LA SOGLIA DEL VISIBILE

 
 
 

La pittura di William Xerra come rappresentazione del limite e come limite della rappresentazione


Le opere con cui Xerra ha dato avvio alla propria produzione matura sono state caratterizzate dal fatto di situarsi al punto d’incrocio tra ricerca letteraria e pittorica, tra scrittura e casualità, in un contesto in cui, come è noto, simili travalicamenti dei territori disciplinari venivano proposti e tentati da molti artisti, tra i quali giova ricordare, in questa sede, quelli emiliani in contatto con lui: Spatola, Costa, Parmiggiani e, in diverso ambito di sperimentazione intermediale, Vicinelli. Chiarire come queste esperienze siano state assimilate e decantate da Xerra, spiegare come la sua opera abbia imboccato vie sempre nuove rimanendo fedele a una problematica rimasta sostanzialmente inalterata nel tempo, e cogliere le ragioni per cui egli ha vissuto la crisi della pittura senza volerne uscire con stratagemmi meramente letterari o concettuali: ecco le questioni, interdipendenti, con le quali occorre misurarsi per avvicinarsi al nucleo della sua poetica e individuare la linea di continuità e coerenza sottesa al suo procedere.

Tralasciando la fase postinformale giovanile, dettata dalle circostanze esterne ben più che da un’intima adesione alle ragioni dell’informale o del suo superamento, il vero inizio dell’attività creativa di Xerra coincide, a nostro giudizio, con la sperimentazione negli anni Settanta della pratica del “vivere”, ossia con l’adozione della scritta tipografica convenzionale usata per tornare a un significato precedentemente cancellato. Le prime realizzazioni in questa direzione, eseguite con pagine tipografiche scartate, sfruttano la doppia valenza, scritturale e visiva, della pagine stampata ed esemplificano, da una parte, il persistente rapporto con l’area di ricerca intermediale sopramenzionata, e, dall’altra, l’esigenza di sottomettere un materiale ready-made, semiologicamente casuale, a un approccio concettuale in grado di riscattarlo. La “freddezza” dell’intervento concettuale affiora anche nei tre “poemi-flipper” realizzati con Corrado Costa nel 1972 e presentati da un testo in cui Emilio Villa, bramoso di minare i poteri del Logos, non perde l’occasione per intonare un inno a una parola “sovraccarica di precessioni di discrepanze di sottrazioni”.

In realtà l’aspirazione dionisiaca e irridente è – e probabilmente sempre sarà – estranea a questo artista: a una testualità frammentata e in parte dettata dal caso, dove riconosciamo soprattutto il tocco di Costa, si contrappone un gusto dell’ “impaginazione” in cui si può individuare la mano di Xerra, che trattiene il gioco letterario entro limiti di esigenze compositive.

Diversamente impostati appaiono i suoi interventi operati, ancora nel 1972, su lapidi funerarie dismesse, sulle quali egli tra l’altro sostituisce alle tradizionali immagini dei defunti uno specchietto in grado di riflettere l’immagine dell’osservatore. In questa occasione Xerra, che in quegli anni evidentemente si sente a suo agio nell’elaborare i fattori mentalistici del fare artistico esaltati da Duchamp in polemica con le procedure pittoriche tradizionali, riprende la tecnica del ready-made adattandola ad un ambito di ricerca, rivelatosi a lui particolarmente congeniale, che consiste nel sospendere un evento tra l’atto della sua assentazione e quello della sua restituzione. Nella fattispecie egli spiazza le aspettative dell’osservatore mettendolo di fronte a una situazione perturbante, a un’inattesa oscillazione, suffragata dalla percezione materiale, tra estrazione e partecipazione al senso di un’opera alla quale il fruitore impresta le proprie reazioni.

Negli stessi anni la stessa oscillazione ritorna, miniaturizzata ma suggestiva nella sua disadorna essenzialità, nella piccola serie di collages chiamati Amori, dove Xerra per lo più si limita a ritoccare vecchie fotografie di coppie in atteggiamenti affettuosi ritagliando le figure femminili, al cui posto rimane una sagoma vuota: nello scarto tra il personaggio maschile e l’oggetto della sua attenzione viene insinuata l’ombra di un desiderio destinato ad essere deluso, o a rivelarsi desiderio di ciò che non esiste, viene frapposto un velo di spleen destinato, come vedremo, a costituire un tratto saliente delle opere più esemplari dell’autore.

Nello happening della Verifica del miracolo, del 26 ottobre 1973, si può intuire una blanda ironia nei confronti di una spettacolarità miracolistica di cui il nostro paese è prodigo produttore , ma il senso primario dell’allestimento (almeno per quanto riguarda l’artista, visto che il cielo non si espresse) è ancora incentrato sul rapporto tra presenza e assenza dell’“oggetto” e sulla collaborazione dei convenuti, la cui assorta attesa dà casualmente all’evento un tocco beckettiano.

La personale scoperta alla quale Xerra si sta avviando, e che apre la strada alle sue successive sperimentazioni, è la constatazione che la precarietà dell’immagine devozionale non risulta inferiore a quella dell’oggetto della visione profana o, se si vuole, dell’epifania, nella accezione joyciana, di una esperienza quotidiana.

Nel corso di pochi anni la pratica del “vive” trova altre applicazioni, si giova dell’apporto di materiali eterogenei, amplia l’orizzonte concettuale inizialmente appena sfiorato e origina effetti che conseguono anche dalla suggestione di immagini, o frammenti di immagini riportate sulle tele e alle quali la scritta attribuisce una portata inattesa. Pierre Restany, cui spetta il merito di aver subito identificato le potenzialità introdotte da quel “vive”, colse la varietà dei registri cui si apriva l’operazione, che riguardava, oltre l’orizzonte semantico, una mobilità spaziale poi rimasta “costante operativa del linguaggio di Xerra” (1991). Dato che il “vive” si presta ad essere applicato a tutto ciò che è stato rimosso, cancellato o dimenticato, e dato che proprio alla dimensione mestica e coscienziale dell’arte di Xerra presta particolare attenzione, il suo spazio acquista, più precisamente, il dinamismo e le rarefatte sfumature di un teatro interiore, dove interno ed esterno, evento passato ed evento attualizzato si intrecciano in una struttura alla quale è inerente un tenace pathos della distanza. La mobilità spaziale è proporzionale a quella dell’oggetto.

All’inizio c’è dunque il “vive”, il cui senso però si rivela presto iperdeterminato, come si può constatare nell’opera, del 1975, in cui l’autore fa rivivere le cancellature di Man Ray e Isgrò introducendo una dimensione enigmistica dal momento che la scrittura salvifica evoca, oltre ai due citati, anche la realtà, ormai fantasmatica, cancellata dai due, e dunque ancora la fruizione dell’opera a una serie di rinvii speculari, a un senso finale dell’operazione sempre differito e, in ultima analisi, indecidibile. Se dal punto di vista del cosiddetto realismo pittorico, la pratica originaria della cancellatura indicava una inversione (dall’opera piena verso il silenzio e il nulla), resta da chiarire se, di questa inversione, Xerra realizza una continuazione oppure una inversione ulteriore. Questo probabile secondo approdo merita qualche osservazione. La “cosa” sulla quale avevano operato i due predecessori può essere considerata carica di una specie di fascino ambiguo, impreziosita proprio dal fatto di essere nascosta, piuttosto che cancellata, come il “tesoro del bambino” che, secondo lo psicanalista Bela Grunberger, sussiste in quanto elude ogni processo relazionale. Xerra doppia i predecessori in quanto, attraverso la citazione, mira anzitutto a preservare la posizione della “cosa” originaria, che resta inaccessibile e “vive” di una differente vita. Si configura così il nucleo della poetica che egli non cessa di rielaborare nelle maniere successive, quando adotta tecniche e materiali disparati e tuttavia lascia in sospeso l’identità dell’oggetto evocato, collocandosi in quello che ormai è diventato il filone saliente dell’arte del nostro secolo (che va da Man Ray a Manzoni e oltre, dove la “cosa” è presente-ma-assente). I tropi della mancanza saranno rimodellati e raffigurati, ma la strategia resterà immutata perché troverà puntualmente il suo perno in un acuto senso dell’assenza e della perdita.

L’eterogenicità dei materiali e delle maniere necessarie a Xerra per evocare l’oggetto mancante concorre a spiegare uno degli aspetti più singolari della bibliografia relativa alla sua opera, ovvero il fatto che questa abbia attratto la benevola attenzione di critici di diverso orientamento, tutti interessati alle sue inclinazioni sperimentali, efficaci nelle realizzazione anche se enigmatiche nei presupposti. Già nella prospettiva fin qui illustrata si è accennato al ricorso a elementi pittorici, matrici, plastici, scritturali, spesso sovrapposti dato che l’artista ebbe presto l’accortezza di far saltare le paratie tra le parole, icone e segni ottenendo, tra l’altro, il risultato di offrire spunti a letture diverse: nello stesso “vive”, interdipendente rispetto alla portata concettuale della scritta, sussiste spesso una componente segnica e pittorica, ma in altre opere può essere considerata eminente la valorizzazione del ready-made, della tecnica pittorica (soprattutto a partire del 1982), o della performance, o della specializzazione delle proiezioni geometriche entro le quali viene collocato l’oggetto paradossale. Lo sguardo critico può, insomma, compiere una scelta di campo, prediligere uno di questi aspetti nei confronti di altri, ma la complessità del percorso compiuto dall’artista fino ad oggi ci permette di rilevare che, in ogni caso, egli evita di imporsi una rigida scelta tecnica e preferisce, semmai, occuparsi delle possibili libere interconnessioni tra i diversi campi d’intervento su oggetti che la rappresentazione artistica riesce solo ad accennare o lambire. Gli si potrebbe addirittura attribuire, quanto alla varietà delle maniere, una ripresa del mitico babelico della confusione delle lingue, ma solo nella misura in cui la sua opera sottintende la ricerca di qualcosa che, resistendo ai poteri della rappresentazione, non ha ancora trovato, e continua a cercare, la lingua in cui possa essere espresso. Malgrado le notevoli differenze materiali tra le opere menzionate, l’oscillazione permane e a essa è riconducibile l’assenza che in esse aleggia e ritorna sotto rinnovate spoglie. Anche la serie di opere intitolate Idea di luogo, che risale alla fine degli anni Settanta, adotta l’immagine fotografica, e dunque formalmente imbocca una diversa direzione di ricerca più obiettivistica, ma in sostanza traccia uno spazio che è anche un luogo assente, un’utopia. E tale genere di paesaggio interiore ritorna in altre opere dove un luogo determinato (per esempio i Sassi di Matera) viene considerato da un punto di vista che lo proietta in una dimensione distante, quasi onirica, anche se l’immagine fotografica, che infatti presto Xerra abbandona, con i suoi ingombranti connotati tecnologici e realistici tende a frenare la portata dell’esperimento.

Tra le opere che coincidono con spunti di svolta particolarmente significativi nella sperimentazione di questo artista una posizione di rilievo spetta al dipinto La malinconia, del 1983, dove, tra l’altro, si manifesta il ritorno alla pittura, rimossa negli anni precedenti, e riattivata dal contatto con un mercato dove le sopraffazioni ideologiche hanno aperto la porta ad ogni genere di compromesso amatoriale con l’arte iconica. Si tratta di una reazione né solitaria né azzardata, perché laddove il lavoro concettuale può ritirarsi verso un proprio spazio puramente eidetico, che può anche corrispondere alla vacuità assoluta e comunque resta inaccessibile al pennello, la cattiva pittura ha risvegliato in molti un interesse critico per le potenzialità, infinitamente prolifiche, della tecnica pittorica.

Con mossa implicitamente polemica nei confronti della moltitudine dei cloni di Duchamp, fieri di occupare una terra desolata ormai priva, oltre che di segni di vitalità, di punti di riferimento teorici forti e persino capacità di produrre scandalo, Xerra sceglie dunque la via di una rivalutazione dei valori pittorici e sensuali, con sperimentazioni sia nell’area di quella pennellata decisa, e talora violenta, i cui fasti ufficiali risalgono a quell’informale al quale originariamente si era sottratto, sia, con maggior continuità, nell’area, a nostro giudizio più rispondente alla sua sensibilità, della pittura tonale, alla quale si dedica con particolare successo. Tuttavia, lasciate alle spalle le esperienze, per certi versi fruttuose, delle trasgressioni avanguardistiche, in Xerra la fine dell’anacoresi antipittorica coincide, in ultima analisi, con un ritorno non alla rappresentazione immediata bensì alla problematica dell’assenza-nella-presenza, questa volta affrontata appunto per via pittorica.

Nel dipinto La malinconia, altamente significativo del filo di continuità che corre tra le opere più concettuali e quelle decisamente pittoriche, oltre all’accennata rivisitazione di un luogo e di un’atmosfera cara ai rovinisti, e al maggior spazio concesso alla tecnica pittorica, si coglie soprattutto l’allusione all’inafferrabilità dell’oggetto. Da un orizzonte ipertrofico come quello occupato dalla grande tradizione pittorica italiana Xerra si limita a scegliere una tenue citazione che diventa emblematica, al contempo, di un nuovo interesse per il passato e di una messa a fuoco di una poetica.

Con il ritorno alla pittura si precisa la natura paradossale di un’arte che presuppone un vuoto al centro della rappresentazione e tratta la superficie, il segno e la citazione in quanto sostituiti da un oggetto indispensabile quanto impossibile. La costruzione del quadro fa da schermo, da momentaneo rimedio e supporto, all’assenza dell’oggetto che “vive” nel quadro. Xerra è essenzialmente un pittore consapevole di doversi accontentare delle tracce di ciò che sfugge, e il cui oggetto parziale non può che presentarsi accennato, distante, sfumato in una composizione analoga alla musicalizzazione letteraria. Alle origini delle sua maniere, mutevoli e collocabili in serie metonimiche potenzialmente infinite, agisce sovrana la malinconia, figlia di un temperamento che Gustav Hocke avrebbe definito “naufragante”, ma anche della condizione culturale in cui oggi sopravvive la pittura, dove l’immagine si dà solo come limite in direzione dell’impossibile, o come segno dell’ignoto, o come rimpianto di un rapporto più diretto e pieno con la realtà.

Xerra torna ciclicamente alla pittura iconica per soddisfare le proprie esigenze citazionistiche, in genere per cogliere il particolare che gli serve come spunto per colloquiare con un passato appena accennato e subito ridotto a sfondo, ma almeno in un caso ha inseguito il suo fantasma pittorico fin dentro il territorio accademico. Il rifacimento da lui proposto del celebre Cristo del Mantegna rappresenta un omaggio di ostentata bravura a un modello al quale l’artista si avvicina con ammirazione non tanto per colmare una distanza attraverso l’emulazione quanto, al contrario, per esibire la coscienza di una tardività con la quale è difficile convivere. Siamo di fronte a un esempio di pittura sulla pittura che, in quanto tale, presuppone tanto la partecipazione quanto il distacco e porge, ancora una volta, lo specchio a una realtà che non si lascia catturare. Nel produrre questo singolare hapax pittorico, Xerra sa bene di trovarsi nella situazione di chi ricorre a una lingua morta, e pone una questione che non si esaurisce nell’esercitazione formale.

L’elaborazione originaria del lutto religioso è tradotta nei termini di una tardività laica: premesso che sulla scia del simbolo religioso è morta anche la pittura che un tempo poteva affrontare vittoriosamente l’oggetto, nutrirsi di quella religio, comunicare certezze condivise, l’artista batte il sentiero di una elazione estetica sorretta da una istanza trascendente ma da una condizione storica che conosce la nostalgia dell’opera d’arte. Per evitare suggestioni salvifiche di un genere che gli è estraneo, ovvero, come dice il celebre apologo zen, che qualcuno confonda il dito con l’oggetto indicato dal dito, questa volta Xerra rinuncia a imprimere il suo “vive” sul dipinto, ma è evidente che il suo sguardo ammirato si è posato su una impossibilità con la quale gli è indispensabile misurarsi. L’eccellenza del passato viene recuperata nella coscienza della distanza che occorre riconoscere per ritrovarsi.

Il telaio interinale, adottato da Xerra a partire dal 1975, evidenzia i limiti dell’area entro la quale è realizzata un’opera ormai essenzialmente pittorica, anche se memore dei suoi trascorsi, di esperienze passate che ingloba in una prospettiva più comprensiva. Limiti ambigui, perché annunciano e incorniciano eventi evanescenti, in una certo senso provvisori come la tela che li ospita, spesso sfumati dalle tonalità azzurrine che Xerra predilige. Le belle apparenze non liquidano la questione dell’oggetto, ma neppure la contraddicono, con la conseguenza che, benché i referenti messi in gioco in queste tele rimangono elusivi, in esse spiccano elementi di seduzione, spazi riservati a delicati cromatismi, pennellate che esaltano una materia ricca di spessori, lavorata, talora sontuosa e, nei formati più grandi, baroccamente teatralizzata.

Insieme con la riconquista della pittura ha luogo quella della materia nuda, e in particolare della tela grezza, dal cui impiego l’artista era stato inibito, con ogni probabilità, dall’ombra possente di Burri, che con le sue innovazioni aveva generato “angoscia dell’influenza” in un’intera generazione. Che Xerra abbia vinto, in questa direzione, ogni riverenziale titubanza, dopo l’inevitabile periodo di latenza del confronto con il predecessore, è dimostrato dalle opere in cui assume in proprio la materia più tabuizzata, quella del sacco (a volte con le stampigliature industriali originarie evidenziate), con un atto di adozione e adattamento analogo a quello col quale egli è solito estrapolare frammenti delle tele antiche. Messa in rapporto con i colori che Burri evitava, quella materia diventa ora citazione e torna a far parte dello sfondo di una dipinto.

L’attuale approccio di Xerra alla pittura non pretende di costituire il rimedio sovrano contro la possibile eclisse di un’arte fra le più antiche, bensì è un modo di rapportarsi all’oggetto, di trattenerlo entro la portata del sensibile e delle pulsioni vitali, di saggiare una via per superare una delle crisi che il pensiero ha dovuto saltuariamente affrontare e che la pittura, incassati gli inevitabili contraccolpi, fino ad ora ha saputo rintuzzare.

Le incertezze, le ombre malinconiche e le delicate inquietudini che accompagnano i piaceri della visione situano l’arte di Xerra molto lontano dai terrorismi avanguardistici, strumenti spuntati e inflazionati, oggi “garantiti” da quel mercato che si illusero di abbattere, e molto lontano dalla vociferazioni programmatiche con le quali nel nostro secolo si è tentato, con patetico sotterfugio, di sottrarsi al confronto con le fratture epistemologiche scoperte nel nostro sapere. In una situazione culturale in cui il linguaggio si trova in difficoltà a dire ciò che accade, o tramonta, o radicalmente si trasforma, Xerra rende plausibile l’ipotesi che la pittura sia profanamente immortale, come i nostri occhi e come la nostra capacità di vedere.


Aldo Tagliaferri, 1995

 

A cura di

Aldo Tagliaferri


WILLIAM XERRA

La soglia del visibile


Ed. Mazzotta, 1995

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1973-1995