LES DIALOGUES DES CARMÉLITES, alla Scala

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Vedere i Dialoghi delle Carmelitane e’, e per me e’ stata, una emozione indescrivibile. Certamente non ci si puo’ avvicinare a questa opera senza avere provveduto ad un minimo di informazione. La lettura del libretto, certamente; ma eventualmente, anche della stessa opera di Bernanos. Qualcuno potrebbe obiettare che ogni lavoro dovrebbe avere in se’ tutto il necessario per essere compreso. E’ questo e’ vero. Ma nell’opera di Poulenc-Bernanos c’e’ un tale impegno, una tale profondita’ di pensiero, che l’animo deve essere gia’ predisposto ad accoglierne tutte le implicazioni.

In quest’opera non esiste un intreccio nel senso classico del termine. 
Non e’ un’opera che si propone di intenerire lo spettatore sulle 
gratuite crudelta’ della rivoluzione francese e del terrore in 
particolare. A torto Isotta, in una sua breve intervista alla radio, in 
occasione della prima, e’ uscito con l’espressione “E’ meglio morire con 
una pezza nera sul capo che vivere con un berretto frigio”. Questa 
alternativa non ha nulla ha che fare con l’opera, ed e’ frutto di una 
lettura superficiale, e quindi errata. 
Il racconto, se cosi’ si puo’ chiamare, e’ tutto interiore. Il percorso 
dell’animo umano lungo l’accidentato itinerario necessario per risolvere 
i due misteri piu’ grandi dell’esistenza: la fede e la morte, e il 
rapporto che li lega. E Bernanos scava in profondita’ alla ricerca di 
questo rapporto, e inevitabilmente emergono come elementi chiave 
l’universalita’ del valore della preghiera e la grazia, sua figlia 
diretta, e il loro controaltare: l’orgoglio e il disprezzo di se’, due 
facce della stessa medaglia. 
Tutto questo e’ espresso in un modo cosi’ problematico, cosi’ “umile” 
che anche un non credente non puo’ non sentirsi coinvolto ed essere 
indotto a riflettere.

Poulenc traduce questo in una musica densa, che scolpisce a tutto tondo 
personaggi e situazioni, traducendo i profondi concetti espressi nelle 
parole in emozioni dell’animo. Quale migliore eloquenza di questa? Si 
pensi alle sussultanti e nervose musiche che accompagnano le angosce e 
le paure di Bianca all’inizio, nella discussione con Constance, e 
soprattutto nella scena dell’incontro col fratello o nella scena 
terribile dell’incontro con Mère Marie nella devastata casa del padre. E 
proprio Suor Constance, con la sua incoscienza profetica, la sua 
indifferenza davanti alla morte (se la vita e’ bella, anche la morte lo 
e’), e’ l’altra sponda delle angosce di Blanche, sponda alla quale ella 
approdera’ in un finale di suprema dolcezza (la passacaglia del Salve 
regina e’ di valore assoluto), quando andra’ in contro alla morte con 
l’animo di chi, attraverso le indicibili tribolazioni, finalmente ha 
trovato la verita’. Poi l’apparente contrasto fra le razionali e dense 
di fede (ma anche comprensive della debolezza umana) espressione di M.me 
Croissy nel parlatorio, e l’angoscia straripante della sua agonia, nel 
cui terrore viene coinvolta anche Blanche, viene espresso con le piu’ 
forti dissonanze. E ancora, il carattere fermo, equilibrato, ricco di 
fede raggiunta attraverso il buon senso di M.me Lidoine, Poulenc lo 
esprime in modo molto tonale (la sua e’ la parte considerata piu’ 
”verdiana” dell’opera).

Si dice che Poulenc abbia raccolto stimoli da diversi compositori, 
sicuramente Debussy (non riuscirei ad immaginare un Dialogues, senza il 
Pelleas, pur essendo le due opere molto diverse come sapore), ma anche 
Verdi, Musorgskij, e lo stesso Stravinskij. Ma se tutti questi autori 
hanno rappresentato per Poulenc degli stimoli, l’opera e’ sua, l’autore 
dei mottetti, l’uomo di fede, il soggetto di tutte le angosce che 
ritroviamo nell’opera. Ma l’opera, secondo me e’ anche di Bernanos, 
l’autore della ricerca, della fede vissuta non come manifestazione 
d’orgoglio, di superiorita’ personale, ma come espressione di 
appartenenza all’umanita’.

L’esecuzione scaligera. Qualcuno, molti mi contraddiranno, adducendo 
errori qual e la’. Puo’ darsi e non entro nel merito. Il fatto e’ che ho 
seguito, senza accorgermi del passare del tempo, ogni momento 
dell’opera. 
Anzitutto la regia. Mi sono fatto questa idea: le idee sono inversamente 
proporzionali alla quantita’ di oggetti presenti in palcoscenico. A 
partire fin dal primo momento la rivoluzione francese e’ presente. Una 
folla di persone riempie lo spazio scenico, lasciando libero un piccolo 
spazio dove c’e’ la poltrona del marchese, nel suo incontro col figlio. 
La rivoluzione francese e’ incombente, e’ il panorama generale in cui si 
svolge la vicenda. In molte scene la folla rappresenta l’ambientazione. 
Il regista apprezza e segue perfettamente le indicazioni di Bernanos: 
non un giudizio sulla rivoluzione. Ma la rivoluzione come stato estremo 
in cui si liberano le riflessioni delle monache (e quelle di Bernanos e 
di Poulenc). La geometria dei movimenti, l’uso dell’illuminazione come 
sottolineatura delle diverse situazioni, i cambiamenti di abito delle 
monache (bellissima la loro presenza con gli abiti sontuosi dei grandi 
riti in un filare immobile, che divide il terribile colloquio di Blanche 
con il fratello) che simboleggiano lo scontrarsi dei riti (e quindi 
dell’orgoglio vinto) con le tempeste della realta’, fino alle tuniche 
bianche della scena del martirio.

Vale la pena di soffermarsi un momento su questa scena, realizzata senza 
la minima retorica, senza la minima trucibalderia (neologismo mio), ma 
in tono deliziosamente delicato: le suore in tunica bianca, in una luce 
accecante sono distribuite in uno spazio dalle pareti grigio fumo, in 
basso tappezzate da una folla silenziosa, immobile, ordinata. In questa 
disposizione scenica nasce il loro canto, mimato da un leggero movimento 
di danza, punteggiato dalla terribili sciabolate della ghigliottina, 
mentre una alla volta le suore cadono a terra, quasi inginocchiandosi, e 
il canto via via va affievolendosi, fino a troncarsi due volte sulla 
sciabolata della ghigliottina: quando muore Constance, l’ultima delle 
suore, e poi quando muore Blanche. 
Orchestra meravigliosa, condotta con molto espressione, in modo 
tipicamente teatrale, come gia’ avevo osservato nelle diretta 
radiofonica. Purtroppo in qualche occasione, non molte per la verita’, 
essa copre le voci. La copertura delle voci alla Scala non saprei dire 
se e’ dovuta a una scelta non eccessivamente felice di Muti,  oppure a 
una acustica che, mi convinco sempre di piu’, lascia alquanto a 
desiderare. 
I cantanti sono stati molto bravi. La loro recitazione-canto e’ stata 
piena, molto significativa, in modo da rendere il carattere e gli stati 
d’animo dei personaggi (molto brava Felicity Palmer nel ruolo di M.me de 
Croissy durante la scena dell’agonia). 
Il difetto che mi ha colpito piu’ negativamente (in realta’ meglio 
capito nelle registrazione radiofonica che nello spettacolo dal vivo) e’ 
stata la scadente pronuncia francese di quasi tutto il cast, e 
soprattutto la mancanza di morbidezza che la pronuncia delle parole 
francesi richiederebbe. Ma qualche cosa di storto doveva pur esserci, 
no? 
Ho finito

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