LA DEMOCRAZIA IN TRENTA LEZIONI, di Giovanni Sartori

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Si tratta della pubblicazione in libro di una serie di trenta lezioni sulla democrazia che Sartori ha fatto in televisione sul canale satellitare Raisat extra.
Naturalmente, come professore universitario la sua preoccupazione maggiore è quella della precisione dei termini e delle definizioni. Non sempre questa preoccupazione si sposa con l’altra preoccupazione, che dovrebbe essere alla base di un libro divulgativo come questo: quella della chiarezza, o meglio della comprensibilità per lettori che non hanno particolarmente approfondito l’argomento.

Il punto di partenza è quello del significato etimologico del termine. Da lì Sartori si lancia in una discussione sulla corrispondenza del termine originario, “governo del popolo” con le diverse interpretazioni e le diverse realizzazioni che si evincono dalla storia. A me sembra che tutta questa discussione che si estende per diverse lezioni iniziali, alla fine non modifichi quello che è il modo di intendere la democrazia di un lettore che vive in uno stato occidentale, dove la democrazia ha un fondamento consolidato, anche se sempre in bilico. Nessuno di questi cittadini metterà in dubbio che la democrazia si compone di una rappresentanza eletta dal popolo col compito di governare e fare le leggi; di garanzie costituzionali che impediscano ad una eventuale maggioranza di annullare i diritti delle minoranze; di separazione e indipendenza dei poteri, soprattutto del potere giudiziario da quello legislativo e da quello amministrativo; della possibilità di esprimere da parte di chiunque il proprio pensiero pubblicamente; della possibilità di esercitare la propria libertà entro limiti che confinano con quelli della libertà delle altre persone.
Alla base di tutto questo gli scienziati hanno cercato motivazioni che è certamente interessante conoscere, ma quello che più importa è capire che questo sistema, la democrazia, qualunque sia il modo di intenderla, deve avere come obiettivo finale quello di impedire che i diritti dei cittadini vengano soppressi da un potere da loro non più controllabile.

Poi, certamente, vi sono vari modi nell’esercizio della democrazia, e nella storia vi sono esempi di ogni tipo che Sartori elenca cercando di farne comprendere pregi e difetti. Tanto per citare uno dei problemi che l’esercizio della democrazia incontra è la dimensione della comunità che esercita la democrazia: il modo di esercitare la democrazia in un piccolo stato, o in una città, non può essere utilizzato, ad esempio in un grande stato. Questa è una critica esplicita al concezione di Segni di un premier eletto dal popolo come fosse il “sindaco d’Italia”. Una cosa è il governo di una città. Una cosa diversa è il governo di un grande stato.

Un altro problema è l’incertezza che può essere provocata da una cultura che, pur dichiarandosi democratica, affida al voto popolare il soffocamento di diritti di minoranze. Peggio ancora se i meccanismi sono tali da negare diritti universalmente riconosciuti addirittura a maggioranze. Un esempio è quello della Svizzera, che per anni e anni ha impedito alle donne di accedere al voto, attraverso referendum nei quali poteva votare solo la popolazione maschile. Possiamo definire democrazie sistemi simili a questo? Eppure nella democrazia dell’antica Grecia questi meccanismi non solo escludevano dal potere decisionale le donne, ma anche quelli che non avevano la cittadinanza, in quanto immigrati, o schiavi, ecc.
Potremmo proiettare questo discorso alle società attuali, immaginando che immigrati che lavorano, che pagano le tasse, che utilizzano i servizi pubblici, dovrebbero poter godere di diritti come quello di esprimere rappresentanze nel governo del paese che li ospita e per il quale lavorano e producono. Forse questi aspetti avrebbero potuto essere, se non approfonditi, almeno posti come problemi.

Quello che secondo me viene trascurato, certamente nelle democrazie moderne, ma che era ben presente nelle democrazie della Grecia antica, è l’interferenza del denaro nei meccanismi con cui avviene l’elezione di coloro che dovranno governare. Accanto al problema del denaro si colloca anche il problema dell’informazione, spesso collegato al primo. È noto che l’informazione è in grado di influenzare le scelte delle persone, e che quindi, chi controlla l’informazione è in grado di controllare, almeno in gran parte, se non in tutto, queste scelte. Il controllo dell’informazione può essere esercitato in due modi: o usando un potere estraneo alla democrazia (la censura o forme simili anche se più subdole), oppure, dato che l’informazione ha un costo, attraverso il denaro. L’Italia, con il suo conflitto di interessi, che coinvolge il Presidente del Consiglio proprietario di tre reti televisive, è un esempio negativo di questo aspetto della democrazia. Un altro aspetto negativo è offerto dalla Russia, dove Putin, attraverso vari sistemi, è in grado di controllare un parte cospicua dell’informazione. I Greci, per ovviare a questi fenomeni ricorrevano al sorteggio, evitando in tal modo che le persone più ricche avessero maggiori opportunità di essere elette.

Un problema che Sartori tocca è quello dell’ideologia, e delle sue interferenze col principio di democrazia. Per definizione, il problema ideologico, nelle società interessate, è quello legato alla filosofia di Marx. Sartori si dilunga sull’origine e sul significato del termine comunismo, del suo legame col marxismo e della sua realizzazione in Russia e in altri stati, attraverso le idee e la gestione di Lenin e Stalin. In realtà a me sembra che collegando lo stato Sovietico al Marxismo si eserciti una forzatura. Certamente Lenin sosteneva di puntare ad uno stato in cui si realizzassero le intuizioni di Marx. Ma questa era appunto una forzatura. Marx pensava certamente sì ad una rivoluzione che trasferisse la proprietà dei mezzi di produzione dai privati allo stato. Ma pensava che ciò avvenisse attraverso una rivoluzione dalla classe operaia, consapevole dello sfruttamento e capace di trovare una unità politica; e Marx pensava a società industrialmente avanzate, Germania innanzitutto. La rivoluzione russa avvenne in uno stato sostanzialmente agricolo, con una classe operaia debole. L’organizzazione dello stato non poteva essere certamente del tipo previsto da Marx, e finì quindi per degenerare un una feroce e sanguinaria dittatura, quella di Stalin, seguita da un immobilismo che caratterizzò la dittatura di Kruscev e di Bresnev. Quando si volle cercare una transizione verso forme meno immobilistiche e più capaci di evolversi, sotto la guida di Gorbacev, il sistema collassò.

Un altro aspetto del libro che non mi convince, per rimanere sempre nell’ambito del sistema comunista, è la negazione che la rivoluzione di ottobre sia stata una vera rivoluzione, e venga definita un colpo di stato. Il termine di rivoluzione sarebbe quindi da applicare esclusivamente a quella di febbraio, che portò al potere Kerenski e che si basava principalmente sulla ribellione del ceto medio produttivo all’autocrazia zarista. Intanto a me sembra che il termine “colpo di stato” vada attribuito al sovvertimento violento del potere per mano di un organo istituzionale dello stato che ha gli strumenti necessari (la forza) per soffocare gli altri poteri e assumerne il controllo. Il Cile di Pinochet subì un colpo di stato, nel quale l’esercito usò la forza militare per soffocare il potere del governo legittimo di Allende. In Europa, un tipico colpo di stato è stato quello cosiddetto dei Colonnelli in Grecia. Ma gli esempi di questo tipo sono infiniti. Nel caso della rivoluzione di ottobre non si vede quale istituzione dello stato abbia compiuto il “colpo di stato”. L’assalto al palazzo d’inverno è stato attuato da un gruppo politico, quello dei bolsheviki, con l’appoggio dei cannoni di una nave da guerra, e in seguito a questo il sistema dei soviet, cioè dei consigli popolari ai quali era delegato il potere, si è rapidamente diffuso a tutta la Russia. Quello che a me sembra più logico pensare è che la rivoluzione russa, che ha avuto origine certamente nel febbraio, come tutte le rivoluzioni riuscite sia poi continuata con scontri reciproci all’interno dei gruppi rivoluzionari e nell’ottobre abbia portato alla sostituzione violenta di un gruppo dirigente con un altro. Fenomeni simili si sono visti anche nel corso della rivoluzione francese, dove la sostituzione o l’avvicendamento di gruppi dirigenti nell’ambito dei protagonisti della rivoluzione era abbastanza frequente: basterebbe pensare al conflitto Danton-Robespierre, oppure alla liquidazione di Robespierre, o all’avvento di Napoleone, e così via. Tutto questo non è mai stato definito “colpo di stato”.

Altro problema che Sartori pone, è l’esportazione della democrazia. Afferma che ciò è possibile in date situazioni. Anche qui non mi sento di condividere questa affermazione. Tutto il sistema complesso che permette ad un sistema statuale di essere democratico, e fare in modo che la democrazia svolga il suo compito fondamentale, quello di opporsi al sorgere di una tirannia e di dare una risposta ai problemi di sopravvivenza e sviluppo della collettività, non può essere improvvisato. Se un esercito di un paese democratico riesce militarmente ad abbattere una odiosa dittatura presente in un altro paese per esportarvi la democrazia, ben presto si accorgerà del fallimento, se in quel paese la democrazia non aveva già delle radici, ovvero se in quel popolo la cultura della democrazia non aveva avuto alcuna evoluzione. Nella pubblicistica americana (gli Stati Uniti sono lo stato che si sente più impegnato ad esportare la democrazia, in base alla dottrina che l’allargamento della democrazia nel mondo comporta un rafforzamento della sua sicurezza) ad esempio si citano come successo della esportazione della democrazia l’Italia, la Germania e il Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Gli esempi di Italia e Germania sono del tutto falsi. Questo lo afferma anche Sartori. Italia e Germania avevo avuto lunghi periodi di governi democratici prima di cadere sotto le dittature rispettivamente fascista e nazista. L’esercito statunitense, vincendo la seconda guerra mondiale e sgominando fascismo e nazismo ha permesso ai popoli italiano e tedesco di ricostituire una democrazia che già in passato avevano sperimentato. L’esempio del Giappone probabilmente è diverso, e, dato che conosco poco di quella realtà, non mi addentro nella discussione.
In realtà lo stato che vorrebbe essere considerato come il maggior “esportatore” di democrazia, ha esportato invece dittature in tutta l’America Latina, in Asia e in Africa. Oggi abbiamo il problema dell’Iraq e dell’Afganistan, ma, mi sembra di poter dire, il fallimento di esportazione della democrazia in questi paesi è sotto gli occhi di tutti.

Un altro problema posto è quello del pluralismo e del multiculturalismo. In questo mi pare che Sartori abbia ragione. Il pluralismo è la convivenza di varie diversità che si integrano nel rispetto reciproco e concorrono al governo della democrazia del paese (diversità integrata, la definisce Sartori). Il multiculturalismo è invece il sorgere di enclave chiuse in se stesse che tendono a dividere lo stato in minuscole realtà, ognuna delle quali si autogoverno e rifiuta l’integrazione nello stato unitario (Identità separata, la chiama Sartori). È evidente che il pluralismo, in uno stato di diritto, deve essere incoraggiato, mentre il multiculturalismo deve essere fortemente scoraggiato. L’arroccarsi di comunità provenienti da paesi diversi in singoli quartieri delle città creando delle Chinatown, o altre realtà consimili, rende sempre più difficile il controllo del territorio da parte dello Stato e quindi l’esercizio della democrazia.

Un altro capitolo riguarda il problema del mercato come espressione della libertà che si verifica in uno stato democratico. Il mercato potrebbe essere l’espressione dell’economia quale si realizza in uno stato democratico. Ma di per sé il mercato non risolve tutti i problemi. Anche su questo punto le indicazioni di Sartori mi sembrano condivisibili. Il mercato è uno strumento che è in grado di equilibrare costi e benefici, attraverso l’incontro continuo tra domanda e offerta. Ma il mercato è miope, dice Sartori, e non vede in lontananza. Non sarà quindi il mercato che potrà individuare ed adottare le misure necessarie per poter ovviare a gravi rischi che incombono sul nostro futuro: ad esempio la scarsità di energia, la scarsità di acqua, l’effetto serra e il riscaldamento del pianeta. Tutto ciò deve trovare dei meccanismi correttivi che il mercato ignora e che devono essere trovati nell’organizzazione dello stato.

Per concludere, il libro è un interessante strumento di riflessione, non sempre chiarissimo, non sempre condivisibile nella conclusioni, ma, tutto sommato, leggibile.

1 Commento a “LA DEMOCRAZIA IN TRENTA LEZIONI, di Giovanni Sartori”

  1. Mariella Canaletti scrive:

    Non sono d’accordo sul fatto che in occidente si sappia che cos’è la democrazia: prova a interrogare qualche giovane, o anche meno giovane, e vedrai. Né mi sembra che Sartori volesse scrivere un libro esaustivo sulla democrazia, avendone già scritto uno molto ponderoso che costituisce la sua opera più importante (che purtroppo non ho letto): si tratta di lezioni, che a mio modesto avviso possono chiarire qualche idea, anche ai molti indottrinati che ragionano per assiomi.
    Io ho trovato piacevole la lettura, e anche facile -forse per la mia formazione scolastica-e comunque stimolante.

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