IL RITORNO DI ULISSE IN PATRIA ALLA SCALA NELLA REGIA DI ROBERT WILSON

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Venerdì sera, dopo aver visto alla Scala Il ritorno di Ulisse in patria, diretto da Alessandrini con la regia di Wilson, devo dire la verità, sono rimasto alquanto deluso. Questo direttore e questo regista avevano diretto nel 2009, sempre alla Scala, l’Orfeo. In quella occasione mi avevano ampiamente convinto, come scrissi facendo un commento alla rappresentazione sul blog. L’Orfeo è un’opera che si immerge nel mito dell’antica Grecia e ne trasferisce sulla scena la sacralità. La rappresentazione scaligera, allora, ne seppe cogliere gli aspetti drammaturgici fondamentali. Ben diversa è la struttura del Ritorno di Ulisse in patria. Siamo sempre nell’atmosfera del dramma mitologico dell’antica Grecia, ma qui l’aspetto drammaturgico si sviluppa in modo più aperto, meno legato alla sacralità e più al racconto degli eventi. Gli oltre trent’anni che intercorrono fra le due composizioni (1609 vs 1640) hanno contribuito certamente a rimarcarne le differenze, introducendo nella seconda aspetti barocchi che preludono allo sviluppo successivo dell’opera seria.

Nel Ritorno gli eventi si svolgono nell’arco dei cinque atti (tre nella versione viennese) secondo la logica narrativa dell’Odissea di Omero (dal XIII al XXIII canto), sulla premessa, espressa nel prologo, che la natura umana è fragile e preda dei capricci di forze superiori, fra le quali il Tempo, la Fortuna e l’Amore. Azione e sentimenti s’intrecciano in modo da realizzare un intrigo che da una iniziale situazione di disperazione (il monologo iniziale di Penelope), attraverso momenti di incertezza (il risveglio di Ulisse sulla spiaggia deserta), di speranze accese (l’incontro di Ulisse col figlio), di lotte intraprese (l’uccisone dei Proci), e di risposte cercate (i dubbi di Penelope davanti all’uomo che potrebbe essere Ulisse), si conclude in un lieto fine.

La trama è ben nota: Penelope è disperata nella reggia di Itaca perché Ulisse è partito da vent’anni e non si è fatto ancora vivo. Forse è morto, ma la memoria di lui è ancora ben desta nel suo animo. Inutilmente chi la circonda la invita a prendere atto della realtà e rassegnarsi a un nuovo amore. I pretendenti vogliono convincerla a sposare uno di loro, e la riempiono di complimenti e di doni. I dubbi di Penelope trovano negli eventi la loro giustificazione. Ulisse è vivo ed è stato deposto dai Feaci sulle sponde della sua isola. Gli dèi prendono parte alla vicenda: Nettuno insisterà nella sua ostilità, sia pure in parte contrastato da Giove, mentre Minerva si darà da fare per aiutare il ritorno dell’eroe. Anzi, ella gli farà incontrare il figlio, e lo consiglierà, per aver ragione dell’invadenza dei pretendenti, di travestirsi in vecchio mendicante. Alla fine, sarà l’arco di Ulisse a risolvere il problema: i proci saranno tutti uccisi dalle saettanti frecce, e Penelope si troverà di fronte, ritrovato, il proprio amato sposo.

Come si vede dalla trama, l’opera è ricca di azione, e questa, oltre che sulla scena, trova corrispondenza nella musica: recitativi e ariosi, affidati ai singoli personaggi, esprimono stati d’animo che insorgono e scuotono le diverse sensibilità, come Penelope abbandonata all’inizio (dolore e disperazione), Ulisse abbandonato sulla riva (paura, ira, orgoglio), Nettuno (ira e desiderio di vendetta), Telemaco, (incredulità prima, poi gioia), e così gli altri. A volte le declamazioni vengono concluse da brevi arie con linee melodiche accattivanti, che inducono nell’ascoltatore la sensazione del raggiungimento di un equilibrio dopo lo sconvolgimento sollevato dall’arioso o dal recitativo. A duetti e terzetti vengono affidati i momenti dell’azione vera e propria: Melanto e Eurimaco si confessano il loro amore, ma nel contempo intrigano per far innamorare Penelope; Telemaco e Ulisse esprimono la loro commozione e la loro gioia nella grande scena del ritrovamento; e così altri duetti, come quello fra Telemaco e Minerva, quando quest’ultima accompagna il figlio di Ulisse (la musica ha un ondeggiamento che fa pensare al vento sul quale vola il carro che trasporta i due), fra Ulisse ed Eumete, quando l’eroe, trasformato in vecchio mendicante, incontra il fedele pastore, ecc. L’azione si fa ancora più intensa con l’ingresso sulla scena dei Proci: nell’opera sono tre (in rappresentanza della ben più numerosa folla che popola il poema omerico), Alcinoo, basso, Pisandro e Anfinomo, tenori. I loro interventi, sia con recitativi singoli, sia in trio, impartiscono ulteriore vivacità alla scena: circondano Penelope, la spingono a innamorarsi, le fanno regali preziosi, la invitano scegliere come sposo uno di loro;  minacciano Telemaco, disprezzano e vogliono cacciare il pastore Eumete e Ulisse travestito da mendico, si cimentano con l’arco di Ulisse ed esprimono disperazione per la loro prova fallimentare. In questa giostra di personaggi che popolano il palazzo, fa la comparsa un personaggio che, in futuro, sarà caratteristico dell’opera buffa: Iro, un goffo parassita dei Proci, che frequenta il palazzo per abbuffarsi, e che osa sfidare alla lotta Ulisse, da lui creduto un mendicante concorrente per il cibo, e che, alla fine disperato per essere rimasto solo e senza più possibilità di mangiare, si suicida al termine di un comico recitativo.  La vicenda, come nel poema omerico si conclude con Ulisse che, con in mano l’arco fatato, uccide tutti i Proci. Alla fine si presenta a Penelope  alla quale, per farsi riconoscere, rivela un segreto della camera nuziale noto solo a loro due.

Un’opera d’azione come questa, secondo me, necessita di un’interpretazione dinamica, sia nell’orchestra sia nella messa in scena. Penso alla realizzazione di Jean-Pierre Ponnelle con la direzione orchestrale di Harnoncourt, disponibile in DVD, o anche alla realizzazione di Adrian Noble con la direzione orchestrale di William Christie. È certamente sbagliato paragonare una rappresentazione vista a teatro con quello che può essere visto su uno schermo televisivo. Ma in questo caso, il paragone mi serve per sottolineare una sostanziale diversità interpretativa: Wilson, a differenza delle due messe in scena sopra citate, sembra non essere interessato all’aspetto dinamico. La scena è pressoché immobile, rappresentata in pratica, per tutta la durata dell’opera, da uno sfondo costituito da un grande rettangolo luminoso, e dalla presenza di blocchi grigiastri variamente spostati, che mi è sembrato volessero simboleggiare le pareti del palazzo. Un ruolo particolare è stato affidato alle luci, alle quali soprattutto è attribuito il compito di vivacizzare il movimento, con diversa inclinazione, a volte con illuminazione diretta dei personaggi, a volte con controluce nel sottolineare i momenti più minacciosi.

I movimenti scenici dei personaggi sono statici, tendono ad assumere posizioni statuarie, con posture delle braccia che accompagnano il declamato. Gli spostamenti, più che a significare movimento, o a compiere l’azione, sembrano studiati per costruire un’immagine globale, un quadro, una scenografia visuale dove i personaggi sembrano costituire essi stessi gli arredi.

I costumi sono quelli del seicento, ma, anch’essi, più che a ricostruire un ambiente storico-mitologico, hanno, secondo me, la funzione di completare l’immagine scenografica. Ad esempio, i Proci sono vestiti e acconciati nello stesso identico modo, abiti neri con vistose parrucche, e i loro spostamenti rispettano una rigorosa simmetria.

Dal punto di vista dell’esecuzione musicale, mi pare che non ci sia niente da rilevare. Orchestra e cantanti hanno svolto il loro ruolo in modo egregio, inserendosi perfettamente nel clima interpretativo che ho cercato di analizzare. Fra di essi giova ricordare l’interprete di Ulisse, Furio Zanasi, quella di Penelope, Sara Mingardo, quella di Melanto (e della Fortuna) Monica Bacelli.

Ecco, mentre certamente non si può non riconoscere l’attenta ed efficace ricerca estetica che scandisce le varie scene, nel corso delle due ore e mezza della durata complessiva dell’opera tutto questo finisce per far perdere forza alla vicenda. E questo è il motivo per cui, alla fine, sono rimasto deluso dalla rappresentazione.

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