MISTERO BUFFO di Dario Fo, 1969

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È forse il capolavoro di Dario Fo. Si tratta di una serie di monologhi che richiamano, sia come argomenti, sia come linguaggio, la commedia dell’arte di origine medioevale-rinascimentale. Questi monologhi vengono definiti “giullarate” cioè forme rappresentative che richiamano quelle svolte da una sola persona, il giullare appunto, in pubblico, spesso davanti a una chiesa alla fine di una funzione quando la gente era numerosa e poteva fermarsi ad ascoltarle. A volte si trattava di vere e proprie rappresentazioni con più personaggi, che tuttavia erano impersonati dal solo giullare che interpretava i diversi ruoli.


Il linguaggio: si tratta quasi sempre di un dialetto risultante dalla fusione di vari dialetti lombardi, soprattutto quelli che di parlano nelle città della pianura padana. Questo, per richiamare la logica della commedia dell’arte che era rappresentata da artisti del popolo che si spostavano da una città all’altra, e avevano il problema della comprensione. A volte i linguaggio dialettale non soddisfaceva più le esigenze di comprensione. A volte interveniva la censura. A volte si realizzavano situazioni di persecuzione per cui i giullari dovevano fuggire ed emigrare in paesi dove potevano recitare. In tutte queste circostanze il linguaggio non poteva più essere quello di immediata comprensione. Veniva allora introdotto un linguaggio nuovo, con parole inesistenti, ma con espressioni di tipo onomatopeico che permettevano agli ascoltatori la comprensione. Era un modo furbo per sfuggire alla censura, o per farsi capire in paesi stranieri dove spesso i giullari erano costretti a espatriare. Questo linguaggio veniva (e viene tutt’ora) chiamato col nome di Grammelot. Poteva avere assonanze tipiche del dialetto lombardo, o anche assonanze francesi, o inglesi. Anzi lo stesso Fo ci spiega che il Grammelot è nato proprio in Francia da giullari che, dovuti fuggire per una politica di persecuzione nei loro confronti, si sono trasferiti in massa nella vicina Francia, e, non sapendo la lingua, per farsi comprendere hanno inventato questa forma di linguaggio.
Gli argomenti di Mistero buffo richiamano argomenti molto diffusi fra i giullari della commedia dell’arte. Molti di questi argomenti erano di contenuto religioso, ma sempre con una sostanziale critica a comportamenti della chiesa ufficiale, come gli eccessi di ricchezza, lo scarso impegno per aiutare la povera gente, le forme di autorità che servivano soprattutto per mantenere il potere, lo sfruttamento dei contadini nella coltivazione della terra, eccetera.

Dario Fo in Mistero buffo ricupera questi argomenti, ovviamente rendendoli più facilmente comprensibili come eventi noti, spesso richiamandone l‘aspetto grottesco e a volte anche rivelando incongruenze del passato presenti anche nel tempo presente. La rappresentazione è stata ripetuta moltissime volte in anni successivi, ed è costituita da una dozzina e più di monologhi di vario tipo. Nella rappresentazione ripresa dalla televisione nella palazzina Liberty a Milano nel 1977 ne sono riportati 16, fra cui circa 10 giullarate, 5 grammelot e una passione laica.

Il primo monologo ha come titolo La fame dello Zanni. Il linguaggio è il grammelot. Lo Zanni, ci dice Fo all’inizio è il nome del contadino medioevale, quello che lavora la terra per dare i suoi frutti al padrone. Zanni o Gianni storicamente risulta essere il precursore di molte più celebri maschere che hanno ravvivato le rappresentazioni della commedia dell’arte: Arlecchino, Brighella, Pulcinella, etc. La fame dello Zanni è una fame cronica, invincibile, che lui cerca di calmare immaginandosi di poter mangiare perfino brani del suo stesso corpo. Il sogno continua nella preparazione di un pranzo luculliano che tuttavia finisce lasciando la fame con lo stesso tormento di sempre. Ma c’è una mosca che gira. Zanni la afferra e la mangia con gusto, zampetta per zampetta, poi le ali, il corpo e finisce con clamoroso: che magnata!
Segue la Storia di San Benedetto da Norcia, il frate che ha fondato l’ordine dei benedettini che hanno come motto ora et labora. Pregare va bene, ma perché nel motto c’è anche l’invito a lavorare? Ecco il grammelot ce lo spiega.
La giullarata La resurrezione di Lazzaro è il racconto di una resurrezione attesa da una folla ansiosa di vedere il miracolo, e fra questa folla, ci sono mercanti che vendono manicaretti, altri che affittano sedie, ci sono persone che discutono, che si vantano di conoscere Jesus, che si contendono il posto, etc.
Un’altra giullarata riguarda Bonifacio VIII, papa simoniaco che Dante ha condannato all’inferno ancora prima che morisse. Bonifacio va in processione tutto agghindato con paramenti sacri di grande ricchezza, con anelli, gioie, pietre preziose di varie dimensioni. Incontra una processione di povera gente, guidata da Cristo in persona, anche lui vestito poveramente. Bonifacio cerca di giustificare il proprio abbigliamento, ma Cristo lo ripaga con un gran calcio nel sedere.
Segue un altro grammelot, questa volta in francese: Scapino. Il linguaggio, ovviamente è costituito da parole con suono francese, ma senza alcun significato se non quello dato dalla sonorità onomatopeica. Scapino è un servo che deve istruire il giovane signore (siamo ai tempi del Re sole) rimasto improvvisamente orfano, sul come comportarsi per mantenere in società il potere paterno: i vestiti da indossare, la parrucca, l’uso delle armi, la conoscenza delle leggi etc.
A questo grammelot francese segue il Grammelot dell’avvocato inglese, nel quale l’avvocato deve difendere un nobile accusato di aver violentato una fanciulla. Naturalmente tutta l’abilità dell’avvocato, con l’uso di un linguaggio estremamente espressivo e di grande arguzia, ma sempre onomatopeico, riesce a dimostrare che l’uomo non è violentatore, ma la fanciulla è la provocatrice al peccato di un povero giovane, tutto casa chiesa e studio.
Un’altra giullarata, Maria alla croce, è ora affidata a Franca Rame: si tratta del pianto di Maria sotto la croce dove Gesù Cristo sta morendo. E questo è un pianto che si rivolta in rabbia contro le donne che, per evitarle in grande dolore di vedere il figlio in quelle condizioni cercano di trattenerla; e poi contro lo stesso dio, che ha voluto mandare suo figlio sulla terra per farlo crocifiggere.
Il primo atto termina con un’altra giullarata divertente: Il miracolo delle nozze di Cana. Qui un angelo cerca di raccontare alla buona gente quello che è stato un miracolo di Cristo, ma non riesce. Interviene uno degli ospiti, ubriaco di ottimo vino, che caccia l’angelo e racconta lui come Jesus, per non far fallire una festa di nozze per mancanza di vino (il vino preparato dal padrone di casa si era trasformato in aceto), si fa portare del bacili di acqua e con una strana imposizione della mani, trasforma l’acqua in vino. E che vino! E lo stesso Jesus, salendo sulla tavola sollecita gli invitati a bere e a divertirsi.

Il secondo atto inizia con la parziale recitazione e la spiegazione della poesia Rosa fresca aulentissima di Ciullo d’Alcamo, e ci spiega come questo contrasto, pieno di significati allegorici, a scuola ci venga offerto epurato dai significati considerati scabrosi.
Subito dopo Dario Fo ci recita una giullarata che descrive La nascita del giullare. Torniamo nelle campagne dove il contadino, poverissimo, lavora tutto il santo giorno perché i frutti della terra vadano al padrone. Questo contadino un giorno scopre una montagna di lava che nessuno vuole in quanto giudicata improduttiva. Il contadino, abituato al pesante lavoro, riesce a farne un campo fertile e produttivo. A questo punto il padrone si rifà vivo e vuole la terra, perché, dice, è sua. E con questo gli fa una violenza devastante che coinvolge la sua stessa famiglia. Il povero contadino, disperato, decide di impiccarsi, ma mentre sta per farlo, Jesus lo ferma e gli spiega come, raccontando le malefatte dei padroni con un linguaggio scurrile, ironico, volgare quanto basta, riuscirà ad avere dalla sua parte la gente che ogni giorno subisce le soperchierie dei padroni. Con un miracolo, toccando la sua bocca, gli dà questo linguaggio e il contadino diventa così il giullare.
Una altro grammelot, questa volta, ci rappresenta La lezione dello scienziato americano, che, nel modo più caratteristico della parlata onomatopeica, ci mostra le ambiguità dovute all’incomprensibilità del linguaggio tecnico.
Seguono le giullarate di Caino e Abele e poi quella della Moralità del cieco e dello storpio. In questa un cieco e uno storpio si aiutano reciprocamente: lo storpio arrampicato sulle spalle del cieco, lo guida nel procedere. In quel modo potranno chiedere una più ricca carità. Ma nel loro procedere incontrano Jesus, quel pazzo che quando vede una persona affetta da malattia, subito fa il miracolo di guarirla. I due cercano di fuggire. Se dovessero guarire, chi farebbe più loro la carità? Dovrebbero andare a lavorare. Ma i due vengono guariti comunque. Il cieco, riacquistando la vista è felice e ha ritrovato dignità e scopo di vivere. Lo storpio invece è follemente arrabbiato e corre a chiedere di ritornare nella condizione precedente.
La strage degli innocenti è una passione laica. Qui non c’è ironia, ma solo la disperazione di una madre che si vede uccidere il figlioletto e che, impazzendo, lo ritrova in un agnellino che trattiene fra le braccia e lo mostra alla madonna: e impreca contro dio, che per mandare suo figlio sulla terra lascia che vengano uccisi centinaia di bambini innocenti.
Le ultime due giullarate sono Il matto e la morte e Il matto sotto la croce. È il solito contadino matto che è in miseria anche perché gioca a carte e perde sempre. Mentre gioca, nella stanza accanto c’è Jesus che cena con i suoi amici. Il matto lo conosce, e ogni tanto lo saluta da lontano. Quando ha finito i soldi gli altri giocatori si allontanano e lui rimane solo. Gli viene incontro una figura oscura: è la morte. Il matto non ha paura della morte, anzi le fa qualche complimento. La morte ne è lusingata. Ma non è venuta per lui. È venuta per quello che cena nell’altra stanza, Jesus, e ciò la rattrista molto. Jesus ora è sulla croce. Il matto gioca con i soldati che lo sorvegliano. Il matto corre a pregare Jesus e gli chiede il piacere di farlo vincere qualche volta. Jesus acconsente. Il matto vince più volte. È riconoscente, vuole togliere Jesus dalla croce e al suo posto mettere quel suicida che si è impiccato a quell’albero, Giuda. Ma Jesus non accetta lo scambio.

Mistero buffo è veramente un capolavoro che riporta in vita, in modo veramente magico la Commedia dell’arte, e non credo che sia un azzardo ipotizzare che è proprio da questa rappresentazione che è derivata la premiazione di Fo con il Nobel. Dario Fo, a parte una sola recitazione, quella di Maria alla croce, è l’unico attore sul palcoscenico. Non c’è alcuna scenografia, non ci sono immagini estranee. Tutto si basa sulla mimica e sul linguaggio del racconto con l’attore al centro della scena, che interpreta non solo il personaggio principale, ma anche i personaggi secondari. Fo è veramente un grande.

1 Commento a “MISTERO BUFFO di Dario Fo, 1969”

  1. ELVIRA VILLANI scrive:

    LA FRESCHEZZA E L’ATTUALITà DI QUEST’OPERA E’ STRAORDINARIA. L’ABILITà , SPESSO AMARAMENTE IRONICA, NELL’INTRECCIARE IL RACCONTO FANTASTICO CON QUELLO BIBLICO O POPOLARE, E’ SORPRENDENTE. LA SFERZATA MORALE CHE NE SCATURISCE E’, SOVENTE, UNA SCUDISCIATA AL MONDO. E’ UN’OPERA, QUESTA, CHE RIMARRà IMMORTALE, COME TUTTA LA GRANDE POESIA.

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