LE PULLE, operetta amorale, di Emma Dante al CTR di Milano

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Sono andato pieno di curiosità a vedere al CRT di Milano lo spettacolo Le pulle, operetta amorale di Emma Dante, la regista della Carmen scaligera che mi aveva tanto favorevolmente impressionato. Devo confessare di aver trovato il lavoro di difficile comprensione, almeno per me, e quindi di aver sentito la necessità di tornare a vedere il lavoro una seconda volta. Questo mi ha permesso di entrare maggiormente nello spirito della drammaturgia e della sua espressione teatrale.

Fin dalle prime battute il lavoro si configura come ingresso in un mondo onirico nel quale i sogni si annodano alla realtà in parte contrapponendovisi, in parte sovrapponendovisi. Il personaggio che apre le porte del sogno è Mab, la levatrice delle fate, come Mecuzio racconta nel Romeo e Giulietta di Shakespeare, quella che nella notte popola i cervelli della gente addormentata creando nel loro immaginario scenari di vita desiderata, sperata, voluta. E Mab, cantando una ninna nanna dà vita a tre fate: la fata danzante, la fata cantante e la fata parlante. Saranno le tre animatrici dei sogni delle vere protagoniste del lavoro: le cinque pulle (ovvero puttane in dialetto palermitano), quattro travestiti e una transessuale.

Le pulle, stimolate dai sogni che le tre fate introducono nella loro mente, ricostruiscono un mondo sordido, difficile, misero, posto ai margini, ma ricco di umanità, come proprio i sogni delle pulle manifestano in modo convincente e commuovente.

Le pulle sono tali, e si presentano agli spettatori con movenze di rozza seduzione, facendo offerta del proprio corpo in modo volgare, spinte dalla fate, i cui movimenti disarticolati di bambole rotte che simulano comportamenti di marionette, ne guidano le movenze.

Ben presto in ognuna di loro prende forma il sogno.

La prima è Rosi. Con un sistema di séparé, il palcoscenico si divide e restano soli sulla scena Rosi e la fata parlante. Rosi è una pulla dolce, amante della danza; le è stato regalato un biglietto per andare a teatro a vedere Il lago de cigni. La serata più bella della sua vita. Il principe, protagonista del balletto, è il sogno che le viene incontro come immagine reale. Rosi, per attenderlo, accenna a passi di danza. Ma la realtà ben presto si scatena: nella strada non il principe, ma dei malfattori l’aggrediscono, la violentano, la lasciano tramortita. L’unica difesa che le è rimasta è il sogno del principe che la verrà a salvare. Rosi canta il racconto dello stupro, una cantilena feroce e struggente nello stesso tempo, mentre sulla scena una piccola macchina teleguidata dalla fata danzante insegue la pulla che fugge, incitata dalla fata , cercando invano di sottrarsi.

È la volta di Stellina, la pulla dotata della maggior personalità, che riesce a imbastire anche critiche alla condizione sociale nella quale sono costrette a vivere.

Le pulle, nei loro succinti vestiti, sedute tutte in file su piccole sedie, si truccano, con frenetici movimenti, stimolate dalla fate. Stellina, dialogando con le amiche, si lancia in un sogno d’amore con Rocco, l’uomo che le ha dichiarato di amarla e con il quale spera di sposarsi e di adottare un bambino. Ecco il grande sogno: uscire dal degrado cui la società la costringe, e arrivare a una vita vera, una vita famigliare, anche se si sa che il matrimonio fra uomini non è permesso in Italia, e meno che meno l’adozione di un bambino. Questo apre una discussione che proseguirà nel corso del lavoro, e diventerà un po’ il leitmotiv di tutta la vicenda. Sul sogno delle nozze di Stellina si svolgerà la scena conclusiva del lavoro, la scena della cattedrale.

Sara, l’amica intima di Stellina, sogna di essere magra, perché la magrezza è segno di bellezza e di successo. Non mangia, rifiuta i pasti, vomita in continuazione, entra nella trappola dell’anoressia. Il sogno di Sara, guidato dalle fate, è quello di uscire dal degrado attraverso la cura del corpo, che in realtà finisce per essere causa di ulteriore degrado, anche fisico, quale l’anoressia comporta. E Sara canta la canzone dell’anoressia, mentre le fate le apparecchiano una tavola imbandita nella quale ella mangia e vomita in continuazione.

Moira, all’età di dodici è stato, con l’inganno, trasformato dalla madre in una femminuccia e offerto ai pedofili per realizzare un misero guadagno che permettesse di sopravvivere. Questa violenza ha distrutto psicologicamente il fanciullo: da una parte egli si rende conto di aver provato piacere, dall’altra vede distruggere la propria innocenza, e le proprie speranze di una vita normale. Così diventa un travestito, una pulla, ma gli rimane l’odio per la persona che l’ha ridotto in questa condizione: la madre. Nel sogno Moira si vendica rinfacciando alla madre (impersonata da una della fate) il suo delitto e la rinchiude in una cesta, dalla quale le impedisce di uscire, mentre le canta la canzone delle maledizione.

Ata non è un travestito, è un trans. Si sente femmina in un fisico maschile. È quindi preoccupata per il proprio fisico, soprattutto del seno che non si sviluppa, e di questo si lamenta continuamente, annoiando in tal modo le sue amiche. Non può farsi operare perché è troppo povera, assume continuamente degli ormoni, ma con scarsi risultati. Ata, per questa sua attitudine, se ne andata da casa abbandonando il proprio vecchio padre senza dirgli niente, per paura della sua reazione e di perderne l’affetto. Questo sgarbo verso il proprio vecchio genitore, che l’ha allevata e mantenuta ammazzandosi dal lavoro, è un tarlo che la rode internamente, ed è anche ciò che le amiche le rinfacciano. Il suo sogno è quello di poter confessare tutto al padre, e poter comunque godere del suo amore. E lo fa  con le lacrime agli occhi, mentre Mab e le fate cantano la sua storia.

Il lavoro si conclude con il sogno del matrimonio di Stellina e Rocco. Stellina vestita da sposa entra nella cattedrale, contornate dalle amiche e dalle fate tutte vestite di bianco. Mab, nelle vesti di Rocco, l’aspetta vicino all’altare. La cerimonia è sontuosa, ci sono i confetti, c’è la torta, c’è la marcia nuziale, c’è il tappeto rosso che la guida verso l’altare, c’è il prete con le fatidiche domande, e ci sono i fatidici “Sì”. Mentre Stellina racconta esaltata il sogno della più bella giornata della sua vita, le amiche entrano in chiesa ognuna portando una bambola gonfiabile di sesso maschile con la bocca aperta e con un grande pene eretto. Le bambole vengono deposte a terra e lasciate sgonfiare. Mentre Stellina raggiunge Rocco-Mab e viene nascosta dal sipario, la fata danzante le raccoglie una ad una le bambole ormai sgonfie e le culla con i suoi passi di danza.

La scenografia è rappresentata da séparé che creano i diversi ambienti, tutti tappezzati di rosso. I séparé si alzano e si abbassano in funzione delle scene. I costumi: Mab è una figura alta, longilinea che cammina con movenze regali, vestita di un lungo abito nero; le fate vestono come danzatrici, con tutu di diversi colori; le pulle  indossano semplici costumi femminili: slip, reggiseni, collant, vestaglie, ovviamente parrucche.  Solo in occasione dell’inno alla minchia compaiono abiti più sontuosi, con lustrini di vario colore.

Scene e costumi sono tutti vivacemente colorati. I movimenti degli attori danno all’insieme un grande senso di vivacità, arricchito anche dagli effetti sonori. Le canzoni sono a volte nenie, come la ninna nanna all’inizio, cantilene come il canto di Rosi, o altri generi, come l’inno alla minchia cantato in un momento di grande allegria da tutte le pulle, il rap finale di Stellina nella cattedrale. Anche musica strumentale accompagna le scene. Il parlato, microfonato, è svolto in modo concitato, spesso di difficile comprensibilità, almeno per me. Anche i rumori di scena svolgono una funzione: i rumori delle pulle che si truccano, che cucinano o che mangiano, il fruscio della piccola auto telecomandata della scena dello stupro di Rosi, lo schianto dei separé che si abbassano, etc.

Gli attori hanno recitato tutti in modo molto convincente, riuscendo a catturare l’attenzione del pubblico, che in più di un’occasione ha applaudito a scena aperta.

 

In conclusione lo spettacolo mi è parso intenso, penetrante nel suo sviscerare l’umanità presente nel degrado di situazioni deteriorate, svolgentisi ai margini della cosiddetta vita civile. La Dante fa emergere tutti gli orrori, le contraddizioni e le sporcizie di una società degradata nella quale gli sprazzi di umanità presenti negli emarginati si scontrano e vengono soffocati dalla vita cosiddetta “normale” che nell’“altro” non vede l’uomo, ma solo un rifiuto.

La Dante ci ammonisce: l’umanità in queste situazioni esiste non meno che nelle persone che abitano la cosiddetta vita civile; ma è coperta, non appare, non può esprimersi. L’unico modo è quello del sogno. Ma allora essa si manifesta in tutta la sua violenza: la reazione allo stupro nel sogno, il sogno del matrimonio e della famiglia, la sofferenza dell’anoressia, l’umiliazione dell’innocenza perduta, la paura del ripudio di chi dovrebbe amarci, come i propri genitori.

Alla fine il pubblico, entusiasta, ha lungamente applaudito.

 

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