PORCILE, di PierPaolo Pasolini, 1969

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Un film dalla struttura particolare: due racconti paralleli sulla disobbedienza rappresentati alternativamente. In uno la storia si svolge nel medioevo, alla falde dell’Etna: una storia di povera gente; nell’altro si svolge in epoca moderna, in Germania, a Godesberg, una storia della grande borghesia.


Il film è preceduto dalla immagine e dalla lettura di due lapidi: “Interrogata ben bene la nostra coscienza abbiamo stabilito di divorarti a causa della tua disobbedienza”, la prima; e “Io e te moglie siamo alleati: tu madre e padre io padre e madre. La tenerezza e la durezza sono intorno a nostro figlio da tutte le parti. La Germania di Bonn, accidenti, non è mica la Germania di Hitler. Si fabbricano lane, formaggi, birre e bottoni; quella dei cannoni è un’industria d’esportazione. È vero, si sa che anche Hitler era un po’ femmina, ma come è noto era una femmina assassina. La nostra tradizione è così decisamente migliorata. Dunque, la madre assassina, lei, ebbe figli obbedienti, con gli occhi azzurri, pieni di tanto disperato amore, mentre io, io, madre affettuosa ho questo figlio che non è né obbediente né disobbediente?” la seconda.
La sequenza della presentazione scorre sull’immagine di un porcile, affollato di maiali, che vengono ripresi da vicino e da lontano, in primo piano, di faccia e di coda, mentre le note dell’inno delle SS suonate da una chitarra accompagnano lo scorrere dei titoli.
Il film comincia con il mostrare il protagonista della prima storia, personaggio senza un nome specificato, interpretato da Pierre Clementi, che si muove in un paesaggio desertico, le lande di una terra vulcanica, dell’Etna per la precisione, e che insegue insetti e serpenti per mangiarli. Non c’è altro cibo e questa è l’unica sua possibilità di sopravvivenza. L’altra storia ha inizio anch’essa con un’immagine del protagonista Julian, interpretato da Jean-Pierre Léaud, in una ricca stanza di una grande villa neoclassica in stile italianeggiante, dove incontra la sua supposta fidanzata Ida (Anne Wiazemski) con la quale inizia una discussione.
Le due storie proseguono alternandosi nel racconto, offrendo contrasti molto profondi per quanto riguarda l’ambiente, i protagonisti, le vicende; ma c’è anche un contrasto molto forte nella condotta cinematografica: mentre la prima storia non contiene dialoghi, la seconda è tutta impostata sul linguaggio parlato.

Nella prima storia, il protagonista solitario si nasconde dietro massi di lava quando vede la scena attraversata da soldati armati. Nelle sue peregrinazioni trova i resti di una battaglia combattuta non si sa quando né da chi. Ha così occasione di impadronirsi di un elmetto, una spada e un fucile. Così armato si imbatte in soldato ritardatario che cerca di raggiungere i suoi commilitoni. Lo affronta e lo uccide. Poi lo smembra, getta la sua testa in una bocca eruttiva del vulcano, accende un fuoco e mangia la sua carne. Ben presto a lui si aggiungerà un altro disperato, interpretato da Sergio Chiti, e successivamente altri ancora. Insieme continueranno ad aggredire i passanti, a ucciderli e a cibarsene, finché vengono scoperti da un contadino che riesce a sfuggire. Dal villaggio viene inviata una squadra armata che porta con sé due personaggi nudi, un uomo e una donna, posti come esche in modo visibile. I disperati, dopo un attimo di diffidenza, si lanciano per catturarli, ma vengono intercettati dai soldati, fatti prigionieri e portati al villaggio. Lì, nel cortile di una torre medioevale, vengono processati da una corte e condannati a morte, mentre la campana della torre suona a distesa. La morte dovrà essere atroce come atroci sono stati i loro delitti. Verranno spogliati e legati a terra nella parte più desolata della landa vulcanica e lasciati così in preda ai cani randagi affamati che li sbraneranno. Prima di essere legato al suolo, il protagonista Pierre Clementi, che si è spogliato nudo, pronuncia le uniche parole di tutto il racconto e le ripete quattro volte: “Ho ucciso mio padre. Ho mangiato carne umana. Tremo di gioia.”

Nella seconda storia Julian si incontra con la fanciulla che è innamorata di lui e che tutti, in famiglia, vorrebbero che fosse la sua fidanzata, la diciasettenne Ida. Con lei il suo è un rapporto equivoco. I due hanno un incontro-scontro camminando lungo la fonte che si estende davanti alla facciata della villa. Egli non corrisponde all’amore di lei perché è attratto da altro; ma che cosa questo “altro” Ida non riesce a farselo confessare. Julian, in sostanza, è un personaggio privo di interessi che non siano le pulsioni che gli rimordono nel proprio intimo. Qualsiasi cosa lo circondi gli è indifferente. È quello che suo padre definisce un personaggio inutile, fuori dal consorzio umano, un figlio non obbediente ma neppure disobbediente. Improvvisamente Julian entra in uno stato catatonico. Resta immobile a letto, guardando il soffitto, senza più intervenire nel mondo che lo circonda. Il padre, Klotz (Alberto Lionello), un ricco magnate paralitico, proprietario di una fabbrica, sa che Julian è il suo unico erede, ma in queste condizioni che rapporto può avere con il figlio? Pensa che la condizione della propria famiglia, appartenente all’alta borghesia tedesca, anche se siamo in una Germania che non è più quella di Hitler e nella fabbrica si producono lane, formaggi, birre e bottoni, potrebbe essere quella ritratta da Brecht nella sua drammaturgia o da Groszt nelle sue vignette, dove l’aspetto dei ricchi borghesi viene ritratto come grossi e grassi maiali. La ditta di Klotz è in concorrenza con quella di un altro ricco tedesco, il signor Herdhitze personaggio temibile, da sconfiggere possibilmente. Sembra che ne esistano le condizioni. Vi sono le prove che il signor Herdhitze durante la guerra, sotto il regime hitleriano, col nome di Hirt, era stato un feroce persecutore di ebrei. Successivamente il criminale è sfuggito alla giustizia cambiando nome e facendosi fare una plastica facciale. Questi fatti sembrerebbero aver messo Herdhitze nelle mani di Klotz, ma in un colloquio fra i due, Herdhitze (Ugo Tognazzi) rivela al padre il vero grande problema del figlio: egli ha un’attrazione sessuale per i maiali, con i quali è uso accoppiarsi. Nella discussione emerge quello che potrebbe essere definito uno scambio ebrei-maiali, e i due uomini si accordano per fondere le loro fabbriche. La festa per la fusione si svolge nel sontuoso palazzo di Klotz, accompagnata dalla musica del primo quartetto di Beethoven op. 18.
Nel frattempo Julian è guarito dalla catalessi. Ida lo incontra un ultima volta per salutarlo e annunciargli che si è fidanzata con un giovane molto bello e che presto si sposerà. Ciò lascia indifferente Julian: è stato indifferente all’amore della ragazza, ora è indifferente anche alla cessazione del suo amore. Julian esce e va nella casa dei contadini, dove c’è il porcile. Nel finale i contadini in modo concitato vogliono essere ricevuti dai padroni, anzi dal più duro di loro, Herdhitze: si presentano in gruppo con una immagine che richiama da lontano il quadro Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, e lo informano che Julian è entrato nel porcile e i porci lo hanno divorato completamente, senza lasciare il benché minimo residuo. Herditze, accertatosi di questo impone loro il silenzio sulla vicenda.

Il film è molto duro e, secondo me, molto bello. L’alternanza delle due storie così contrastanti fra loro costringe a un continuo adattamento dello spettatore ad ambienti apparentemente molto diversi, ma filmisticamente vicini. Da notare che l’ambiente desertico delle falde dell’Etna, che è il paesaggio del primo racconto, richiama le fugaci apparizioni di immagini di deserto in Teorema. In entrambi i casi viene richiamato un rapporto fra la vita della borghesia e la sua solitudine. Scene di grande crudezza non ve ne sono, anche se sono narrate. Il segnale del cannibalismo è dato da un fuoco acceso e alcuni resti fra i quali si riconosce una mano umana. Lo strazio dei cannibali da parte dei cani è visto da molto lontano, e non fa una grande impressione. Nell’altro racconto l’ingresso finale di Julian nel porcile non è mostrato, e apprendiamo della sua tragedia solo dal racconto dei contadini. Ma il tutto, anche se non visibile nelle immagini, si ripercuote in modo tragico nella mente dello spettatore.
Nel secondo racconto sono molteplici i richiami alla Germania di Hitler: si va dalle note dell’inno delle SS che si ode all’inizio mentre sullo schermo si vedono i maiali, ai baffetti hitleriani di Klotz, al racconto dell’attività di Hirt-Herdhitze a Strasburgo che collezionava crani di ebrei (anzi: di commissari comunisti ebrei, dice il racconto, fra le risate di Klotz divertito dall’associazione dei tre termini), per finire all’osceno scambio: maiali in cambio di ebrei che porterà alla fusione delle due aziende.
Il senso del film lo suggerisce Pasolini, facendo riferimento alle due lapidi lette all’inizio: “Il messaggio semplificato del film è il seguente: la società, ogni società, divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti. I figli devono essere obbedienti e basta.”

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