STABAT MATER, di Tiziano Scarpa

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Siamo attorno ai primissimi anni del XVIII secolo. Cecilia, una trovatella, è stata abbandonata dalla madre e cresciuta dalle suore in un orfanotrofio di Venezia, l’Ospitale della Pietà. Possiamo immaginare quale possa essere stata la sua vita. All’età di 16 anni, assieme a centinaia di ragazze abbandonate come lei, in un’età in cui affiorano alla coscienza le principali domande, cerca di capire il senso della propria esistenza, priva com’è di riferimenti al mondo esterno e costretta a una forma di clausura che non le lascia alcuna prospettiva immaginabile.

Il tormento interiore di Cecilia si sfoga nello scrivere a una immaginaria madre, che, ovviamente, non conosce, non ha mai visto, non sa neppure se esista realmente. Anzi, dalle sue lettere scopriamo che per diversi anni ella non sapeva neppure dell’esistenza del personaggio “madre”. L’esistenza del nuovo personaggio le si rivela all’improvviso, in modo traumatico, mentre assiste di nascosto a un parto avvenuto in gran segreto in una latrina dell’Ospitale. Anche lei, come il piccolo essere che ha visto nascere, è uscita da un ventre di donna, quella che appunto viene chiamata “madre”.

Questo nuovo personaggio penetra gradatamente nella sua vita, ne giustifica la ragione anche se l’ha abbandonata alla nascita, ma non ne promuove il futuro, che rimane oscuro come oscuri sono i corridoi, le stanze, gli ambienti dell’orfanotrofio.

Allora Cecilia incomincia a sentire il bisogno di scriverle. Sono lettere di tormento, a volte di disperazione, spesso di rassegnazione. Tutte le notti, in una persistente insonnia, va a nascondersi in un luogo solitario, lungo passaggi che lei sola conosce, dove può scrivere senza essere sorvegliata. Sono lettere che rimangono ermeticamente chiuse in un nascondiglio, che non hanno indirizzo, che non saranno mai spedite.

Le lettere si susseguono, e dalle lettere emerge la vita-non vita di Cecilia. Il suo tormento sul processo della nascita (immagina che il bambino che nasce non sia altro che la paura di morire che fugge dal corpo mortale), richiama l’affacciarsi della morte: un’amica fantasma, che si materializza alle sua spalle; una testa di medusa, con serpenti attorcigliati al posto dei capelli. Qualche cosa di terrificante, certo, ma che Cecilia, senza la minima paura, desidera al proprio fianco; e con la quale dialoga alla ricerca di un senso alla vita, e dalla quale si sente ripetere le verità che ella esperimenta quotidianamente.

Il mistero della vita e della morte si intreccia nelle lettere di Cecilia, con il mistero della musica. Le trovatelle che dimostrano talento studiano musica mediante uno strumento o col canto. Cecilia suona il violino, fa parte della piccola orchestra, formata dalle ospiti dell’orfanotrofio, che accompagna le solenni funzioni religiose. Si suona musica composta appositamente per la devozione, ma anche il piacere, dei frequentatori della chiesa. Le trovatelle suonano e cantano su poggioli e balaustre coperte da grate che ne nascondono le fattezze, lasciando che esse vengano immaginate da chi ascolta. È fatto divieto alla trovatelle di mostrarsi in pubblico, e nelle loro rare uscite dall’Ospitale, indossano vestiti che le coprono integralmente e maschere sul viso.

In quel periodo, quello dei 16 anni di Cecilia, la musica è composta da un anziano prete, Don Giulio. La sua musica di Don Giulio è ripetitiva, non si rinnova. Ciò che esce dagli strumenti è un suono monotono. Cecilia non riesce a dare alcun valore a questa musica: «Le note scritte assomigliano a tante teste di chiodi piantati, noi arriviamo coi nostri strumenti musicali e le sfiliamo una per una, le tiriamo fuori come se togliessimo un chiodo e lo liberassimo». «Noi siamo un parvenza che secerne musica».  A volte un senso sembra nascere, attraverso il suono, come imitazione dei rumori della natura: lo stridere delle rondini, il canto dell’usignolo. Ma la musica non è gioia. Gli uccellini sono frastornati dalla loro voce, cercano di disfarsene, come fa l’usignolo col suo canto, ininterrotto, continuo «fino allo sfinimento», quasi disperato.

La musica entra di prepotenza nelle lettere alla madre, dove si viene a definire un parallelo: come la musica è un incontro di suoni che creano un’armonia, così avviene per il pensiero che si deve tradurre in parola: si forma una specie di accordo, come quello che si forma fra due note quando si incontrano. «La frase si snoda come un contrappunto» scrive Cecilia. Ma forse non è così. «Se riuscissimo a suonare esattamente quello che pensiamo, se la nostra mente avesse una voce installata nella sorgente dei nostri suoni pensati, noi potremmo distruggere la terra dalle fondamenta ed edificare nuove montagne e nuove stelle».

Il vecchio Don Giulio ad un certo momento lascia, se ne va. Al suo posto arriva un giovane prete, Don Antonio, facilmente identificabile con Antonio Vivaldi. La musica cambia bruscamente. Don Antonio scopre nelle suonatrici nuove potenzialità, e cerca di sfruttarle. In particolare Cecilia viene presa di mira. Don Antonio ne scopre il talento e la stimola. E i tentativi di Cecilia di nascondere le sue capacità (si diletta a stonare per cercare, senza riuscirci, di confondere il nuovo maestro) alla fine le aprono una nuova prospettiva.

Vivaldi apprezza le imitazioni che fa col violino del suono degli uccelli o dei rumori della natura. Non solo la stimola ad approfondire queste capacità, ma egli stesso compone musica definibile come imitazione della natura (evidente citazione delle quattro stagioni, la cui composizione, tuttavia, come anche ci avverte nelle note finali al libro lo stesso scrittore, sono qui riportate in modo anacronistico).

La nuova musica e il rapporto di Cecilia con Don Antonio apre alla fanciulla nuove prospettive. Ora il futuro non è più così ombroso, monotono, indecifrabile. Le lettere alla madre sono sostituite dai colloqui col maestro. Si apre una duplice possibilità: restare nell’orfanotrofio per diventare una celebre violinista, oppure fuggire, aprirsi una strada nel mondo, portar fuori il proprio talento, essere finalmente una donna.

La scelta di Cecilia cadrà su questa seconda possibilità.

Il romanzo potrebbe essere definito “epistolare”. Ma in realtà queste lettere si offrono più come una confessione a se stessa, che un rapporto rivolto a una persona. Tiziano Scarpa costruisce un ambiente che, pur rispondendo a un luogo (Venezia, l’Ospitale della Pietà) e a un tempo (i primi anni del XVIII secolo) non esprime quelle che potrebbero esserne caratteristiche scenografiche. Gli interpreti principali sono Cecilia, la solitudine di una vita di clausura, e la musica. Lo stesso titolo del romanzo esprime bene l’intreccio fra i due temi: Stabat mater è una composizione di Vivaldi, ma è anche riferimento all’oggetto al quale Cecilia confida la propria solitudine, la madre appunto. In questo il libro è avvincente. Cecilia emerge come una persona viva e vitale. I suoi pensieri affidati alle lettere, i suoi dialoghi con la morte, i suoi insegnamenti alla piccole trovatelle che devono imparare i primi rudimenti del violino, le sue titubanze davanti al nuovo rappresentato da Don Antonio, sono tutti elementi che danno alla personalità di Cecilia una presenza tridimensionale, che si concretizza nella decisione finale. Da notare la passione di Scarpa per la musica di Vivaldi, che nel libro viene, almeno in qualche episodio, descritta come la può essere da un appassionato. In una nota finale lo scrittore, approfondisce alcuni temi, riportandoli dall’elemento di invenzione fantastica del romanzo, a quello più filologico delle composizioni del Prete rosso.

Una cosa mi ha colpito in modo particolare: la condizione di Cecilia in cui viene ignorata l’esistenza di una figura fondamentale nella nostra vita: la madre. Nell’uomo è un sentimento naturale, istintivo, l’amore che il bambino appena nato riversa sulla madre. È un amore fatto di senso di sicurezza, di modello di imitazione, di aiuto nella sofferenza… come può non esistere l’oggetto di questo amore? Quale vuoto si apre in un bambino in cui l’oggetto di questo amore non c’è, non si materializza, non riceve? Quale sbandamento riceve la mente di un bambino che non può trovare questo appoggio che sostiene la sua vita? Quali potranno essere le conseguenze che questo vuoto, questo sbandamento provocheranno durante la crescita e nella stessa vita adulta? Mi pare che questo tema nel libro di Scarpa sia certamente accennato, ma forse non sufficientemente sviluppato. Vedi da una parte l’episodio del parto cui da bambina assiste «I bambini sono la paura di morire che fugge via dai nostri corpi mortali», o anche l’episodio dei gattini appena nati e subito affogati «Nascere senza venire alla luce. Restare nel buio della mamma per finire direttamente in quello della morte», e dall’altra parte l’episodio della scelta del proprio futuro da parte di Cecilia «Signora madre, questa è l’ultima volta che vi scrivo. […] Ho capito cosa volevate dirmi con il disegno della rosa dei venti. […] Dunque la direzione che mi stavate indicando era l’opposta, la parte mancante della rosa dei venti, le lance azzurre dei raggi, il mare, il cielo.»

In sostanza il libro mi è parso bello, e tutto sommato meritevole del Premio Strega per il 2009.

 

Ascolta l’intervista di Tiziano Scarpa su Radio3 a Fahrenheit. 

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