LA POESIA

 
 
 
 
 
 

  Sparsa le trecce morbide

sull’affannoso petto,

lenta le palme, e rorida

di morte il bianco aspetto,

giace la pia, col tremolo

sguardo cercando il ciel.

  Cessa il compianto: unanime

s’innalza una preghiera:

calata in su la gelida

fronte, una man leggiera

sulla pupilla cerula

stende l’estremo vel.

  Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

fuor della vita è il termine

del lungo tuo martir.

  Tal della mesta, immobile

era quaggiuso il fato:

sempre un obblio di chiedere

che le saria negato;

e al Dio de’ santi ascendere,

santa del suo patir.

  Ahi! nelle insonni tenebre,

pei claustri solitari,

tra il canto delle vergini,

ai supplicati altari,

sempre al pensier tornavano

gl’irrevocati dì;

  quando ancor cara, improvida

d’un avvenir mal fido,

ebbra spirò le vivide

aure del Franco lido,

e tra le nuore Saliche

invidiata uscì:

  quando da un poggio aereo,

il biondo crin gemmata,

vedea nel pian discorrere

la caccia affaccendata,

e sulle sciolte redini

chino il chiomato sir;

  e dietro a lui la furia

de’ corridor fumanti;

e lo sbandarsi, e il rapido

redir dei veltri ansanti;

e dai tentati triboli

l’irto cinghiale uscir;

  e la battuta polvere

rigar di sangue, colto

dal regio stral: la tenera

alle donzelle il volto

volgea repente, pallida

d’amabile terror.

  Oh Mosa errante! oh tepidi

lavacri d’Aquisgrano!

ove, deposta l’orrida

maglia, il guerrier sovrano

scendea del campo a tergere

il nobile sudor!

  Come rugiada al cespite

dell’erba inaridita,

fresca negli arsi calami

fa rifluir la vita,

che verdi ancor risorgono

nel temperato albor;

  Tale al pensier, cui l’empia

virtù d’amor fatica,

discende il refrigerio

d’una parola amica,

e il cor diverte ai placidi

gaudii di un altro amor.

  Ma come il sol che reduce

l’erta infocata ascende,

e con la vampa assidua

l’immobil aura incende,

risorti appena i gracili

steli riarde al suol;

  ratto così dal tenue

obblio torna immortale

l’amor sopito, e l’anima

impaurita assale,

e le sviate immagini

richiama al noto duol.

  Sgombra, o gentil, dall’ansia

mente i terrestri ardori;

leva all’Eterno un candido

pensier d’offerta, e muori:

nel suol che dee la tenera

tua spoglia ricoprir,

  altre infelici dormono,

che il duol consunse; orbate

spose dal brando, e vergini

indarno fidanzate;

madri che i nati videro

trafitti impallidir.

  Te dalla rea progenie

degli oppressor discesa,

cui fu prodezza il numero,

cui fu ragion l’offesa,

e dritto il sangue, e gloria

il non aver pietà,

  te collocò la provida

sventura in fra gli oppressi:

muori compianta e placida;

scendi a dormir con essi:

alle incolpate ceneri

nessuno insulterà.

  Muori; e la faccia esanime

si ricomponga in pace;

com’era allor che improvida

d’un avvenir fallace,

lievi pensier virginei

solo pingea. Così

  dalle squarciate nuvole

si svolge il sol cadente,

e, dietro il monte, imporpora

il trepido occidente:

al pio colono augurio

di più sereno dì.

 

 

Alessandro Manzoni, (da ADELCHI - Coro, 1822)

MORTE DI ERMENGARDA

di Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni, sabato 9 febbraio 2013

 
 
Realizzato con un Mac
successivo  
 
  precedente