MEDEA, PierPaolo Pasolini, 1969

Unknown

Dopo il mito di Edipo, Pasolini si cimenta con un altro tragico mito della Grecia Antica, quello di Medea. L’ispirazione proviene, anche in questa occasione, da una tragedia, la Medea di Euripide. Ma come nell’Edipo re, Pasolini ricostruisce anche in questo film tutto l’antefatto, per arrivare solo nella parte finale alla conclusione tragica.


Giasone, discendente di Eolo, è allevato dal centauro Chirone, che lo salva dalla minaccia dello zio Pelia che si è impadronito del trono di Iolco, in Teassaglia, facendo uccidere il fratellastro Esone, legittimo successore, e minacciandone il figlio. Chirone (Laurent Terzieff) spiega a Giasone i misteri della vita, e soprattutto la sua discendenza che gli dà diritto al trono di Iolco in quanto figlio di Esone, e al vello d’oro, portato in Colchide, sulle coste del Ponto Eusino, da Frisso, a sua volta discendente di Eolo. Il vello d’oro è un amuleto che è stato donato a Frisso da Era al fine di proteggerlo dalle angherie della matrigna. Frisso, raggiunta in salvo la Colchide, lo dona ai suoi abitanti. Da allora il vello d’oro viene conservato nel tempio, e il re Eeta con i due figli, Medea e Apsirto, ne fa oggetto di culto.
Il film ci presenta il popolo della Colchide, considerato dai Greci un popolo barbaro. Esso vive in un ambiente ostile, desertico, nel quale le case sono grotte scavate nella roccia e i prodotti dell’agricoltura scarsi e faticosamente coltivati. Periodicamente viene esercitato un rito sacrificale per aiutare l’agricoltura e fertilizzare i semi che dovranno poi dare i tanto attesi frutti. Vittima del sacrificio è un uomo le cui carni sono tagliate a pezzi e distribuite alla popolazione per fertilizzare il suolo e i semi da sotterrare. Medea (Maria Callas), che assiste al rito, consacra la fertilizzazione evocando il ciclo della vita: «Dà vita al seme, e rinasce con il seme».
Nel frattempo Giasone (Giuseppe Gentile), ormai cresciuto si reca a Iolco e chiede alla zio Pelia la restituzione del trono. Lo zio Pelia acconsente a patto che il nipote vada oltremare a conquistare e portargli il vello d’oro, segno di prosperità. Giasone con una cinquantina di eroici amici, gli Argonauti, si imbarca su una grande zattera, Argo, la prima nave.
Gli Argonauti sbarcheranno sulle coste del Ponto Eusino e lì impadronitisi di un gruppo di cavalli selvaggi, daranno vita a scorrerie, saccheggiando le misere case della povera gente, finché Medea vedrà in faccia Giasone, e se innamorerà. Il modo per conquistarlo è quello di portargli in dono il vello d’oro. Per questo, si fa aiutare dal fratello a rubarlo e i due, su una carretta, raggiungono l’accampamento degli Argonauti. Il vello d’oro ora è in mano a Giasone. Tutti il gruppo galoppa per raggiungere la costa, mentre nella capitale della Colchide, con grande sgomento di tutti ci si rende conto che il vello è stato rubato. Il re Eeta organizza l’inseguimento. Medea, per ritardarlo, uccide il fratello Apsirto, lo smembra e dissemina le sue membra in modo che il re sia costretto a fermarsi per cercare di riuscire a mettere insieme il corpo e riportare, nel più grande dei lutti, le spoglie a casa.
Gli Argonauti approdano sulle sponde della Tessaglia, dove formano un accampamento. Medea è sgomenta. Si sente lontano da casa, ha paura, il sole con il quale in Colchide aveva un rapporto stretto, quasi da padre a figlia, sembra averla abbandonata. Fugge, si rifugia lontano, finché Giasone riesce a consolarla e a fare l’amore con lei sotto una delle tende. Poi i due si recano a Iolco, dove ricevono la sgradevole sorpresa che il re Pelia non intende mantenere la promessa. Giasone, con disprezzo gli lascia il vello d’oro, e se ne va. Il viaggio gli ha insegnato che il mondo è molto più grande del piccolo regno dello zio Pelia. Tornati all’accampamento, gli Argonauti si sciolgono e Giasone vivrà con Medea.
Passano gli anni. Ne passano 10, e troviamo Giasone a Corinto, dove incontra il centauro Chirone, che non è più uno solo, ma è sdoppiato. Esiste un Chirone dell’infanzia, sacro, che gli infonde i sentimenti, e un Chirone dell’età adulta, sconsacrato, che glieli manifesta. Giasone è innamorato di Medea gli dice il Chirone sconsacrato. Ma Giasone non intende ascoltarlo. La sua ambizione è quella di sposare Glauce, la figlia del re di Corinto, Creonte (Massimo Girotti).
Medea se ne rende conto e alla iniziale disperazione, anche su stimolo della nutrice e delle donne che l’accompagnano che le ricordano di essere una potente maga, decide di vendicarsi. Vede il sole all’alba, il quale riprende a parlarle. Fa un sogno: immagina di regalare a Glauce le proprie vesti, che sono magiche, e che, appena indossate dalla fanciulla, prendono fuoco e la avvolgono fra le fiamme. Il sogno è una premonizione. Le sue arti di maga sono ben note, e Creonte, immaginando che la figlia possa essere vittima della vendetta di Medea, si reca dalla donna e le intima di andarsene da Corinto, con i due figli avuti da Giasone. Medea allora mette in atto il piano che ha avuto in sogno: prima chiama Giasone e finge di chiedergli scusa, poi fa in modo che l’uomo abbia ancora un rapporto carnale con lei. Alla fine invia i due figli, accompagnati dallo stesso Giasone, a portare in dono a Glauce il proprio vestito, come falso simbolo di pacificazione. Da osservare che il brano del sogno e quello della realtà nel film sono identici: cioè in queste sequenze il film si ripete in modo sovrapponibile. Alla fine Glauce, terrorizzata e angosciata dal pensiero di avere rubato il marito a Medea, fugge con indosso le sue vesti, inseguita dal padre. Entrambi si lancino nel vuoto dalla sommità della rocca, sfracellandosi al suolo.
Ma la vendetta di Medea è diretta soprattutto contro Giasone, e così, uno dopo l’altro, dopo averli fatti addormentare dolcemente al suo seno, li sgozza. Poi dà fuoco al palazzo aiutata dal sole. Giasone accorre da Medea, la prega di lasciarlo dare l’ultima saluto ai figli, ma Medea è inflessibile e le sue ultime parole sono per la sofferenza, la stessa che ha torturato lei, che dovrà tormentare l’uomo in modo sempre maggiore fino alla vecchiaia.

La scenografia del film, come quella di Edipo re, si basa su paesaggi ruvidi, aspri. La Colchide è costituita da un paesaggio desertico, costellato da rocce che emergono dal suolo, e tutte traforate da grotte che sono le abitazioni della povera gente. I contadini li vediamo per i campi dove si affaticano per coltivare quel poco che la terra arida concede loro. Ne vediamo i vestiti rozzi, le espressioni cupe, le mani protese ad accogliere il sangue della vittima sacrificale nella speranza di fertilizzare un suolo arido. Il palazzo reale, come anche il tempio sono delle vere e proprie grotte scavate nella roccia. Gli abiti dei regnanti sono sontuosi, ma rozzi, le donne sono coperte da un velo. Il sacrificio si compie in uno spiazzo circondato dalla folla dei contadini e guidato da un coro di sacerdoti. Durante il sacrificio viene portata davanti alla vittima un’effige che dovrebbe rappresentare il sole, e proprio davanti all’effige del sole Medea pronuncia le parole del ciclo vitale.
Argo, la prima nave della storia, è una zattera che gli argonauti muovono facendo forza sui remi.
I palazzi di Iolco e di Corinto sono antiche costruzioni del mondo arabo, come si era già visto in Edipo re. Le riprese degli esterni sono state girate in Turchia (le immagini ricordano quelle dell’Anatolia). Gli interni del palazzo di Corinto, sono la corte del camposanto monumentale di Pisa.
Le immagini dei primi piani sono numerose: espressioni dei contadini della Colchide, delle donne del seguito dei diversi re, di Glauce che riceve il dono delle vesti di Medea, degli Argonauti mentre razziano, o mentre mangiano durante il riposo nell’accampamento; e soprattutto di Medea nei vari momenti della sua psicologia di donna dominatrice, di donna maga, di donna sommersa dalla paura e dal dolore, mentre sogna e preannuncia la vendetta, mentre culla i due figli prima di sgozzarli. I suoi occhi, mobili, si aprono quasi come sorgenti di luce.
I dialoghi sono ridotti al minimo, mentre il commento alle scene è musicale: la colonna sonora è fatta praticamente solo da canti corali e da musiche strumentali apparentemente di provenienza dal mondo arabo o comunque dall’oriente.
In conclusione mi è sembrato che il film che abbia saputo continuare, forse con ancora meno retorica, le vicende mitologiche dell’Edipo re. Personalmente l’ho trovato molto convincente e ho ammirato le espressioni del volto di Maria Callas.

Scrivi un commento