L’IDOMENEO alla Scala: cosiderazioni sull’opera e sulla rappresentazione

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La scala, per la stagione in corso, ha riproposto l’Idomeneo nella stessa messa in scena del 2006, con la regia di Luc Bondy. Allora la rappresentazione fu piuttosto avventurosa, in quanto fu l’opera di apertura della prima stagione del dopo Muti. La direzione orchestrale era stata affidata a Daniel Harding; la regia era stata alquanto improvvisata; le critiche, alla fine dello spettacolo si sono fatte sentire. Ora l’Idomeneo è stato riproposto in condizioni di maggior stabilità ed equilibrio. Gli annunci informano che la regia è stata perfezionata; il direttore è Myung-Whun Chung; il cast è di altissimo livello, comprendente Patrizia Ciofi come Ilia, Laura Polverelli come Idamante, Carmela Remigio come Elettra, e Steve Davislim o Giuseppe Filianoti come Idomeneo (nella serata alla quale ho partecipato, il 28 ottobre, il tenore era Davislim).

Prima di parlare dell’esecuzione, mi sembra opportuno esprimere qualche considerazione sull’opera. Si tratta della prima grande opera di Mozart. È un’opera seria, con una struttura che l’avvicina ai drammi per musica di händeliana memoria, con alternanza di arie e recitativi. Tuttavia le differenze con le opere serie dell’epoca barocca sono molto evidenti, sia nella drammaturgia, sia nella organizzazione, sia nella musica.

La drammaturgia dell’Idomeneo segue in modo abbastanza fedele i dettami di Aristotele: l’evento narrato si svolge in un breve lasso di tempo e sempre nello stesso posto, a Creta. Nel primo atto c’è la rappresentazione dei personaggi, e si profila subito il problema che sta alla base del dramma, la promessa a Nettuno da parte di Idomeneo, che, per salvarsi dalla tempesta, dovrà sacrificare la vita della prima persona incontrata all’approdo sulla spiaggia; naturalmente questa persona sarà il figlio, Idamante. Il problema è sviluppato nel secondo atto, quando Idomeneo sperando di ingannare il dio spinge il figlio a partire, mentre si complica la nascente storia d’amore fra Idamante e Ilia con l’intrusione di Elettra. Nel terzo atto c’è l’epilogo: davanti alla ira del Dio che fa strage della popolazione civile, Idomeneo si decide a sacrificare il figlio. Ma il Dio, pur nella sua crudeltà, si commuove davanti al gesto di amore di Ilia e rinuncia al sacrificio (un ricordo del biblico sacrificio, poi rientrato, di Abramo e il figlio Isacco?). Se la successione degli eventi è drammaturgicamente perfetta, quello che secondo me si manifesta come un limite è un equilibrio non perfetto fra gli atti: il terzo atto infatti si presenta troppo lungo: da solo dura quanto gli altri due messi insieme, se si pensa che l’atto si conclude con una serie di balletti della durata di circa 20 minuti. Mozart stesso, prima della rappresentazione di Monaco ha ritenuto necessario tagliarne diverse parti, soprattutto tre arie: una di Idomeneo, una di Idamante e una di Elettra. Mi sembra che questa sproporzione sia il difetto principale della drammaturgia dell’opera.

L’organizzazione, come nelle opere barocche, alterna le arie ai recitativi. Tuttavia quello che c’è da rilevare, e che rappresenta un’importante differenza che fa sì che l’opera vada oltre l’organizzazione barocca e si avvicini a una struttura di tipo classico, è che i recitativi accompagnati sono molto frequenti, il canto in essi ha la veste del declamato, e spesso si collegano all’aria in modo continuo quasi senza interruzione. La scuola di Gluck ha fatto lezione. Inoltre non tutte le arie sono del tipo “da capo”. Infine, a differenza delle opere barocche, il coro ricopre un ruolo assai importante, e vi sono alcuni numeri d’insieme che danno movimento alla drammaturgia: un duetto, un terzetto e un quartetto.

La musica: quello che mi pare ammirevole in quest’opera è la caratterizzazione dei personaggi proprio attraverso la musica. Ilia è una fanciulla dolce, timida, afferrata da un contrasto interiore fra la consapevolezza di essere nelle mani dei nemici che le hanno distrutto la patria, e la constatazione che si sta innamorando di uno di loro, Idamante appunto. Ha un bellissimo recitativo accompagnato subito all’inizio, dopo l’ouverture, dove questo contrasto interiore viene espresso in modo magistrale, e subito dopo l’aria che ne esprime lo stato d’animo e il carattere. Carattere che si manifesta anche nell’aria dedicata a Idomeneo “Se il padre perdei” (aria molto bella che si svolge in modo concertante con strumenti come flauto, fagotto, oboe, corno) e all’inizio del terzo atto nell’aria sognante “Zeffiretti lusinghieri” preceduta dal recitativo accompagnato “Solitudini amiche” (mi viene in mente l’aria di Elsa nel secondo atto del Lohengrin). Accanto alle arie la ritroviamo nel duetto d’amore con Idamante e soprattutto nel quartetto. Nello svolgersi degli eventi è lei che si offre in sacrificio per salvare la vita dell’amato, e che intenerisce il Dio Nettuno.

Elettra, ci offre un carattere opposto. Il suo amore per Idamante è un amore egoistico; vuole trionfare sulla rivale, ma quando Idamante si trova sotto l’ascia bipenne e sta per essere sacrificato, non muove un dito. Come Ilia ha tre arie molto belle, due delle quali, la prima e la terza (forse la più bella: “D’Oreste, d’Ajace”) sono espressioni di rabbia furibonda, la seconda esprime speranza con qualche inclinazione verso la dolcezza: è in programma la sua partenza per Argo assieme a Idamante. Come prolungamento di questa aria è molto bello, secondo me l’intervento che si inserisce fra le due parti dello stupendo coro “Placido è il mar, andiamo”. Si tratta di un momento particolarmente delicato: il mare calmo dà sicurezza a chi si mette in viaggio, l’uscita in tono acuto del soprano fra le due parti sembra rafforzare questa sicurezza.

Idamante si presenta fin dall’inizio come innamorato di Ilia, e timoroso di essere da lei respinto. È un ragazzino romantico, molto sentimentale sia nei riguardi del padre, che ama con grande trasporto, “Il padre adorato”, sia nei riguardi di Ilia “Non ho colpa, e mi condanni”. Ma è anche molto coraggioso: non esita ad affrontare e a vincere il mostro che Nettuno ha inviato per punire i Cretesi, e non esita neppure, con un dolcissimo declamato, ad offrire la testa al padre per il sacrificio. E proprio mentre sta per offrire il proprio collo, capisce perché il padre cercava in continuazione di allontanarlo: la sua era una vera e propria manifestazione d’amore. Le sue arie sono in origine tre: ma una, quella del terzo atto, Mozart l’ha soppressa. Successivamente, per la rappresentazione viennese del 1786 gli ha composto un Rondo da inserire all’inizio del secondo atto. Le due arie originali rimaste si svolgono entrambe nel primo atto, e ne mettono in risalto il carattere giovanile e fresco.

Idomeneo è il quarto grande protagonista dell’opera. È una persona in preda a un contrasto atroce: in base alla sua promessa a Nettuno dovrà sgozzare il figlio che adora. Le sue arie (una nel primo tempo e una nel secondo) ne ostentano la sofferenza interiore. La prima è “Vedrommi intorno l’ombra dolente” quando prende coscienza della crudele promessa e del fatto che sarà costretto a uccidere un innocente, e questo lo perseguiterà nelle notti per il rimorso. La seconda è “Fuor dal mar ho un mar in seno”, un’aria sontuosa, piena di vocalizzi, un’aria di ribellione al dio, ma nella quale esprime anche sofferenza per l’impotenza a uscire dall’atroce promessa.

Mi pare che i quattro protagonisti dell’opera vengano disegnati in modo vivo e vitale, e le loro vicende trasmettano allo spettatore una intensa emozione. Questo lo si può simboleggiare nel famoso quartetto, uno dei pezzi più belli dell’opera “Andrò ramingo e solo”, nel terzo atto. In questo quartetto tutti i sentimenti dei quattro protagonisti si proiettano all’esterno, quasi una riproduzione in concentrato della drammaturgia dell’opera. A ragione, credo, è uno dei brani più celebri della musica operistica di Mozart.

Resta di parlare del coro: come si è detto, il coro svolge un ruolo molto importante sia drammaturgicamente, sia musicalmente. All’inizio il coro dei prigionieri Troiani ai quali si uniscono i Cretesi, esprime la gioia per la liberazione decretata da Idamante “Godiam la pace, trionfi amore“; un altro coro è quello dei marinai in preda alla tempesta “Numi, pietà!“. Nel secondo atto, lo splendido coro “Placido è il mar”, col senso di sicurezza e di speranza che trasmette, e poi, alla fine dell’atto i due cori di terrore per la tempesta scatenata dall’ira di Nettuno e per l’irruzione del mostro “Qual nuovo terrore” e, dopo uno splendido recitativo accompagnato di Idomeno, direi quasi un arioso “Eccoti in me, barbaro Nume”, il finale “Corriamo, fuggiamo”. Nel terzo atto i cori dei sacerdoti nella preparazione del sacrificio di Idamante e il coro finale di gioia per la risoluzione felice della faccenda.

 

Proprio pensando ai cori, viene da parlare dell’esecuzione scaligera e della messa in scena di Luc Bondy. Infatti Bondy ha proprio privilegiato l’aspetto corale dell’opera, dando al coro, oltre lo spazio offertogli dalla musica, anche una presenza scenica quasi continua: si pensi addirittura alla presenza in scena, sia pure in secondo piano, di corpi di cretesi uccisi dal mostro, di famigliari che ne cercano i cadaveri per piangerli, etc.

La scena in cui si svolge l’opera è una sola: un piano dal terreno irregolare, e sullo sfondo il mare, che nelle diverse proiezioni, a seconda delle scene, a volte è calmo, a volte è in burrasca, a volte tempestoso. Sulla destra un blocco simbolico rappresenta un edificio, forse il castello o il palazzo. Le luci danno concretezza alle scene. Per esempio nel corso della tempesta nella quale le navi di Idomeneo vengono travolte, la scena si oscura e si vedono qua e là dei lampi (qualcuno ha pensato alla scena della tempesta che apre l’Otello di Verdi), mentre all’inizio ombre di uomini si agitano, per poi apparire sulla scena in grande concitazione. Al contrario la luce diffusa e carezzevole accompagna il coro che sta per partire su un placido mare, e così via. I costumi: quelli del coro sono costumi contemporanei di varia foggia: gente qualsiasi, chi con giacca e con cappello, chi con maglioni, e via dicendo; quelli dei protagonisti non hanno un’età di riferimento: Nei due uomini, stivali e una specie di vestito sportivo; vesti semplici lunghe fino ai piedi per le due donne: per Ilia una veste bianca con un velo nero trasparente; per Elettra una veste nera.

Le scelte esecutive: la base della rappresentazione scaligera è la rappresentazione di Monaco: quindi Idamante è interpretato da un soprano. Vi sono tuttavia alcune modifiche: manca l’intermezzo (la marcia e il coro “Nettuno s’onori”) fra il primo e il secondo atto. Viene tagliata la prima aria di Arbace nel secondo atto, e nel terzo atto, a differenza di Monaco, dove Mozart l’aveva tagliata, è stata inserita l’aria di Elettra “D’Oreste d’Ajace”, talmente bella che ormai viene inserita in tutte le rappresentazioni. Infine sono stati tagliati tutti i balletti.

La direzione orchestrale mi è parsa molto concreta nel dare vita alla vicenda e ai sentimenti sia dei protagonisti che del coro. In questo mi sembra risieda soprattutto la differenza con la direzione di Harding del 2005: quest’ultimo mi è parso più interessato alla qualità del suono che non alla espressività della musica.

Coerentemente con la direzione, anche i cantanti hanno dato vita a personaggi molto reali: La Ciofi, nel panni di Ilia, ha saputo esprimere quella freschezza, quella grazia che il personaggio sembra richiedere, e che nelle sue arie, in particolare nell’ultima, ha un punto di forza. Bravissima è stata anche la Carmela Remigio nei panni di Elettra. Non solo si deve segnalare il fuoco delle due arie di rabbia (la prima e la terza), ma ance la limpida voce con la quale ha saputo esprimere la gioia della partenza con Idamante “Idol mio”,  e soprattutto quel breve intermezzo al coro “Soavi Zeffiri soli spirate”, veramente molto bella espressione di sicurezza e di speranza.

Un poco al di sotto mi è sembrata porsi Laura Polverelli nella parte di Idamante. È vero che forse Idamante è il personaggio meno riuscito, rispetto agli altri tre (si dice che Mozart avesse preferito la voce di tenore, ma fosse costretto a usare una voce di soprano perché il teatro gli aveva offerto un castrato, che Mozart a sua volta giudicava teatralmente poco efficiace), e questo si è ripercosso anche sulla prestazione. Davislim nella parte di Idomeneo è stato bravo come, anzi di più, di quanto non l’abbia potuto apprezzare nella rappresentazione del 2005. Ha saputo calcare la scena con autorità, e ha saputo trasmettere l’atroce sofferenza di un padre costretto a “svenar il genitor il proprio figlio” sia nei recitativi accompagnati (numerosi, bellissimi e intensamente drammatici) che nelle arie. Molti, meritati applausi ha avuto anche un personaggio secondario, Arbace, interpretato da Tomislav Muzek, nell’unica aria che ha cantato, “Se colà nei fati è scritto”, preceduta dal recitativo accompagnato “Sventurata Sidon”.

Alla fine dell’opera il pubblico ha dimostrato un vero e proprio entusiasmo, soprattutto indirizzato alla Ciofi, alla Remigio e al Myung-Whun Chung.

 

Leggi l’analisi musicale di Harry Halbreich su Avant-Scène Opéra

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