VERDERAME, di Michele Mari

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È un’amicizia fra un ragazzino di 13 anni, Michelino (da quello che ho capito, è un transfert dello scrittore) e un vecchio, Felice, bruttissimo, addirittura d’ aspetto ripugnante, che fa da ortolano tuttofare e dà alle viti il verderame nella casa dei nonni sul lago Maggiore dove il bambino passa ogni anno le noiosissime vacanze estive.

Felice uccide con una vanga le lumache rosse che infestano l’orto; e lo fa con cattiveria. Perché? Perché solo le rosse e non le altre, e soprattutto perché le chiama “lumache francesi”, anzi “lümàgh frances”? È la domanda che gli pone Michelino. Felice comunque ha gravi problemi di memoria, una specie di Alzheimer, che diventa più grave giorno dopo giorno. Michelino lo vuole aiutare ed escogita forme di mnemotecnica.

Da questa situazione prende avvio la storia. Michelino attraverso affermazioni smozzicate di Felice scopre che dietro la figura dell’uomo, e anzi, dietro la storia della casa stessa, si celano misteri che egli vuole riportare alla luce. E così, nelle vesti di un Sherlock Holmes in erba, indaga, interroga sempre più stringentemente Felice, i nonni, e anche qualche personaggio al di fuori della casa, come una certa Carmen (amica di Felice, personaggio che tornerà nel finale); va in comune, va al catasto, esamina documenti per capire le varie trascorse proprietà della casa che i nonni hanno acquistato da profughi russi, fuggiaschi dalla rivoluzione comunista, che hanno trovato asilo in quel paese sul lago Maggiore, e con i quali i contatti sono stati fugaci e interrotti all’improvviso; fruga nella cantina, scava nell’orto antistante la casa, perquisisce la stanzetta dove Felice vive. E nel corso di tutte queste indagini emergono lumache carnivore, bottiglie piene di mosto, ma in realtà piene di sangue; emerge che Felice vorrebbe conoscere un padre che gli si raffigura vestito come un ussaro dei tempi antichi e si lascia scappare quasi senza accorgersene frasi in francese; si scoprono tre cadaveri in divisa nazista nascosti in uno sgabuzzino della casa ignorato da tutti; emergono dal terreno gli scheletri di una dozzina di uomini, e altri misteri consimili.
Michelino non ne parla coi nonni, che fanno una vita ben lontana dalle preoccupazioni del bambino; non fa denunce, ma vuole risolvere i vari aspetti di questi misteri, ricostruendo storie parziali, con le quali mettere a posto i vari reperti come fossero le tessere di un grande puzzle. E fra le tessere di questo puzzle entrano anche i fatti storici del passato, il fascismo, l’invasione nazista, la resistenza.
Tutti gli elementi confluiscono alla fine dove la storia trova la sua spiegazione e la sua conclusione.

In una intervista Mari risponde alla critiche di chi interpreta il finale come onirico, quindi non reale. In realtà, leggendo anch’io ho avuto la stessa sensazione. Tutti i misteri che sorgono nel corso del racconto contribuiscono a creare un’atmosfera da romanzo giallo o da thriller; e le stesse ricostruzioni parziali e transitorie che ne fa Michelino, ogni volta parzialmente smentite da fatti nuovi o da nuove scoperte, contribuiscono a creare questa sensazione. Ma, a parte alcune incongruenze che sbilanciano l’equilibrio, peraltro molto ben costruito del racconto, come l’apparizione di numerosi scheletri sotto la superficie dell’orto della casa, la debolezza come soluzione realistica di un giallo, è che Mari, nel racconto finale, deve introdurre qualche nuovo personaggio, qualche nuova situazione non presente nello svolgimento del romanzo, per spiegare compiutamente tutti i fatti. E questo mi ha lasciato perplesso: per essere credibilmente realistica la soluzione deve contenere tutti e solo gli elementi di mistero che emergono nel corso del racconto. Inoltre alcuni dei misteri che sono emersi nel racconto non trovano una spiegazione soddisfacente.

A parte questi aspetti, che forse sono proprio quelli che hanno fatto pensare a un finale onirico, piuttosto che reale, il libro è scritto in modo avvincente. Michelino è un bambino simpatico, con la sua curiosità (sappiamo anche che è un accanito lettore); il suo attaccamento al vecchio Felice, la sua attenzione a non urtarne la suscettibilità, la sua preoccupazione quando si rende conto che l’amico sta male, la sua irritazione contro i nonni che trattano il povero ortolano tuttofare con sufficienza e minacciano di licenziarlo perché lo considerano poco produttivo, sono tutti aspetti che fanno sì che il lettore si senta vicino a lui, se non addirittura suo amico. Mari, nell’intervista, riferendosi alla purezza dell’infanzia, non quella letteraria o massmediatica che rifiuta decisamente, ma quella reale, quella legata all’ignoranza, parla testualmente della “crescita come perdita”, della “maturazione come ossidazione”.
Felice è un vecchio (nessuno conosce la sua età, e neppure il suo cognome, e non risulta in alcuno dei registri delle nascite in comune) che parla sempre e solo in dialetto varesotto, ha gravi problemi di memoria, è alla disperata ricerca del ricordo del padre, alla sera va all’osteria e si ubriaca fino all’incoscienza nella speranza di trovarlo, ma poi sul lavoro è lucido e ineccepibile; è profondamente affezionato a Michelino, che considera l’unico suo amico (ma questo non è vero, e nel libro si vedrà il perché), anche se il modo di rapportarsi con lui è spesso brusco, a volte addirittura irritato, quando Michelino sembra scavare troppo nella sua memoria, che ha volte manca od è fallace, ma a volte è tenuta coperta consapevolmente.

Il linguaggio del libro è fluente, chiaro, e l’uso del dialetto nel parlare di Felice dà una fresca vivacità alla narrazione, oltre che a darci un’immagine del vecchio molto realistica, quasi “visiva”. Sarà un caso, ma mi pare che gli scrittori che usano frammenti di un dialetto o addirittura di una lingua “straniera” nei loro romanzi siano piuttosto frequenti in questo scorcio di secolo. Oltre a questo di Mari, ho letto recentemente i libri di Niffoi che abbondano di espressioni sarde, il libro di Junot Diaz La breve favolosa vita di Oscar Wao, che usa frequentemente espressioni in spagnolo-dominicano, e il solito Camilleri con le note espressioni in siciliano. In tutti i casi questo modo di esprimersi, effettivamente, dà vivacità alla narrazione.

Il romanzo ha vinto il premio Grinzane Cavour 2008 per la letteratura italiana

Ascolta l’intervista all’autore su Radio3 Fahrenheit

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