L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA di Luigi Pirandello, 1922

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Si tratta del lavoro teatrale più breve di Pirandello. È stato composto nel 1922 su richiesta di Anton Giulio Bragaglia per una rappresentazione del Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Roma. Pirandello non fece altro che prendere integralmente il testo di una sua novella dal titolo Caffè Notturno, scritta nel 1918, aggiungere alcune didascalie, e utilizzarlo per la commedia. La novella venne poi pubblicata con il titolo La morte addosso nelle Novelle per un anno nella raccolta “In silenzio”. I personaggi che danno vita al dramma sono solo due: l’uomo dal fiore in bocca appunto, e un pacifico avventore. La specifica sotto il titolo L’uomo dal fiore in bocca infatti è Dialogo.
La prima rappresentazione ebbe luogo a Roma, proprio al Teatro Sperimentale degli Indipendenti il 21 febbraio 1923, con la regia di Anton Giulio Bragaglia; Nino Meloni interprete principale, e Eugenio Cappabianca come pacifico avventore. La critica fu molto favorevole al lavoro e alla messa in scena, un po’ meno alla recitazione dei due attori.

La commedia inizia sì come un dialogo fra l’uomo col fiore in bocca e il pacifico avventore, apparentemente su argomenti banali, ma col progredire del lavoro le redini vengono prese in mano dall’attore protagonista che praticamente in un monologo fa emergere il terrificante problema di come si possa manifestare la vita residua in una persona che aspetta la morte.

Il passaggio fra il dialogo banale e l’emergere del dramma avviene gradualmente. All’inizio i due personaggi, seduti ai tavolini di una stazione nella quale il pacifico avventore ha appena perso il treno, parlano delle mogli in villeggiatura, delle compere cui i mariti sono impegnati per incarico della consorte, mentre il protagonista comincia ad avvicinarsi alla sostanza del problema raccontando come ami assistere all’opera degli inservienti dei negozi mentre compilano le confezioni dei pacchetti. Le descrive, le ammira e confessa che passa giorni e giorni a guardare questa operazione così delicata. Quale sia il motivo di questo comportamento lo si rivela nel corso della conversazione: l’uomo sente il bisogno di penetrare, con la propria curiosità, nella vita degli altri e cercare di ricostruirne il modo di essere; non delle persone che già conosce, specifica, ma solo di sconosciuti, che egli osserva con attenzione quasi pignola, e proprio dai particolari che nota cerca di penetrarne la natura di essere persona. È un piacere? Si informa l’interlocutore. No. È una necessità. È un modo per riuscire ad avere un rapporto con la vita: la vita degli altri e la propria vita, che poi si identificano: «…il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso in cui la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati.» L’uomo è consapevole che la sua vita è destinata a terminare in tempi brevi, ed è a questa breve vita che lo tengono legato i ricordi. Mentre è in preda a questa dolorosa confessione vede dietro l’angolo l’ombra della moglie. È una donna preoccupata, conosce le condizioni del marito, lo vorrebbe curare col proprio affetto, con la propria presenza, circondandolo di agi. Ma tutto questo, al nostro protagonista, non solo non è di consolazione, ma è terribilmente fastidioso, perché lo ostacolerebbe proprio in quella sua stringente necessità di vita da vivere che lo porta ad osservare i commessi che impacchettano la merce venduta. La morte non è qualcosa che ci salta addosso e che, una volta vedutala, la possiamo scacciare, come si scaccia un insetto. No, la morte quando entra in noi è invisibile. Per essere più esplicito chiama il pacifico avventore sotto un lampione e gli mostra una tumefazione violacea sul labbro. È un fiore dal nome dolcissimo a pronunciarsi: epitelioma. Ebbene, la morte è venuta a trovarlo, gli ha messo in bocca quel fiore e gli ha detto: “Tienilo, caro; fra sette o otto mesi ripasserò”. E per la durata di questi mesi, se non potesse cercare di entrare con la fantasia nella vita degli altri, gli rimarrebbe solo un grande vuoto dentro, che potrebbero indurlo ad ammazzare qualcuno, o forse solo se stesso. Ma niente paura. Non succederà. La conversazione sta andando verso la fine. La quiete dopo la tempesta: l’immagine di belle albicocche succose che si mangiano dopo averle spaccate a metà, con tutta la buccia. È ora di andarsene. Porga i saluti alla sua signora e alle sue figlie, è la raccomandazione al pacifico avventore all’atto di andarsene, e quando, arrivato a destinazione, uscendo della stazione si imbatterà in un «cespuglietto di erba su la proda, ne conti i fili per me» gli dice l’uomo dal fiore in bocca. «Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte caro signore». Mesto finale di un lavoro fra i più celebri e forse fra i più belli di Pirandello.

Personalmente ho trovato diverse rappresentazioni in video che mi sono diligentemente visto: il tempo necessario per ogni rappresentazione è relativamente esiguo, attorno ai 30 minuti. Fra tutte quelle che ho visto (sono, se non mi sbaglio sette) solo due, tuttavia mi sono sembrate degne della bellezza dell’opera: quella interpretata da Gassman e il film di Marco Bellocchio interpretato da Michele Placido. Sono molto diverse, ma entrambe convincenti.
L’interpretazione di Gassman è veramente superlativa. Non c’è un attimo, un passaggio, una battuta lasciata al caso. Tutto è perfettamente controllato: dai primi momenti, in cui la conversazione si svolge su un piano di normalità fra due persone sedute al bar (il discorso sulle donne o le mogli in villeggiatura, i pacchi e i pacchettini che si devono portare la casa e che sono frutto delle commissioni che le mogli affidano ai mariti, la descrizione della precisione e dell’arte con cui i commessi dei negozi avvolgono i pacchettini, etc,), il discorso si fa gradualmente più pungente, con un Gassman che cerca di far capire all’interlocutore, e di fatto al pubblico, quali siano le sensazioni che si provano quando la vita, quella vissuta, quella che gli altri vivono, quella che noi stessi vivremo diventa l’argomento centrale del pensiero. In questo senso mi pare che Gassman si immedesimi bene in Pirandello, senza lasciarsi andare a espressione di sentimentalismi, che, in presenza di una condanna a morte, potrebbero anche essere straripanti. Quello che allora diventa ammirevole è soprattutto il ritmo che viene impresso alla recitazione.
Nella rappresentazione interpretata da Michele Placido, quello che invece si apre agli spettatori è soprattutto una sofferenza, che scaturisce dalle immagini, e, essendo la rappresentazione un film, anche dalla scenografia. Placido, mentre parla, mentre cerca nella vita, la propria e quella degli altri, una consolazione, lascia sfuggire nel tono della voce, nel comportamento, la sofferenza, la consapevolezza che questa vita gli sarà sottratta; e che la pietà, quella della moglie, ad esempio, non solo non lo consola ma ne acuisce il dolore.
Le altre rappresentazioni sono molto inferiori, e direi che difficilmente possono essere considerate più che mediocri.

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