STORIA DELLA TIGRE E ALTRE STORIE, Dario FO, 1980

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Si tratta di tre monologhi ripresi nel video distribuito dall’autore. I primi due, Storia della tigre e Il primo miracolo di Gesù Bambino sono rappresentati nelle stessa occasione, probabilmente proprio del 1980, mentre il terzo, Dedalo e Icaro è sicuramente molto anteriore e rappresentato in un’altra occasione.
Tutti e tre i monologhi son preceduti da un prologo in cui Fo spiega le condizioni in cui i monologhi sono nati.


La storia della tigre è nato nel corso di un suo viaggio in Cina: nella Cina dei primi tempi di Mao, dopo la lunga marcia e dopo la vittoria contro Chiang Kai-shek. Dopo aver visto numerose e noiosissime rappresentazioni celebrative in teatri ufficiali che glorificavano le vittorie del partito comunista e del popolo, finalmente Fo vede, in un posto sperduto nei dintorni di Shangai, un povero contadino che su un palcoscenico improvvisato, racconta con grande vivacità e in cinese, questa storia, dal chiaro sapore allegorico.
Fo ripete il monologo, questa volta in gremlot.
Durante la lunga marcia, l’esercito rosso subisce numerosi attacchi e agguati da parte della truppe di Chiang Kai-shek, soprattutto nell’attraversamento dell’Himalaya. In uno di questi episodi, un soldato, quello che sarà il protagonista del monologo, viene ferito a una coscia. La gamba va in cancrena. Il soldato non può più marciare e viene abbandonato dai suoi commilitoni. Le disgrazie, secondo i cinesi, avvengono tre alla volta; dopo la prima, quella del ferimento, ecco la seconda: il soldato si trova da solo ad affrontare una terribile tempesta. Cerca un rifugio, è costretto ad attraversare un fiume in piena, si aggrappa dove può, finché giunge davanti a una grotta. È la salvezza? No. Terza disgrazia: la grotta è abitata da un tigre col suo cucciolo. L’incontro espone il soldato a un grave rischio, ma la tigre non lo assale. Il fetore della cancrena tiene lontana la belva, che si dedica al tigrotto e cerca di alimentarlo allattandolo. Ma il tigrotto non ne vuole sapere. La tigre sente una tensione dolorosa nelle poppe, e con ruggiti di varia intensità fa capire al soldato che deve essere lui a poppare il latte. Questi, dapprima con diffidenza, poi con sempre maggior entusiasmo obbedisce, e fra i due, soldato e tigre, si istaura a poco a poco una vera amicizia. Non solo la tigre non lo sbrana, ma nei giorni successivi esce a caccia e porta nella grotta della carne da mangiare e la offre anche al soldato. Non solo, ma con la lingua gli pulisce la ferita alla gamba che, via via, va migliorando e alla fine guarendo.
Ma col tempo il soldato si stanca e decide di andarsene. Ha bisogno di contatto umano. Corre, distanzia le tigri che lo inseguono, attraversa valli, foreste deserte, finché arriva a un villaggio ben coltivato, pulito, abitato da bravi contadini. All’inizio i bravi contadini non credono alla storia delle tigri, ma quando le tigri arrivano per cercare il loro amico, sono costretti a ricredersi. La tigri diventano amiche di tutto il villaggio, e quando, a seguito di un’incursione dei soldati di Chiang Kai-shek, le tigri si schierano dalla parte dei contadini e mettono in fuga gli assalitori, diventano un po’ l’arma che quei contadini potranno usare ogni volta che saranno aggrediti: giapponesi, europei, signori della guerra, e quant’altro. Il partito apprezza l’operato di quei contadini, ma la burocrazia vuole che le tigri non vivano con gli uomini. Non importa se esse sono state utili e se vi è amicizia fra loro e gli abitanti del villaggio. Esse devono tornare nella foresta, o, al massimo, essere richiuse in uno zoo. A nulla valgono le proteste dei contadini. La burocrazia ha sempre ragione. Dice una vecchia massima cinese: Una persona che possiede una tigre è una persona che non si lascia mai sconfiggere, non si abbandona mai agli scoraggiamenti. Non fugge, non rimane mai isolato e, anche quando tutti gli altri se la danno a gambe, tiene il fuoco acceso. Tiene la brace fra le mani. A costo di ustionarsi, la mantiene sempre accesa. Chi è fuggito di certo tornerà, e sarà proprio grazie a quella brace che si potrà ricominciare.

Il secondo monologo narra Il primo miracolo di Gesù Bambino. Il racconto è tratto da un vangelo, apocrifo naturalmente, che si riferisce alla vita di Gesù nell’intervallo di tempo che va dalla fuga in Egitto al suo ingresso sulla scena sociale e alla predicazione. Il racconto è fatto con grande vivacità, alla maniera di Fo. Incomincia con la descrizione della nascita del Bambino e delle scene che l’hanno attorniata, il presepe: la grotta, il bue e l’asinello, i pastori, i contadini che lo vanno a trovare e portano i doni, la stella cometa che si fa strada fra le altre stelle, l’arcangelo Michele che spinge la folla ad andare ad adorare il piccolo Gesù, e infine anche i tre re magi. Dei tre, uno è un vecchio su un cavallo nero, il secondo un giovane elegante su un cavallo bianco, e il terzo un nero su un cammello grigio. Fo, in maniera divertita ci racconta della lite fra il re magio vecchio e quello nero. Quest’ultimo, infatti, durante tutto il percorso, canta a squarcia gola, rendendosi insopportabile al compagno di viaggio.
Il presepe è interrotto dall’improvviso arrivo dell’arcangelo che dà notizia della strage degli innocenti voluta da Erode e dà istruzioni a Giuseppe e Maria affinché vadano a rifugiarsi in Egitto col bambino. I tre, arraffano quello che possono dalla grotta, prendono l’asinello, e fuggono senza perdere tempo. Giungono a Jaffa. Lì si trovano in condizioni precarie. Sopravvivono con qualche lavoretto. La gente non ama gli stranieri e li tiene isolati. Anche il bambino Gesù, ormai cresciutello, non viene accettato dagli altri bambini, che lo chiamo spregiativamente “Palestina” o addirittura “Terun!”. Ma il Bambino Gesù non demorde. Sa che ha il potere di fare miracoli, anche gli è stato proibito di farne. Però uno, piccolo piccolo, per poter essere accettato dagli altri bambini… ecco, con la creta costruisce un passerotto, lo fa vedere agli altri, lo tiene in mano, gli soffia e il passerotto comincia a volare. E, per dissipare la diffidenza degli increduli, ripete più volte il miracolo. Tutti lo acclamano e lo fanno capo dei loro giochi. Produrrà tanti animaletti, uno diverso dall’altro, e li farà volare fra l’entusiasmo generale. Sul più bello arriva il figlio del padrone della città. Si tratta di un ragazzo molto presuntuoso e arrogante, che non tollera di essere escluso dai giochi. Aiutato dai suoi giannizzeri interviene con una frusta, distrugge tutto quello che c’è del gioco, i bambini scappano e lui rimane il padrone della scena. Gesù Bambino non scappa. Chiama il padre, Dio, che, un po’ irritato, si affaccia dal cielo fra le nubi. Perché mi chiami? Gesù Bambino fra le lacrime racconta il fattaccio e chiede al padre di ammazzare il prepotente. No, risponde Dio. Io ti ho mandato sulla Terra per fare in modo che gli uomini si amino, non certo per vendette di questo genere. E se ne va. Ma Gesù Bambino non si accontenta, fa una ripetizione all’incontrario dei miracoli del gioco: trasforma il bambino prepotente in creta. Ecco, quello che in un primo tempo sembrava essere dalla parte della ragione, diventa improvvisamente torto. Gesù Bambino non viene applaudito, anzi viene abbandonato dai suoi amici, perché il suo miracolo è considerato opera del demonio, non certo di Dio. La mamma, allora si avvicina al Bambino Gesù, e con grande dolcezza lo convince a ridare la vita all’immagine di creta, ricordandogli che non è la vendetta che ci si aspetta da lui, ma il perdono.

Il terzo monologo parla di Dedalo e Icaro. Fo ci ricorda che nella versione comune, Icaro indossando ali attaccate al suo corpo con la cera, prende il volo, si sente un essere superiore e nonostante l’avviso del padre di non volare troppo alto, la sua presunzione lo porta ad avvicinarsi al sole. Ma il calore che il sole promana scioglie la cera con cui sono attaccate le ali e Icaro precipita morendo. Morale insegnata dalla storia: non bisogna mai tentare l’impossibile. È meglio rimanere sempre nel conosciuto, nelle regole che ci sono state date.
Ma questa, dice Fo, non è la vera storia. È la storia addomesticata come la racconta il potere, che non vuole che la gente abbia il coraggio di tentare nuove strade.
La vera storia è un’altra, e ha inizio nel labirinto dove Dedalo e Icaro sono stati rinchiusi. Dedalo, è un grande architetto, ha fatto una lunga serie di invenzioni che hanno aiutato l’umanità a evolversi e progredire, come la vela triangolare, la chiglia delle barche, la ruota dei ulini ad acqua, etc. Fra le sue invenzioni c’è appunto il labirinto e la cosiddetta machina dell’amore. Di fatto questa macchina non era altro che l’immagine di una vacca così bella e così verosimile che un toro, il toro sacro della corte di Cnosso a Creta, ha avuto con essa un rapporto carnale. Ma nella statua della vacca c’era la regina, Pasife, che, innamorata del toro, voleva far sesso con lui. Da questo rapporto nacque un essere mostruoso, il Minotauro, e per questo Dedalo e figlio furono rinchiusi nel labirinto.
Ora i due, per sopravvivere, devono cercare di uscire, e dopo vari tentativi infruttuosi, riescono a farlo catturando con un sistema di specchi un grande numero di uccelli, e costruendo con le loro piume le ali che serviranno. E così avverrà. E i due volando raggiungeranno una città bellissima dove Icaro vorrebbe atterrare. Ma la città è in subbuglio, eserciti si scontrano, uomini impiccati pendono dalle mura. No, non si può atterrare in quella città, è pericoloso, la violenza domina. Ci si dirige allora verso il mare e si raggiunge un’isola. Questa sembra bella e invitante, ma anche qui ci sono le tracce della violenza. Uomini impiccati pendono dagli alberi. Ma, padre, chiede Icaro, possibile che sulla terra, nelle città e nelle isole domini dappertutto la violenza? Io vorrei trovare un posto dove si vive tranquilli e felici. No, figlio, gli risponde il padre. Questo posto non c’è, lo dobbiamo costruire noi, “farlo con le mani dentro il fango… dentro al sangue… dentro la merda… noialtri dobbiamo farlo, noi! e non scappare dentro ai sogni nella speranza di trovare isole!” Ma Icaro non ci sente. Il desiderio è quello di entrare e rimanere nei sogni, dove c’è la felicità, e così vola, vola alto, sempre più alto, finché il sole scioglierà la cera che tiene le ali attaccate al corpo. E Icaro, con la morte, raggiungerà il sogno che desiderava.

I tre monologhi, recitati con l’inimitabile stile di Fo, con l’immaginazione che il suo dialetto, la sua lingua è capace di creare, portano tutti un senso di grande valore: l’umanità come fonte di creazione, di pensiero, di amore, di morale che le vicende della vita tendono invece a ferire e a contraddire.

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