I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello

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È il terzo, e l’ultimo, dei cosiddetti “miti” di Pirandello, commedie che si svolgono fuori del tempo e della spazio, nei quali si materializzano visioni, si realizzano fatti miracolosi, e nei quali l’uomo sembra identificarsi col suo sogno, rinascere dal sogno come fantasma, e realizzare la propria identità sulla scena. I giganti della montagna è stato scritto in un lungo periodo di tempo: potremmo dire dal 1929 al 1934, alla vigilia della morte del drammaturgo. Non è stato terminato: manca l’ultimo quadro. Gli altri due miti sono: La nuova colonia, scritto nel 1927-28, e Lazzaro nel 1926-1928. Prima di affrontare I giganti della montagna, che molti considerano il capolavoro di Pirandello, conviene spendere qualche parola sui miti precedenti.

La nuova colonia: prima rappresentazione, Roma, Teatro Argentina 24 marzo 1928. Il tema trova ispirazione in un romanzo dello stesso Pirandello del 1911, Suo marito, e in particolare da un dramma che nel romanzo si immagina abbia scritto la protagonista, Silvia Roncella. La nuova colonia è un’isola che un tempo era stata utilizzata come luogo di segregazione carceraria, ma che a causa di un terremoto era stata abbandonata. Sull’isola si trasferiscono gli ex coatti ora liberati, con a capo Currao, la sua donna La Spera, unica donna del gruppo, e il piccolo figlio da lei avuto. Nell’isola si costruisce una società e la si organizza mediante leggi. Ogni violazione della legge viene punita: il mito della Legge. Trascorso un certo tempo, giunge all’isola un altro gruppo: sono marinai con mogli e figlie. Currao cerca di opporsi al loro arrivo, senza successo. Perde il comando del vecchio gruppo e dell’isola. Per ricuperarlo abbandona La Spera e sposa la figlia del più influente del nuovo gruppo, cercando di portare con sé il figlio. La Spera, disperata si oppone e fugge col bambino sul promontorio, invocando gli dei. Improvvisamente un nuovo terremoto fa affondare definitivamente l’isola, tranne il promontorio che rimane alto sul mare, mentre La Spera, con le braccia levate, tende verso il cielo il bambino. Il mito della Legge, con l’arrivo del nuovo gruppo e lo smembrarsi della primitiva comunità, sembra sprofondare (simbolo: il terremoto), ma non in modo definitivo: La Spera, nel miracolo della sua sopravvivenza mentre tiene alto il figlio, fa rinascere il mito, ma questa volta quello della Maternità. 

Lazzaro: prima rappresentazione Huddersfield (Inghilterra), Theatre Royal 8 luglio 1929. Il tema qui affrontato è il mito della Fede. Anche qui, non viene specificato il luogo in cui si svolge la vicenda: si tratta di una casa nel primo atto e un podere in una bella campagna, negli altri due. Il protagonista, Diego Spina, è un uomo di una religiosità estremizzata soffocante, tale non solo da imporre a se stesso una vita rigorosamente severa, ma anche ai figli e alla moglie. Anzi, addirittura la figlia, Lia, costretta a una vita di eccessiva segregazione, finisce per ammalarsi gravemente, perdere l’uso delle gambe ed essere costretta su una sedia a rotelle; il figlio, Lucio, a sua volta viene inviato, contro la sua volontà, in un seminario. La moglie, Sara, disperata, finisce per abbandonare il marito e rifugiarsi in una sua proprietà dove, assieme al contadino Arcadipane, coltivando con entusiasmo ed energia, realizza un prospero podere. Il marito non ci sta e decide, per cacciare la moglie e il contadino, di costruire sul quel podere una specie di ospizio per diseredati. Giunge nel frattempo la notizia che Lucio ha gettato la tonaca ed è uscito dal seminario per tornare a casa e ribellarsi al padre. Diego come impazzito si precipita in strada per incontrarlo, ma viene investito da un’automobile e muore. In realtà Diego non è propriamente morto. Il dottore, con una iniezione di adrenalina lo riporta in vita. Diego, al risveglio, mentre cerca di realizzare il suo progetto di ospizio, viene a sapere di questa specie di resurrezione e constata che nell’aldilà non c’è assolutamente nulla. Perde la fede e si lascia trasportare dall’odio per tutto quanto ha dovuto sopportare a causa delle sua fede estremizzata, e dalla vendetta per chi gli ha portato via la moglie. La commedia si conclude con uno scontro decisivo fra Diego e il figlio Lucio, che spiega al padre l’illusorietà di cercare Dio nell’aldilà. Dio è dentro di noi, se noi non lo sappiamo riconoscere quando siamo in vita non dobbiamo meravigliarci di non saperlo riconoscere dopo la morte. Con questa perorazione, Lucio invita la madre a chiamare a sé Lia, la figlia, che nella tensione mistica del momento, riesce ad alzarsi dalla sedia e a fare i primi passi, realizzando il miracolo. Il mito della Fede proiettato nella trascendenza (Dio, come giudice severo che sta nei cieli e ci attende al varco) si disgrega per rinascere come Fede in un Dio immanente che ci ha fatto dono della vita, nella quale Egli stesso è presente per aiutarci nella scelte più nobili.

I giganti della montagna: prima rappresentazione, postuma: Maggio Musicale Fiorentino, Giardino di Boboli (Prato Verde della Meridiana) 5 giugno 1937, con la regia di Renato Simoni e Giorgio Venturini. Non essendo stata terminata l’opera, il terzo atto venne raccontato all’inizio della rappresentazione da una specie di prologo. Il mito in questa commedia è il mito dell’Arte. Il luogo in cui si svolge, come nei precedenti miti, è al di fuori dello spazio e del tempo. Da punto di vista scenografico, siamo sul pendio di una collina in vetta alla quale c’è una villa sontuosa ma malridotta, La Scalogna, cove abitano gli Scalognati. Questi sono un gruppo di sei personaggi, guidati dal mago Cotrone, depositari della fantasia dei sogni, e dediti a realizzarne gli aspetti più luminosi, dando spazio alla notte dove suoni, luci, canti si disperdono per l’aria, su indicazioni e comando del mago. All’inizio del dramma gli Scalognati sono agitatissimi: hanno scorto un gruppo di persone salire per il pendio e avvicinarsi alla villa. Si scatenano tutti gli strumenti di difesa che la loro fantasia può evocare: lampi, tuoni, fulmini, urla… Cotrone, richiamato dal fracasso, si rende conto che i nuovi venuti non sono un pericolo. Anzi, si tratta di un gruppo di attori, la compagnia della Contessa, che vaga alla ricerca di un teatro, un luogo dove si può rappresentare una commedia che un poeta ha composto per loro, anzi per la donna che giace sul carro, Ilse, la Contessa appunto: La favola del figlio cambiato. Sono in tutto otto persone, compreso il Conte, marito della Contessa: i superstiti delle disavventure subite dal gruppo. Sono stanchissimi e affamati, la Contessa addirittura viene trasportata a braccia. I due gruppi si ritrovano quasi subito con grande cordialità e rivelano le loro nature. Gli Scalognati confermano la loro natura mitica; i lampi, fulmini e tuoni con i quali si proponevano di spaventare quelli che sospettavano essere intrusi sono le magie create dalla fantasia dei loro sogni. Gli attori invece narrano la difficoltà di riuscire a mettere in scena la commedia di cui sono portatori. Tutti i teatri si sono rifiutati e le spese sono state tali da ridurre in miseria il Conte e da disperdere la compagnia. La Contessa è disperata. La commedia è stata scritta da un poeta per amor suo, per poterla conquistare, far propria. Non essendoci riuscito, dato che la Contessa pur essendone anche lei innamorata non ha voluto tradire il marito, il poeta si è suicidato. Ora la commedia, e il poeta con essa, vive nella testa di Ilse, che vuole rappresentarla ad ogni costo davanti a un pubblico: “La vita negata a lui – grida la Contessa – ho dovuto darla alla sua opera”. Tutto il mondo deve partecipare alla tragedia narrata nella favola: una maternità tradita dall’irruzione di Donne malvagie che sottraggono alla madre il bellissimo figlioletto, e lo sostituiscono con uno storpio e demente. La favola è la realtà, come lo è il sogno; e come ogni realtà che nasce dalla favole, essa prende vita solo sulla scena, in un teatro. Ma il teatro non c’è. La villa non lo ospita. La villa ospita solo dei sogni. Nella villa ci si può riposare, si può, forse, anche mangiare qualche cosa, anche se la cucina è sempre spenta; e se si vuole ci si può soggiornare e anche abitare e recitare; ma non c’è un teatro e, soprattutto, non c’è un pubblico. La casa è un luogo miracoloso, gli Scalognati sono personaggi in bilico fra vita reale e vita immaginaria: ad esempio La Sgricia, una vecchietta di età infinita, ha conosciuto l’Angelo Centouno, un angelo che a capo di cento anime del purgatorio, protegge i poveri cristi in pericolo. La Sgricia ha goduto di questa protezione, ma poi è morta, come morti sono tutti gli abitanti della villa. Ma è così? Anche questo sembra essere un sogno, come lo sono le voci che si sentono nell’aria, come lo è Cotrone e gli altri. Alla Contessa incredula, Cotrone confessa: “Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo il contrario dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno di andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi”. E così fa comparire l’immagine del poeta morto, come fosse un fantasma fuoriuscito dalla mente della Contessa, nella quale, attraverso la sua opera, egli continua a vivere. Ma poi non è così. È solo lo scherzo di uno degli attori che si è travestito. O forse tutto questo è avvenuto come se fosse proiettato nella realtà dalla mente del mago Cotrone? Ma non ha importanza rispondere a questa o ad altre domande. Il mago ci spoglia delle proprietà tipiche dell’uomo, decoro, onore, dignità, virtù; così “l’anima ci resta grande come l’aria… superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze. […] Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia che è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare.” È un esplicito invito agli attori a rimanere, a far parte del gioco, a recitare per sé, cioè per la propria anima La favola del figlio cambiato. Ma Ilse non ci sta. Ha bisogno di trasmettere alla folla, agli uomini corporei il proprio dolore. Rimarrà alla villa solo il tempo di trovare una soluzione. Cotrone troverà questa soluzione, ma ne parlerà il mattino successivo. Durante la notte, mentre tutto sembra tacere i sogni prendono corpo: Ilse e il marito cercano una soluzione al degrado che ha colpito la Compagnia e si imbattono negli attori che si muovono come se fossero sulla scena; uno di loro addirittura si impicca; ma, come preannunciato da Cotrone, sono solo fantasmi, anzi sogni che sorgono dai corpi che li ospitano. E con loro prendono vita i pupazzi che entrano nella rappresentazione teatrale sostituendo gli attori che si sono persi per strada. Finalmente Cotrone, all’alba, compare e spiega. C’è la soluzione per la recita della favola. Lo si farà per la grande festa che i Giganti della Montagna stanno organizzando per festeggiare le nozze di Uma di Dòrnio e Lopardo d’Arcifa. Essi verranno alla villa e per loro si rappresenterà La favola del figlio cambiato. Ma prima bisogna preparare bene la rappresentazione. Non basta avere un teatro, non bastano gli attori, anche se ci sono i fantocci che possono ben funzionare.

Noi qua non ci stupiamo più di nulla. – dice Cotrone – L’orgoglio umano è veramente imbecille, scusate. Vivono di vita naturale sulla terra, signor Conte, altri esseri di cui nello stato normale noi uomini non possiamo aver percezione, ma solo per difetto nostro, dei cinque nostri limitatissimi sensi. Ecco che, a volte, in condizioni anormali, questi esseri ci si rivelano e ci riempiono di spavento. Sfido: non ne avevamo supposto l’esistenza! Abitanti della terra non umani, signori miei, spiriti della natura, di tutti i generi, che vivono in mezzo a noi, invisibili, nelle rocce, nei boschi, nell’aria, nell’acqua, nel fuoco: lo sapevano bene gli antichi: e il popolo l’ha sempre saputo; lo sappiamo bene noi qua, che siamo in gara con loro e spesso li vinciamo, assoggettandoli a dare ai nostri prodigi, col loro concorso, un senso che essi ignorano o di cui non si curano. Se lei, Contessa, vede ancora la vita entro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori da questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento di ogni nascita necessaria. Al più al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita. Questi fantocci là, per esempio. Se lo spirito dei personaggi ch’essi rappresentano s’incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta in cui quei personaggi sono nati, vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente. Tradurli in realtà fittizia sulla scena è ciò che si fa comunemente nei teatri. Il vostro ufficio.”

Tutto questo è il miracolo del mito dell’Arte. Ma perché il miracolo si avveri bisogna crederci, come gli attori credono ai personaggi che calpestano la scena. E il salone della apparizioni si illumina trasformandosi effettivamente in un teatro dove i personaggi della Favola del figlio cambiato cominciano a muoversi e a recitare, come proiezioni dei personaggi presenti. Così il dramma si potrà rappresentare davanti  ai Giganti della Montagna. Essi infatti scendono, in gran pompa, e il loro procedere scuote gli attori della Compagnia della Contessa che finiscono per stringersi fra loro lamentandosi per paura. Qui il dramma pirandelliano si interrompe.

L’interpretazione dell’opera da parte di Strehler è magistrale: luci, trasparenze, travestimenti, danno effettivamente il senso di vivere in un ambiente dove gli spiriti creati dalla fantasia occupino lo spazio e il tempo. Molto bravi sono sia l’interprete di Cotrone, Franco Graziosi, sia l’interprete della Contessa Ilse, Andrea Jonasson.

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