il personaggio di Maria, a parte l’improvvisa impennata del “Figlia impura di Bolena” (forse l’unico momento di reale drammaticità teatrale) assume il ruolo di vittima sacrificale senza mai offrire un momento di coinvolgente sofferenza.

È poi del tutto inutile parlare del valore letterario, molto mediocre, infarcito di retorica, di termini ampollosi, di espressioni di non facile comprensione alla semplice lettura, e a volte anche di approssimazioni e incertezze sintattiche.

Su un libretto di questo genere, i personaggi-cantanti non possono offrire nulla di più che un procedere piatto e uniforme su una musica per lo più scontata, ricchissima di déjà-vu per un ascoltatore che abbia familiarità con il teatro donizettiano. Eppure non si può dire che la musica della Maria Stuarda sia brutta. Accanto a momenti direi veramente mediocri come la sinfonia (ma sembra che sia stata aggiunta da Donizetti in un secondo momento), si ascoltano momenti di maggior bellezza, come il sestetto (peccato che richiami troppo da vicino la Lucia di Lammermoor), o il coro funebre dei parenti, o ancora la preghiera finale, che in altro contesto drammaturgicamente più penetrante, potrebbero quasi suscitare emozione. Teatralmente efficace è la conclusione dello scontro fra le due regine (tuttavia mai verificatosi nella realtà storica), con il sanguinoso insulto di Maria nei confronti di Elisabetta. Ma è anche l’unico momento nel quale questa opera si fa teatro.

Alla fine, si ha la sensazione che questa sia stata un’opera scritta per i cantanti (Maria ha una parte abbastanza ricca di virtuosismi vocali) più che per il teatro.

La regia di Pizzi, in pratica non esiste: Pizzi, in questa messa in scena si conferma uno scenografo di grande valore, ma piuttosto disinteressato a come la vicenda si venga a materializzare sul palcoscenico. L’impianto scenografico è costituito per tutta la durata dell’opera da una enorme gabbia che occupa tutta quanta la scena, dentro la quale agiscono (si fa per dire) i personaggi, e che, per Maria sta a significare la prigionia fisica, per Elisabetta la prigionia del suo ruolo di regina minacciata. Ma i personaggi, i cantanti, all’interno di questa gabbia, sembrano vagare alla ricerca di qualche cosa da fare che né libretto, né musica né regista sono in grado di indicare. Praticamente il tutto si risolve in un immobilismo che di teatrale ha ben poco. Un tentativo di arricchire scenografia e azione teatrale è rappresentato dalla costante presenza di guerrieri (?) armati di fiaccole, vestiti con una specie di divisa in pelle che faceva pensare un po’ alla Gestapo, che si spostavano sul palcoscenico lentamente e che erano la fonte di un minimo di movimento.

I costumi sono quelli tradizionali: più ricchi quelli di Elisabetta, più grigi e anonimi quelli di Maria, che solo al momento del supplizio indossa un vestito rosso.

Una parentesi scenografica piacevole è rappresentata dall’emergere, all’inizio del secondo atto, dalla base del palcoscenico, di un bel bosco, molto ben raffigurato, che nasconde per breve periodo, l’oppressione e l’angoscia della gabbia, quando Maria corre per il parco del castello offrendosi al godimento della freschezza della natura.

La direzione dell’orchestra non mi ha detto nulla: emozione non c’è nell’opera, emozione non ha dato il direttore, che si è limitato ad accompagnare i cantanti. La sinfonia, decisamente brutta, e scarsamente legata al resto dell’opera avrebbe potuto essere evitata (ed è noto che Donizetti non amasse scrivere le ouverture, assenti in quasi tutte le sue opere)I cantanti: Beh, la Devia ha cantato al meglio, offrendo un virtuosismo vocale trascinante, premiato dal pubblico con applausi entusiasti; ma anche l’Antonacci e Francesco Meli hanno dato quello che un’opera del genere richiedeva: intonazione, timbro vocale, gusto di cantare, etc. Zero assoluto invece per quanto riguarda la recitazione: la Devia non ha mai brillato in questo campo, ed ha continuato a non brillare; Meli ha dato corpo al piatto personaggio di Leicester del libretto con una interpretazione altrettanto piatta; la Antonacci, che pur in molte altre occasioni ha dimostrato ottime qualità di attrice, è stata anche lei coinvolta nel grigiore generale. Ma, abbiamo detto: il libretto e la regia, e in fin dei conti l’opera come tale, non permettevano molto di più.

Comunque gli applausi sono stati ricchi e convinti, soprattutto per la Devia.

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