Interviste. Amos Oz, Tra amici

amos-oz.jpg

di Antonella Barina

Il grande scrittore israeliano, che ha vissuto per di più di 30 anni nelle comunità di lavoro, di fronte alla crisi propone il suo paradosso (ma lo è davvero?) in un libro e al Festival di Massenzio.

Arad (Israele). “Se mi guardo intorno, in Israele come in Italia, mi sento circondato di gente che lavora oltre il necessario, per accumulare più denaro di quel che le serve, acquistare cose che non desidera davvero, far colpo su persone che non le piacciono affatto“. Amos Oz parla lentamente, ritagliando scampoli di pensiero, a lungo meditati. “Ora però la crisi economica comincia a minare questo modello tutto denaro, competizione, arrivismo. Qualcuno inizia a cercare una nuova via tra bolscevismo disumano e capitalismo darwinista. Perché non riproporre allora la formula del kibbutz, in una versione più soft e tollerante del passato? Penso a piccole cellule sociali improntate sulla solidarietà. Per alcuni funzionerebbe”.

Aveva 13 anni Amos nel ’52, quando perse tragicamente la madre, che si suicidò; 15 quando andò a guidare trattori in un kibbutz – vita nei campi ed eguaglianza: la proprietà privata era tabù – per ribellarsi al mondo intellettuale e di destra di suo padre, bibliotecario erudito, studioso poliglotta. E Amos, che un tempo, da bambino, aveva sognato di diventare un libro (non uno scrittore, proprio un libro, perché i libri sopravvivono sempre in qualche modo allo sterminio), rimase nel kibbutz Hulda più di trent’anni, cambiando il suo cognome da Klausner in Oz, che in ebraico vuol dire Forza, e lì si sposò e allevò tre figli.

Oggi Oz è uno dei massimi scrittori viventi, tra gli intellettuali più rispettati di Israele, eppure non ha perso l’aspetto archetipico del pioniere: camicia a scacchi, mani possenti, volto abbronzato che sembra sempre strizzare gli occhi chiari contro il sole. Ora i suoi libri sono tradotti in 41 lingue, ma lui conserva lo stile sobrio del kibbutz, di quando non possedeva nemmeno un libretto d’assegni. E anche se dall’86 vive ad Arad, cittadina del deserto sorta cinquant’anni fa dal nulla intorno a un centro commerciale, la sua è una casetta spartana, con giardino brullo, studio nel seminterrato. Poi libri, libri, ancora libri: ordinatissimi, come le frasi dei suoi romanzi; consunti dal gran uso, come le sue poltrone scomode e lise; strumenti di lavoro, come la vecchia scrivania e il portatile obsoleto.

Non rinnego un solo momento della mia vita nel kibbutz, che è stata la migliore università possibile. In una comunità di trecento persone, di cui si sapeva ogni segreto, ho imparato più cose sulla natura umana che se avessi fatto dieci volte il giro del mondo. Il kibbutz è una sorta di laboratorio dove tutto è concentrato: amore, morte, solitudine, nostalgia, desiderio, desolazione. E mi dà lo spunto per raccontare l’umanità: quel continuo tendere gli uni verso gli altri – come le celebri dita di Dio e di Adamo nella Cappella Sistina – senza mai riuscire a toccarsi. È dal kibbutz che attinge la mia scrittura“.

E lì ritorna il suo ultimo libro, notevole come sempre, in uscita con Feltrinelli, nell’ottima traduzione di Elena Loewenthal. Tra amici: destini che si intersecano nel microcosmo di un kibbutz anni Cinquanta, anime scrutate con occhi malinconici e saggi. Sempre il 7 giugno, Oz sarà al Festival delle Letterature di Massenzio, a Roma, dove dividerà la serata con Erri De Luca e leggerà un brano del nuovo libro: “Il capitolo dedicato a un vecchio calzolaio pacifista, anarchico, socialista, vegetariano, un uomo che racchiude in sé tutte le ambizioni di trasformare il mondo”. Mentre il 10, a Cagliari, parteciperà al Festival Leggendo Metropolitano, dove parlerà del tempo presente e del suo rapporto con la letteratura (www.prohairesis.com).

Lei, Oz, propone il kibbutz come un’alternativa all’individualismo sfrenato, eppure nei suoi romanzi fustiga quell’ambiente soffocante. Come luogo di inaspettata solitudine, ad esempio.
I padri fondatori di quel modello di società avevano ambizioni monumentali, irrealistiche: pensavano di poter cambiare la natura umana di colpo, eliminare la solitudine con la vita comunitaria, cancellare crudeltà, avidità, egoismo con l’eguaglianza. Un sogno meraviglioso che – va detto a loro merito – tentarono senza gulag e polizia. Che venne meno perché il loro sguardo fissava solo le stelle”.

Un naufragio lento, ma inesorabile.
Una mutazione, più che un fallimento. Il kibbutz è cambiato molto rispetto al passato. Padri e madri fondatori erano severissimi, come se organizzassero un esercito senza ufficiali. Oggi il kibbutz è meno duro, accetta entro certi limiti la proprietà privata, quindi è meno egualitario. Ma i suoi abitanti continuano a dividersi la responsabilità verso i disabili, gli anziani, chi è in difficoltà. Nel racconto che leggo a Massenzio, il vecchio calzolaio malato ha sempre qualcuno che gli fa compagnia. In una grande città morirebbe solo come un cane”.

Il kibbutz sperimentò la parità della donna, ma a scapito della sua femminilità…
Lo ammetto. Ai miei tempi una ragazza poteva andare a letto con un uomo diverso ogni sera, ma bastava un rossetto perché venisse espulsa come borghese depravata. D’altra parte aveva le stesse opportunità di studio, lavoro, salario degli uomini, molto prima che nel resto della società”.

Perché ha lasciato il kibbutz?
“Mio figlio soffriva d’asma e aveva bisogno del clima secco di Arad”.

Cittadina insignificante. Perché continua a vivere qui?
Per il deserto. Ogni mattina alle cinque, quando è ancora buio, mi incammino tra rocce e sabbia. Da solo, nel silenzio più profondo, osservo il sorgere del sole. Il deserto rappresenta quel che è eterno contro ciò che è provvisorio. Mi è indispensabile per scrivere”.

Cosa sta scrivendo ora?
Preferisco non parlarne: esporre la gravidanza ai raggi X non fa bene al bambino”.

Si mette al computer appena torna dal deserto?
Prima ascolto il giornale radio delle sei: se sento un politico dire “mai” o “per sempre”, so che le pietre là fuori stanno ridendo di lui”.

Il tema del giorno è l’escalation nucleare iraniana.
Fa paura. Il regime brutale di Ahmadinejad vuole cancellare Israele dalla faccia della terra. E questa politica d’annientamento, unita al possesso di armi atomiche, è una combinazione pericolosissima. Tutti gli israeliani la pensano così. Quel che ci divide fifty-fifty è il da farsi. C’è chi invoca un attacco preventivo. Io sono contrario. Perché ormai l’Iran sa fabbricare la bomba atomica: distruggeremmo le loro installazioni, non il loro know-how, e forniremmo scuse in più al loro odio. Non solo: tra poco quasi tutti i Paesi avranno mezzi di distruzione di massa, nucleari, chimici o biologici. Cosa faremo allora? Li bombarderemo tutti?”.

Il tempo stringe, però: i falchi ritengono di dover attaccare entro l’estate, se no è troppo tardi.
Per questo il mondo intero dovrebbe intervenire al più presto. Con un blocco navale all’Iran”.

Cosa pensa che succederà?
Mi chiede di essere profeta in terra di profeti: c’è troppa competizione nel campo”.

Neanche sulle rivolte arabe vuole intravedere un futuro?
Penso che ogni Paese prenderà una direzione diversa. Ma il comune denominatore è che il fondamentalismo sembra rafforzarsi sempre più. Pessima notizia per Israele, che tuttavia non può far nulla per evitarlo. Ha fatto bene il governo a non immischiarsi”.

E sulla questione palestinese?
Il processo di pace ristagna. Prevale uno status quo malato, in cui i palestinesi continuano a vivere sotto il dominio israeliano. E non può durare, bisogna arrivare a un compromesso: dividere il territorio in due Stati. Perché non ci sono alternative: cinque milioni e mezzo di ebrei israeliani e più di quattro milioni di arabi palestinesi non hanno altro luogo dove andare. Né possono trasformarsi in un’unica famiglia felice”.

Netanyahu non sembra la persona giusta per i compromessi.
“Non pensavo che De Gaulle fosse l’uomo adatto a tirare la Francia fuori dall’Algeria. Né che Churchill fosse quello che avrebbe smantellato l’Impero Britannico… Chissà. Sta di fatto che ora Israele, piccola più o meno come la Sicilia, fa parlare di sé quasi fosse grande come la Cina”.

Da: La Biblioteca di Israele, 6 giugno 2012

 

Credo opportuno, a fronte dell’interessante intervista di Amos Oz qui sopra riportata, registrare l’ articolo comparso oggi sul Corriere della Sera, con la notizia che Israele sta preparando piani militari per attaccare l’Iran, dando per scontato che il processo di Pace con i Palestinesi sia ormai definitivamente interrotto.

Che Israele abbia bisogno di sicurezza, è un dato di fatto ineccepibile. Ma che ormai, per il governo Netanjahu la sicurezza dello stato di Israele debba affidata alle armi anziché a un processo che miri al raggiungimento di una pace rispettosa dei diritti del popolo israeliano e di quello palestinese mi pare che sia un dato di fatto che emerge in modo sempre più evidente. Mi pare altresì doveroso sottolineare che una sicurezza ottenuta con l’impiego delle armi non sarà mai una sicurezza, non importa quanto potente sia l’esercito che vorrebbe ottenerla.

Scrivi un commento