Train de vie del regista romeno Radu Mihaileanu, del 1998

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La 7, in occasione del giorno della memoria, ha trasmesso questo film che non conoscevo. Vale la pena di parlarne. A differenza della maggior parte dei film che trattano il tema della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, e che mettono in evidenza in modo esplicito l’orrore delle deportazioni e delle stragi, questo, utilizzando un linguaggio leggero e dolcemente ironico, ci introduce in una comunità ebraica vivente in uno Stetl dell’Europa orientale. Ci fa conoscere la loro vita quotidiana, il loro aspetto, i loro rapporti, la loro cultura elementare, così come penso che in occidente pochi conoscano se non per sentito dire. L’occasione è la terribile notizia che stanno arrivando i nazisti (“sono giunti allo Stetl al di là delle colline”), che dove arrivano distruggono i villaggi, ammazzano e deportano le gente della quale si perde ogni notizia. Occorre quindi correre ai ripari prima di trovarsi a loro volta vittime.

E la comunità si mette in moto. E lo fa come lo fanno gli ebrei, discutendo su tutto, a partire dalla veridicità della notizia. È un discutere leggero nel quale mille idee nascono e svaniscono in un batter di ciglia, in cui tutti riflettono ad alta voce dando la sensazione di una lite perpetua. Ma non è così. A chi facesse qualche osservazione in merito risponderebbero: come facciamo a pensare senza parlare?

Ed è questa un po’ la cifra con la quale entriamo nello stetl, fra la sua gente: un villaggio sperduto nella immensa campagna, fatto di piccole case di legno, costruite senza alcun ordine, ma calde e accoglienti, dove vive una comunità stretta attorno al rabbino, dove la maggior parte degli uomini porta fluenti barbe e veste abiti neri da chassidim, dove le donne si occupano della casa e sono un po’ le depositarie dello spirito della comunità, e dove ogni decisione importante viene discussa da tutto il villaggio, ma dove ognuno è geloso e difende con pertinacia la propria particolarità. Al di sopra di tutti c’è il consiglio dei saggi, guidato dal rabbino, al quale tutti, prima o poi, ricorrono per le decisioni più gravose.
Ed eccoli alle prese con la sconvolgente notizia: come difendere la comunità dal pericolo nazista. E l’idea che risolve tutto, nel cuore della discussione in cui tutti parlano e nessuno ascolta, nasce dallo scemo del villaggio, dal matto: è la parola di Dio dice qualcuno: facciamo un treno di finti deportati. Lo carichiamo della gente del villaggio, degli animali, dei beni, delle provviste. Alcuni, travestiti, reciteranno la parte dei nazisti. Gli altri saranno i deportati. E ci si dirigerà verso la Russia, e da lì verso la Terra Santa, Érez haQodeš, la Palestina.
L’idea suscita le più vivaci discussioni e obiezioni, alcune sensate, ma molte altre, sempre nello spirito della dolce ironia che riveste il film, di una semplicità scoraggiante, tipo quella di chi considera pazzesco andare in Palestina in treno, perché chissà cosa costerà il biglietto! Ma alla fine l’idea prevale; si faranno le offerte, tutte regolarmente registrate, per l’acquisto dei vagoni; il sarto (“i sarti ebrei sono i migliori del mondo!”) farà le divise naziste; i calzolai gli stivali, ecc. Fra mille resistenze si sceglieranno gli uomini che reciteranno la parte dei nazisti, ci si procurerà i documenti falsi, si acquisteranno e si restaureranno i vagoni del treno, si prepareranno le provviste. E durante tutto questo darsi daffare il film offre i mille episodi di una comunità vissuta per secoli nelle tradizioni, che non conosce altro, e che con lo stesso spirito affronta il nuovo inimmaginabile (il pericolo nazista) e tutte le necessarie cose per potersi difendere.

La narrazione prosegue su questo tono: nessuno vorrebbe fare la parte del nazista perché questo offenderebbe Dio, ma poi una volta indossata la divisa, scatta il senso di autorità e si crea subito una divisione. E gli altri, i “deportati”, anziché essere grati al sacrificio dei loro compagni che rischiano grosso quando incontrano i nazisti veri e appoggiarli, li considerano nazisti a tutti gli effetti e ne stanno alla larga. Le donne, nel preparare le provviste, pensano alle feste della tradizione, e vorrebbero che fra le provviste ci fossero anche i dolci tradizionali, evidentemente poco adatti per una situazione di emergenza. I contatti con l‘esterno fanno entrare nella comunità l’ideologia comunista “Persone di tutto il mondo unitevi!”, e subito alcuni di loro si tagliano la barba, fanno nascere i soviet di vagone, acquistano la mentalità rigida e burocratica dei partiti comunisti, proclamano che Dio non esiste, ma affermano che il Messia è arrivato, e poi che il Messia è un nome in codice per non farsi riconoscere, ecc. Il contabile ha un malore tutte le volte che deve tira fuori i soldi per l’acquisto di un vagone. Si cerca e si trova il guidatore della locomotiva, che non è mai salito su una locomotiva in vita sua, ma che sa condurre un carretto col cavallo, e quindi è uno che se ne intende di mezzi di trasporto. Si organizzano lezioni di tedesco per togliere a chi reciterà la parte del nazista la cadenza yiddish (“il tedesco è una lingua rigida; l’yiddish è una parodia del tedesco con in più il senso dell’ironia”, dice l’insegnante) con risultati non sempre incoraggianti. Tutto è raccontato con leggerezza, grande senso del colore, dolce e struggente ironia che ci fa sentire vicini a (e invidiosi di) questa comunità, dove il senso dell’umanità, con tutte le sue contraddizioni, le sue incongruenze, le sue difficoltà, è sempre prevalente su tutto, e ci affascina tanto più quanto contrasta in modo stridente con la nostra società che di comunitario non ha più quasi nulla, e dove al senso di comunità si è sostituita la macchina organizzativa, e dove la solitudine, simboleggiata dagli ipod e dalle cuffiette d’ascolto che tutti hanno per strada, sui mezzi pubblici, e si immagina anche in casa, domina incontrastata.

Così il treno parte, in gran segreto. E tutta la seconda parte del film è dominata da questo buffo convoglio, quasi un trenino di quelli dei giochi di ragazzi: un sbuffante locomotiva seguita da vagoni merci e da vagoni di lusso che ospitano le truppe “naziste”, che percorre verdi campagne di grande dolcezza e malinconia: la corsa verso la libertà. Ma se per ragioni di chiarezza il termine “nazista” deve essere scritto fra virgolette, questo non lo è per i viaggiatori, e il contrasto fra deportati e militari emerge sempre più marcato: un evasione dei “deportati” con recupero da parte dei falsi nazisti, che per caso non ha tragiche conseguenze visto che nei dintorni operano nazisti veri; un incontro con un distaccamento nazista vero che viene risolto grazie alla fantasia del pseudoufficiale Mordecai; un incontro con un gruppo di zingari che anch’essi si sono finti deportati per sfuggire alla deportazione vera sono alcuni degli episodi narrati. E con questi tanti altri episodi di vita quotidiana in una situazione che di quotidiano ha ben poco, e dove lo scemo del villaggio, il matto, è spesso la fonte delle idee che risolvono i grandi come i piccoli problemi, che né Mordecai, il pseudoufficiale nazista, né i soviet di vagone, né il consiglio dei saggi riescono a risolvere nonostante le continue e caotiche discussioni.

E così il film corre verso l’epilogo che, a differenza dell’euforia dei partecipanti, si rivela essere solo un sogno dello scemo (?) del villaggio, che in veste di deportato, dietro il filo spinato di un lager ci guarda come per dire: sarebbe stato bello? No?

2 Commenti a “Train de vie del regista romeno Radu Mihaileanu, del 1998”

  1. silvia scrive:

    ma io volevo capire il messaggio che il regista ci vuole comunicare =)

  2. Rudy scrive:

    A me sembra che più che un messaggio il regista ci comunichi un sensazione: una voglia di umanità che il trenino con i suoi viaggiatori, che cercano di salvarsi camuffandosi da deportati, ci fa vivere nella squallida ambientazione di una macabra ideologia. La banalità del male? Tu hai visto il film? ti sei fatta un’idea? Grazie

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