TANNHÄUSER alla Scala: riflessioni sull’opera e sulla rappresentazione

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 Aspettavo con grande curiosità questa rappresentazione scaligera del Tannhäuser. Un’influenza maligna ha rischiato di impedirmi di vederla. Fortunatamente questo non è successo, e sabato puntualmente, alle 18 e 30 ero alla Scala. Di tutte le opere di Wagner, il Tannhäuser è, secondo me, quella che meno si presta a una rappresentazione teatrale.

È un’opera giovanile, difficile, nata dall’incrocio di due antiche leggende germaniche: quella di Tannhäuser e Venere nel Venusberg, e quella della tenzone dei minnesänger sulla Wartburg. Per dare un senso drammaturgico alla storia così combinata, Wagner ha dovuto tuttavia aggiungere, di propria invenzione, l’amore di Tannhäuser per Elisabetta. L’opera ha avuto una gestione complicata: composta nel 1846 a Dresda, ha avuto diverse correzioni, fino a quella più consistente e definitiva del 1960-61 per la rappresentazione di Parigi. Tuttavia, nonostante queste numerose correzioni, adattamenti, aggiunte e sottrazioni, l’opera non ebbe mai, almeno Wagner vivente, un grande successo. E questo, con rammarico del compositore che, alla fine della sua vita, ne parlò asserendo di “essere ancora debitore al mondo del suo Tannhäuser”.

Nelle diverse edizioni che ho avuto modo di vedere (parte a teatro, parte in riproduzioni in DVD) le messe in scena mi sono apparse non riuscire a superare una sostanziale staticità della vicenda e della sua espressione drammaturgica. I personaggi sulla scena più che agire sembrano raccontare. Anche nei momenti di maggior attività, come nel primo atto lo scontro fra Tannhäuser e Venus, o nel secondo la disfida dei cantori, le scene si prolungano esageratamente togliendo ogni vivacità agli episodi.

Carl Dahlhaus definisce il Tannhäuser un’“opera” distinguendola così dalla struttura che viene considerata tipica del teatro wagneriano più tardo: il Musikdrama. E dell’opera tradizionale manifesta le principali caratteristiche strutturali: la arie, i duetti, gli insiemi nei finali di atto, i cori, gli ariosi, i recitativi. È vero che il declamato, la presenza di motivi conduttori e illustratori di situazioni e di personaggi (quasi del leitmotiv), fanno preludere al Wagner più maturo; ma in questo caso la struttura a numeri, anche se non espressamente manifesta, finisce per condizionare l’evoluzione drammaturgica, che risulta assai debole. Si pensi, ad esempio la forza drammaturgica di opere più o meno contemporanee, come l’Ernani, il Macbeth, etc.

 

La Fura dels Baus. Il mio interesse era (ed è) dovuto soprattutto alla messa in scena dell’opera da parte di questo gruppo teatrale catalano del quale ho visto (purtroppo solo in DVD) alcuni allestimenti di opere: fra queste, La damnation de Faust a Salisburgo nel 1999, il Zauberflöte al Jahrhunderthalle Bochum nel 2003 , e le quattro opere del Ring nel 2007-09 a Valencia. Quello che mi ha colpito è il grande senso del teatro espresso da questo gruppo e dai suoi due ispiratori, Alex Ollé e Carlos Padrissa. Certamente si tratta di messe in scena non tradizionali, con aspetti provocatori, anche violenti a volte, ma molto attraenti e soprattutto alla ricerca di forme interpretative non banali. Insomma si avverte in questi allestimenti la volontà di fare teatro, di comunicare con gli spettatori, di coinvolgerli nella messa in scena, attraverso manifestazione visive, basate su scenografia, costumi, movimenti di singoli e di masse, e in questo Tannhåuser anche proiezioni, fortemente immaginifici.

C’era quindi da aspettarsi un allestimento nel quale facesse spicco proprio il movimento teatrale, rappresentativo dei momenti più coinvolgenti dei sentimenti, delle sensazioni, dei turbamenti, degli scontri, degli incontri, traducendo la sostanziale immobilità degli eventi rappresentati, in una fantasmagorica offerta visiva sollecitata dalla musica. Una musica che, è giusto ricordarlo, pone in conflitto momenti e situazioni diverse, anzi contrastanti, sulle quali è costruita tutta l’opera: l’amor profano, erotico, espresso dall’iridescenza sensuale dei temi del Venusberg, e l’amore sacro, spirituale, rappresentato da Elisabetta e dal solenne tema dei Pellegrini e del Perdono. In questo senso l’opera sembra offrire una discontinuità di stile, attribuibile, secondo molti critici, alla lunga gestione temporale trascorsa fra la rappresentazione di Dresda e quella di Parigi. Ma, secondo me giustamente, Carl Dahlhaus, ha tenuto a sottolineare come questa diversità di stile, lungi dall’essere un fattore negativo, risponda a una logica drammaturgica ben precisa, quella del conflitto che si scatena all’interno dall’animo di Tannhäuser, e che quindi finisce per essere la vera soluzione che dà all’opera la sua unità.

 

E la Fura mette in scena subito, fin dalle prime note del preludio, questo conflitto. Per cercare di capire la logica che sottostà all’allestimento occorre cercare di descriverne, almeno sommariamente, gli sviluppi, a partire dal preludio, che non viene suonato a sipario chiuso, ma a scena aperta. La scena è dominata da una gigantesca mano (che poi si viene a capire che è l’immagine stessa dell’anima di Tannhäuser), mentre su piani diversi del palcoscenico, ottenuti da leggeri sipari trasparenti, prendono vita proiezioni di varia natura. All’inizio, in concomitanza con il risuonare del tema dei Pellegrini (o del Perdono), le immagini che si svolgono sono turbini di tenue colore azzurro, che danno luogo a forme evanescenti (si immagina, ad esempio un occhio che si forma, si apre, si annulla), mentre sulla gigantesca mano posta verticalmente compaiono segni cabalistici che potrebbero essere quelli che segnano il destino di Tannhäuser. Ma con lo slittare della musica dal tema dei pellegrini all’iridescenza del Venusberg il colore da azzurro delle proiezioni si accende di rosso, immagini di corpi nudi aggrovigliati si disegnano sui sipari con effetti tridimensionali, entrano in scena ballerini che improvvisano balletti aerei su corde che pendono dall’alto, compare una grande vasca nella quale ballerini subacquei si accompagnano a ballerine “nude” che li circondano (il canto delle sirene), per finire con l’ingresso in scena di una grande collina emisferica, apparentemente sorretta e spinta da una schiera di ballerini pseudo-nudi. La mano ruota e si pone in alto con le dita piegate verso il basso a mo’ di grinfia. Al vertice della pseudo-collina cantano Tannhäuser e Venus, mentre la schiera dei ballerini sottostanti cerca di darne un’illustrazione.

La messa in scena continua in questa direzione, alternando o facendo coesistere i momenti del canto, arie, recitativi, complessi d’assieme, tradizionalmente piuttosto statici, con vivacissimi momenti di gioco collettivo di figure sulla scena (ballerini, pellegrini, cacciatori) spesso accompagnate da proiezione sui sipari trasparenti e mobili.

Uno degli aspetti che ha atto maggiormente discutere sono stati i costumi prevalenti nel secondo atto. Si è parlato di Bolliwood, di ambientazione indiana, considerandola inappropriata al senso dell’opera. Che i costumi siano di ispirazione indiana, non c’è dubbio, come non c’è dubbio che arredi di scena rappresentati da statue siano ispirati alle decorazioni dei templi di Khajuraho. E sembra che questa scelta sia una specie di omaggio al direttore d’orchestra Zubin Mehta, appunto di nazionalità indiana. Ma come questi costumi abbiano, secondo molti critici, snaturato l’opera proprio non lo capisco. Come in altre occasioni ho detto, un conto è la struttura, che in realtà la messa in scena rispetta perfettamente (il conflitto interiore di Tanhäuser che si esprime nel conflitto con gli altri cantori e nella ferita mortale a Elisabetta); un conto è la sovrastruttura, cioè l’aspetto visuale attraverso il quale viene trasmessa allo spettatore la struttura. Cosa cambia esibire costumi indiani invece di costumi dell’Europa medioevale? Ci si potrebbe immaginare in alternativa anche eventuali costumi giapponesi, o costumi europei moderni, senza che questo portasse ad alterazioni della struttura. Non stiamo parlando di verosimiglianza, come di verosimiglianza in genere in teatro non si deve parlare, ma di offerta scenica, visiva, teatrale per trasmettere una struttura che, proprio in quest’opera, è la vera interprete della musica.

Il secondo atto, secondo me, è il più debole dell’opera, proprio dal punto di vista della realizzazione scenica. L’inizio ci propina una situazione statica (l’aria di Elisabetta, il duetto con Tannhäuser e poi con Langravio), che la Fura ha cercato di vivacizzare con alcuni balletti, senza grande successo. Poi la lunga trafila dell’ingresso dei nobili inviati ad assistere alla tenzone: musica ripetitiva a suon di marcia, inaccettabilmente lunga, noiosa, anche qui inutilmente ravvivata da balletti. È questo il momento più basso dell’opera. La tenzone non ci offre nulla più di quanto siamo soliti vedere nelle regie tradizionali, con l’andirivieni nervoso di Tannhäuser, le risposte irritate degli altri cantori, fino alla bestemmia “in diretta” (l’Inno a Venere cantato in faccia a tutti), le minacce di morte, l’intervento di Elisabetta e poi del Langravio e la decisione di recarsi a Roma. Niente di nuovo.

Il terzo atto, aperto dallo splendido preludio e sulla scena dalla proiezione di cadute di foglie autunnali, ricalca in sostanza il modo di procedere dei precedenti. La mano, che durante tutto il secondo atto è stata presente atteggiata ad artiglio sulla scena come una immanente minaccia, ora appare fratturata lungo la linea della vita, con il pollice staccato dalle altre dita, simboleggiando il triste destino di Tannhäuser. Tutta la prima parte dell’atto si sviluppa sull’aria di Elisabetta, il coro dei pellegrini, in modo abbastanza tradizionale. Poi c’è un’invenzione registica, che alcuni hanno trovato discutibile: Elisabetta, allontanandosi delusa di non aver trovato fra i pellegrini perdonati l’amato Tannhäuser, viene trasportata verso l’alto, dove comincia a piangere, e le sue lacrime, veicolate da due canali scendono al suolo formando un lago che occupa tutta la scena. In questo lago, alla fine dell’opera, dopo il lungo racconto delle vicende romane e dopo la sua vittoriosa resistenza alle rinnovate tentazioni di Venus, morirà Tannhäuser finalmente redento e perdonato.

 

Indubbiamente questo allestimento del Tannhäuser ha arrecato vivacità allo sviluppo dell’opera. Tuttavia mi sembra di poter fare un paio di osservazioni. La prima è che la maggior parte delle presenze sceniche dei protagonisti non è riuscita a sottrarsi completamente all’immobilismo, ovvero la recitazione mi è sembrata ancora una volta debole, statica, inutilmente arricchita da movimenti di danzatori, comparse e proiezioni. La seconda osservazione è l’uso eccessivo delle proiezioni. Intendiamoci, tutto questo ha contribuito a rendere piacevole, perfino attraente lo spettacolo, ma, secondo la concezione che io ho delle messe in scena teatrali, il ruolo più importante, quello che fa sì che il teatro sia vero teatro, sta proprio nel linguaggio dei corpi, nella gestualità e, soprattutto, nel rapporto fra gestualità e intonazione della voce. E questo elemento mi sembra che sia, almeno in parte, mancato. I movimenti delle comparse, le proiezioni sono aspetti aggiuntivi, che magari possono distrarre l’attenzione del pubblico dai protagonisti, ma non sostituire l’elemento cardine: la recitazione.

 

Dal punto di vista dell’esecuzione musicale, Metha ha condotto l’opera offrendo, momenti di intensa commozione, soprattutto nei due preludi e nella musica del Venusberg dove l’iridescenza orchestrale fa veramente girare la testa. Mi sembra di poter affermare una evidente consonanza fra la messa in scena e l’esecuzione musicale. Più debole invece mi è sembrato il cast dei cantanti: Robert Dean Smith ha esibito una voce molto piccola, offrendo un Tannhäuser nel quale il conflitto di sentimenti non è emerso con quella intensità che mi sembra fosse lecito attendersi.  La Julia Gertseva nel ruolo di Venere non mi è sembrata strepitosa. Molto meglio è apparsa l’Elisabetta della Anja Harteros, la cui voce ha saputo impersonare in modo convincente sia la gioia di un amore ritrovato, sia il dolore di una ferita subita, sia la disperazione di una perdita irreparabile. Di discreto ma non eccelso livello Wolfram (Roman Trekel) e gli altri interpreti secondari

Comunque il pubblico, che a dire il vero ha riempito il teatro, con applausi intensi e ripetuti ha dimostrato di aver gradito lo spettacolo, e nei discorsi che si potevano captare durante gli intervalli, si avvertiva, da parte di molti, il desiderio di voler capire il senso di una messa in scena certamente non tradizionale e comunque problematica.

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