MANON, di Massenet alla Scala

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Devo dire subito che, nonostante i miei sforzi, non sono riuscito ad andare alla rappresentazione della Manon di Massenet libero dal condizionamento su di me esercitato dalla Manon Lescaut di Puccini. E la ingombrante presenza dell’opera del Giacomo nazionale ha percorso tutti i cinque atti di quella del compositore francese.

Un confronto. Beh, io ho una fobia particolare per i confronti, che mi sanno sempre di classifiche e quindi di giudizi. Credo che sia noto. Ma questa volta non riesco a farne a meno.

La differenza fra le due opere è enorme, sia dal punto di vista drammaturgico, che dal punto di vista della espressione dei caratteri, come, ovviamente, dal punto di vista musicale. E devo anche dire subito che le mie preferenze vanno all’opera di Puccini. È certamente una questione di gusto, ma credo che anche i gusti abbiano una spiegazione, se non altro nel rapporto che lega l’opera in questione con la cultura di chi la fruisce. Cercherò quindi di capire gli elementi che mi fanno preferire la Manon Lescaut.

Anzitutto il punto di vista. A differenza del romanzo di Prevost, nel quale il protagonista è Des Grieux, che, attraverso il suo amore per Manon, la cronaca delle sue numerose intemperanze, ma anche delle suo contraddizioni, ci svela il suo stato d’animo, nelle due opere la protagonista è Manon. Entrambe le opere fanno perno sul personaggio femminile. Des Grieux è l’obiettivo sul quale si riversano le contraddizioni del personaggio: è certamente fondamentale. Ma non è il perno.

Ma qui finiscono le analogie, e cominciano le differenze.

La Manon di Puccini è un personaggio tragico. Fin dal suo primo apparire la musica che l’accompagna  è una musica che contiene già le premonizioni del suo tragico destino. La sua gioia di vivere una vita in una casa dorata quasi non la percepiamo. Il piacere del lusso è costellato da atti di impazienza, fino alla struggente confessione dell’aria “In quelle trine morbide“. L’incontro con Des Grieux è intriso di sensualità, di gelosia, di diperazione da parte di entrambi. Amore per il lusso e passione per des Grieux si incrociano in modo drammatico, commentati da una musica stupenda, straziante sotto certi aspetti. E infine, gli ultimi due atti sono dedicati alla consumazione della tragedia, nella quale la rassegnazione di Manon ha ancora momenti di ribellione (“Non voglio morire” grida nell’ultimo atto, in quell’aria densa, tristissima e bellissima che è “Sola, perduta e abbandonata“).

A differenza della Manon di Puccini, quella di Massenet è un personaggio frivolo. Fugge con Des Grieux, del quale si è invaghita, ma si comprende che non le sarebbe spiaciuta neppure una fuga con Guillot (il fascino dei bei vestiti delle tre damine). Nel secondo atto è tutta eccitata per il promesso matrimonio, ma riceve fiori da Bretigny e si confonde quando Des Grieux le chiede di chi sono. Deve scegliere fra un vita dorata e una vita d’amore povero. Sceglie la prima. Massenet non ci aiuta a capire quali pensieri, quali sentimenti, la ragazza viva. Tutto viene affidato a una romanza “Adieu notre petite table” che non va oltre un rimpianto, presto soffocato dall’attesa di una bella vita. Tutto quello che è capace di dire è “Povero cavaliere!” alla fine dell’atto.

Il terzo atto ci mostra Manon nel suo orgoglio di bella donna e corteggiata, fra la folla. I couplets ne sono l’espressione più luminosa. Qui il virtuosismo vocale sta per felicità, per gioia di vivere (come anche le parole dicono). Certo, poi c’è la corsa a Saint Sulpice, per cercare l’amante e ottenerne il perdono. E qui c’è una splendida scena di seduzione, di una grandissima sensualità, tanto più che si svolge in una chiesa. La scena potrebbe richiamare quella della fine del secondo atto della Manon Lescaut. Ma la differenza è enorme. Là il confronto è drammatico, la sofferenza di des Grieux e di Manon si incrociano senza un attimo di respiro. La musica in ogni momento ci richiama le sofferenze della passione contrastata, in Manon dall’amore per il lusso, in des Grieux dalla paura (“Ah, Manon, mi tradisce il tuo folle pensiero“). Qui invece quello che emerge in primo piano è la sensualità con la quale Manon seduce Des Grieux, che non ha altro da fare che schierarsi dietro la scelta religiosa, finché le sue difese crolleranno.

Nell’opera di Puccini, gli ultimi due atti sono dedicati alla consumazione della tragedia. Anche qui una grande differenza con Massenet. Puccini impiega due atti per sviluppare lo sconvolgimento dei sentimenti. Come non sentire profondamente, nella carne, direi, la disperazione di des Grieux davanti alla nave che deve trasportare Manon in America? Tutta la sequenza dell’appello: qualcuno l’ha voluta paragonare a una sfilata di moda. Io la trovo una scena stupenda, con la voce solitaria che chiama le deportate, emergendo di volta in volta da un coro drammatico nel quale pietà, derisione, sofferenza, si intrecciano strettamente. Sembra quasi uno scandire del tempo del destino. Tutto questo in Massenet non c’è. Nella Manon di Massenet la tragedia si consuma nella seconda metà del quinto atto.C’è la scena del gioco, altro omaggio alla leggerezza e alla futilità di Manon. E poi la scena della morte, la conclusione drammatica, ma, che non preceduta da tutta quell’analisi dei sentimenti che Puccini ha realizzato negli atti precedenti, non porta a commozione. O almeno, io non ho sentito alcuna commozione.

La musica. La musica di Massenet è molto ricca. L’orchestrazione  è variata, usata con ricchezza di timbri e di colori. Bellissima certamente quella citazione del barocco francese che si ha alla fine del primo quadro del terzo atto, quando vi è la rappresentazione dell’Opera. Vi è grande varietà anche di forme musicali: arie, couplets, assiemi (ben costruito ad esempio il terzetto delle damine nel primo atto), cori, e molti melodrammi (parlato con il sottofondo musicale). Insomma una musica varia che non annoia mai e tiene desta l’attenzione. Ad esempio nei couplets di Manon del primo, quadro del terzo atto, vi è un accompagnamento di legni, molto ironico e divertente. Le due arie del secondo atto: “Adieu notre petite table ” e il “sogno” di Des Grieux, sono certamente delle arie molto belle, e se ben cantate, veramente emozionanti. Direi che tutta la musica qui è elegante, frutto di una grande abilità, e anche di qualche colpo di genio.

La musica di Puccini forse è un po’ più elementare, in quanto ad elaborazione, ma quanto più diretta ad esprimere i caratteri dei personaggi, i loro pensieri, le loro sofferenze!

La rappresentazione. Scenograficamente il regista, Nicolas Joel, ha ricostruito un clima settecentesco decadente  che richiama le pitture del rococò francese. Non si può non pensare ai Fragonard, ai Watteau, ai Boucher. In questo, complici anche dei costumi molto belli.

Il colore prevalente è il chiaro, e molto delle sottolineature sceniche è stato dato all’uso della illuminazione, quasi sempre laterale, con effetti di luce radente. Non c’è affollamento di suppellettili. Le scene contengono solo l’essenziale, ma sono complete, non danno mai la sensazione dell’ambiente spoglio. Molto intelligente anche la tecnica del completare la parte anteriore del palcoscenico, occupata da formazioni architettoniche (colonne corinzie, pilastri, archi), con uno sfondo dipinto, per la verità molto bene, tale da dare l’impressione di spazi molto grandi. Le scene sono di Frigerio, che è stato per anni scenografo di Strehler, e indubbiamente la sua mano si nota molto bene. Quindi si tratta di una scenografia tradizionale, molto ben fatta, piacevole a vedersi.

L’esecuzione musicale. Io ho trovato che sia Sabbatini che la Gallardo Domas hanno interpretato bene le loro parti. Non entro nel merito delle loro voci (ci sarà chi molto meglio di me lo saprà fare): tuttavia la Gallardo Domas ha una voce bella ma ho l’impressione che non sempre riesca a controllarla. È un po’ la stessa impressione che ho avuto nell’ascoltarla nel Faust di Gounod. Sabbatini ha una voce molto delicata (il sogno lo ha cantato molto bene) ma non particolarmente forte, per cui nei duetti con la Domas, veniva  forse un po’ troppo spesso coperto. E altrettanto dicasi per l’orchestra.

La direzione orchestrale a carico di Gary Bertini: me la caverò con poche parole. Se nella Manon di Massenet vi è del pathos, della sofferenza, dell’emozione, essa non è mai venuta fuori. Almeno io non l’ho mai provata.  Forse era giusto così.

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