Le Turandot di Puccini e Busoni in rapporto alla fiaba teatrale del Gozzi. Alcune mie considerazioni

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Il recente ascolto alla Scala della Turandot di Puccini, e un precedente ascolto della Turandot di Busoni, mi hanno stimolato a cercare le differenze fra le due opere e il rapporto di entrambe con la fiaba teatrale di Gozzi.

Comunque prima faccio una premessa: la fiaba teatrale al Gozzi è stata ispirata dalla Histoire du prince Calaf et de la princesse de la China, fiaba di origine persiana.

Il tempo in cui la vicenda viene collocata, sulla base di quanto si può arguire dal lavoro del Gozzi, è all’incirca il XIII secolo dopo Cristo, più o meno nel corso della dinastia mongola  degli Yuan (la stessa che incontrò Marco Polo nel suo viaggio). Questa datazione può essere ricavata sia dalle vicende della famiglia del principe Calaf raccontate all’inizio del lavoro, sia dall’attribuzione di Can all’imperatore Altoum, sia dal fatto che l’azione si svolge a Pekino, sede imperiale. Questi particolari riportano ai tempi della dinastia Yuan (anche se il nome della città allora era quello di Khanbalig).

Questa premessa, irrilevante ai fini delle due opere l’ho fatta, perché, per esempio, durante la trasmissione in diretta della Turandot scaligera, ho sentito persone presentate come molto competenti in materia, avanzare delle datazioni molto fantasiose, fra cui perfino il XII secolo a.C.

È noto a tutti che le due opere si differenziano in modo vistoso. La Turandot di Busoni segue in modo molto fedele la fiaba teatrale del Gozzi. In alcune note ho letto che Busoni si sarebbe ispirato anche ad un lavoro di Schiller, che purtroppo non ho trovato e che quindi non conosco. Comunque l’aderenza al testo di Gozzi è molto palese (sia pure con le necessarie abbreviazioni: soppressione, per esempio, di alcune figure, come le ancelle di Turandot, ad eccezione di Adelma, che svolge un ruolo abbastanza importante, di Timur, padre di Calaf, e di altre minori)

La Turandot di Puccini, invece se ne discosta alquanto, non solo sopprimendo, ad esempio le figure delle ancelle di Turandot, Adelma compresa, ma introducendo una figura nuova che nell’opera acquisterà una grande importanza: quella di Liù. Anche nello svolgimento vi sono alcune importanti differenze: quella di maggior rilievo è che nella Turandot di Puccini la principessa non riesce a sciogliere l’enigma propostogli da Calaf (ovvero è Calaf stesso che gli rivela il proprio nome subito prima dell’alba), mentre nella favola di Gozzi e nell’opera di Busoni Turandot, con l’aiuto di Adelma, riesce a carpire il nome. Questa differenza è, a mio avviso, molto importante, perché è legata alla diversa drammaturgia delle sue opere e del personaggio chiave della vicenda, appunto Turandot.

Per prima cosa quindi credo sia giusto vedere le differenze fra le due Turandot. Sia in Gozzi che in Busoni, Turandot è una principessa che ha, alla base del suo carattere, un enorme orgoglio. Respinge il matrimonio perché teme di essere assoggettata a un’altra volontà che non sia la sua. In Gozzi, prima di esporre gli enigmi a Calaf, Turandot gli chiede di recedere. Il suo odio verso l’uomo viene dalla domanda «Perché mai di quella libertà, di che disporre dovria poter ognun, dispor non posso?» Ma, nonostante questo smisurato orgoglio, questa capricciosità di carattere, questa crudeltà che la porta a sacrificare la vita di chi non risolve i suoi enigmi, Turadot resta una donna. E l’immagine di Calaf, quando ella lo vede per la prima volta nel divano, la turba. In Busoni il turbamento è sottolineato in più di un’occasione, ed è necessario che Adelma (che gioca per sé e che si accorge dei tentennamenti della padrona) la stimoli a essere rigida. Ciò permette di capire il cedimento finale della Principessa. Calaf vince la tenzone degli enigmi, e questo per Turandot è inaccettabile. Essa teme di essere schernita, il suo orgoglio non lo sopporta, minaccia il suicidio. Calaf lo capisce, e gli dà una seconda possibilità. Questa volta Turandot vince, e quindi viene a cadere la sua ostinazione. Ella si concederà a Calaf perché ne è innamorata fin dal momento in cui l’ha visto per la prima volta.

In Puccini il quadro è completamente diverso. Turandot non è una donna, ma potremmo definirla un idolo, «cosa umana non sono…». Essa è fredda («Principessa di gelo» la chiama Calaf, «Tu che di gel sei cinta» l’apostrofa Liù). Il suo odio per gli uomini è assoluto. Puccini lo fa risalire a una vendetta di cui Turandot si sente strumento: lo stupro e il suicidio di una principessa vissuta «in questa reggia or sono mill’anni e mille» dovute ad un principe straniero. Non sa che cosa sia l’amore. La risposta di Liù alla sua domanda su che cosa determini in lei tanta forza, la lascia per un attimo incerta: la parola amore per lei non ha significato. La vista di Calaf non determina in lei alcuna emozione. Egli è solo l’avversario da battere in uno scontro mortale. Azari ha reso molto bene questa atmosfera nella sua messa in scena scaligera. Turandot e Calaf si fronteggiano: la vipera che affascina sicura della vittoria, e la preda affascinata. Quasi sullo stesso piano.

Con questa impostazione della figura di Turandot, nasce subito una difficoltà drammaturgica che, credo, sia sostanzialmente alla base delle difficoltà di Puccini a concludere l’opera: perché Turandot cederà? Perché avverrà il disgelo? Non certamente per la vittoria di Calaf negli enigmi. Ma neppure per la sua vittoria nell’ultimo enigma. Si tratta di una vittoria fasulla, solo pro forma. Il cedimento (almeno nel suo interiore) deve avvenire prima. Anzi Calaf la fa vincere perché è consapevole di aver vinto lui.

Qui l’introduzione della figura di Liù avrebbe dovuto svolgere il ruolo fondamentale di sgelare la principessa col suo sacrificio. Ma, mentre questa morte commuove animi come quello dei cortigiani, pur avvezzi agli ammazzamenti, questo in Turandot non avviene, perché  ella «cosa umana non è», e lo prova il suo gesto di stizza. Il disgelo avverrà in altro modo. Come già nel Parsifal, il bacio fra l’uomo e la donna è in grado di determinare una rivoluzione interiore. Turandot si sgelerà per un bacio intenso, sensuale, che le rivelerà il senso profondo e misterioso dell’Amore. Puccini dice testualmente “Gran frase d’amore con bacio moderno e tutti presi si mettono la lingua in bocca.” Ecco la causa del suo cedimento.

Si sa che Puccini aveva scritto in un appunto che si riferiva a questo momento, al duetto, “e qui Tristano”. Purtroppo non potremo mai sapere quale soluzione reale, musicale, cioè, Puccini avrebbe dato al problema. Io credo che solo un colpo di genio avrebbe potuto trovare una via d’uscita drammaturgicamente coerente. Infatti la morte di Liù è trattata musicalmente e drammaturgicamente come un punto di enorme tensione. Liù, da personaggio accessorio, anche se molto importante, diventa una tipica eroina pucciniana, tanto da rischiare di mettere in ombra il personaggio principale.

Alfano compone il duetto sulla base degli appunti di Puccini. La musica del duetto forma quasi un mondo a sé, rispetto alla musica dell’opera. Ma il risultato drammaturgico a mio avviso resta insoluto. La morte di Liù rimane, secondo me, il punto più alto dell’opera.

Alle differenti impostazioni drammaturgiche, corrisponde, ovviamente direi, una profonda differenza musicale.

Dico subito che entrambe le opere, secondo me sono bellissime. In entrambe c’è una musica estremamente ricca di colore, di espressione.

Tuttavia, a mio avviso si nota una cosa importante: Busoni racconta una fiaba; Puccini vive una vicenda drammatica.

Il racconto in Busoni concede molto alla ironia se non addirittura alla comicità. La vicenda è si tragica (i principi decapitati), ma è una fiaba, quindi da non prendere troppo sul serio. In Puccini la tragedia la si vive fin dall’inizio, con la tetra figura del mandarino che annuncia la sconfitta e la imminente morte del principe di Persia.

Si prenda ad esempio i due diversi modi in cui viene presentata la decapitazione: in Puccini essa è preceduta da un sognante invito alla Luna, e poi da un mesto e tenero canto del coro che è commosso dal bell’aspetto del principe e chiede la grazia (ovviamente negata in modo plateale). In Busoni c’è invece il canto delle “prefiche” di turno che accompagnano il lamento della madre del principe di Samarcanda. Musica bellissima, di sapore mi sembra piuttosto arabizzante, su un basso ritmicamente ostinato, e rapide scale ascendenti e discendenti del clarinetto, dichiaratamente ironica.

Altro momento in cui compaiono grande differenze è come vengono trattate le figura “comiche”, le maschere. Busoni accetta la terminologia della Commedia dell’Arte, come d’altra parte Gozzi: e le maschere sono Tartaglia, Pantalone e Truffaldino. Puccini attribuisce loro nomi comici, come Ping, Pong, Pang. Ma in realtà, in Busoni le maschere svolgono una funzione realmente comica, adottando anche un linguaggio simildialettale. Cioè le maschere sono uno degli elementi comico-ironici dell’opera, e che danno all’opera il suo colore di “racconto”. In Puccini le tre maschere, pur svolgendo un ruolo comico, servono principalmente come elementi di equilibrio alle situazioni fortemente drammatiche, un alleggerimento della tensione.

In Puccini le maschere sono accompagnate da una musica molto scintillante, coloratissima. In Busoni le maschere creano comicità col loro canto, come ad esempio il tartagliare di Tartaglia, che a volte, nell’opera si alterna al parlato (l’opera è una forma di singspiel). Così nel quartetto Altoum, Pantalone, Calaf, Tartaglia, nel quale i tre cinesi mettono in guardia Calaf dei pericoli e lo invitano a ritirarsi, siamo decisamente in ambito comico.

Con questo non è che manchino momenti di apparente (dico apparente, perché la vena ironica è sempre presente) drammaticità, come nella marcia dei dottori e nel coro che segue, le cui voci basse sembrano provenire dall’oltre tomba, o se volete, hanno un alcunché di fatalistico.

Il momento climax delle due opere: la presentazione di Turandot e i tre enigmi.

In Busoni la presentazione di Turandot avviene al suono di una marcia pesante, di sapore funereo, costellata dai lamenti del coro “Wehe! Wehe! Wehe!” Turandot si presenta sulla scala e, con un suono aspro dell’orchestra e della voce chiede chi sia quel principe che osa sfidarla. Ma subito dopo, mentre il ritmo di marcia prosegue, la sua voce si fa meno aggressiva, meno aspra «Ah, come gli altri ei non è; che mai sorse in me che mi turbò?» e la scena prosegue fino a raggiungere un insieme nel quale le varie parti esprimono i loro sentimenti, per terminare poi in un comico suono di campanello e la voce di Pantalone che annunzia parlando: «Primo enigma!». Questa caduta del tono apparentemente tragico della marcia, riporta tutto su un piano dichiaratamente ironico e di semplice racconto di una fiaba.

In Puccini la presentazione di Turandot è ben diversa. Essa inizia subito in tono estremamente drammatico a ricordare la sua missione vendicatrice. Il canto non è ancora aspro e aggressivo, ma si lascia trasportare come fosse da un ricordo lontano, e l’accompagnamento orchestrale è sommesso. Il canto è molto bello, toccante e porta ad una vera e propria emozione quando la musica si amplia e sale di tono all’affermazione «gli enigmi sono tre, la morte è una» e alla risposta di Calaf «No, principessa, no, gli enigmi sono tre, una è la vita».

Così si è preparata la suspence che perdurerà per tutta la scena degli enigmi.

La scena degli enigmi. In Busoni Turandot fa la prima domanda con un procedere misterioso del canto. L’orchestra fa da sfondo. La risposta di Calaf è preceduta da accordi dei fiati che ricordano molto le armonie misteriose del tema delle meditazione nel Ring, soprattutto nelle riflessioni di Mime alle domande del Viandante nel Sigfrido. La risposta di Calaf è una specie di litania che termina con la parola chiave. La risposta di Calaf scatena quindi una ridicola marcetta trionfale che ci porta all’enigma successivo. Il secondo enigma ricalca sostanzialmente il primo, mentre nel terzo enigma viene concesso qualche cosa alla suspence e alla tensione: l’enigma è preceduto da un’impennata di orgoglio di Turandot, e Calaf esita a rispondere in quanto affascinato dalla bellezza della principessa;  il tutto si conclude comunque rapidamente, con la risposta del principe coronata da una musichetta gioiosa. Naturalmente Turandot rifiuta la sconfitta, e questo avviene con l’uso del parlato, come pure parlata è la proposta di Calaf del nuovo enigma sul proprio nome. L’atto si chiude con la concretizzazione della proposta che avviene con una strano responsorio, quasi un antifona, fra Calaf e il coro, di sapore chiesastico, quasi gregoriano. Come dire: l’opera non è finita. Ora comincia la seconda fase, la matassa deve essere ancora dipanata.

In Puccini la scena degli enigmi ha un sapore estremamente drammatico, di grandissima tensione e di vera e propria suspence. Turandot inizia il primo enigma apostrofando Calaf come «Straniero» dopo uno squillo di tromba. L’enigma procede su un tema di grande ambiguità tonale, sottolineato da cupi colpi dei timpani, sortite minacciose degli archi. La voce di Turandot è fredda, tagliente, perentoria, quasi la lama che dovrebbe tagliare la testa del principe. Al primo enigma la risposta di Calaf è immediata, sempre sul tema ambiguo e serpeggiante. La parola chiave è sottolineata dall’intervento orchestrale e dalla ripetizione dei dottori. Il secondo enigma ricalca un poco il primo, stesso tema, stesso tono di Turandot, stesso minaccioso accompagnamento orchestrale. Ma qui la risposta di Calaf non è immediata: la tensione sale, c’è movimento nel coro e nei presenti, finché Calaf, con voce ancora più trionfante risponde. Il terzo enigma è quello più drammatico. La voce di Turandot si fa più tagliente, ma anche più misteriosa, nel solito accompagnamento lugubre di timpani e degli archi. Calaf esita a rispondere. L’attesa è ancora più lunga che dopo il secondo enigma ed è coperta da un misterioso procedere degli archi di due note in due note, quasi a singhiozzo. È ben diverso dal procedere delle armonie che si sente in Busoni. Là esse esprimevano meditazione. Qui esprimono l’angoscia dell’attesa, la tensione, la supence, direi la paura. E tutto questo si riversa nella trionfale risposta di Calaf, che passa successivamente in un canto liberatorio, disteso del coro. L’emozione di chi ascolta, la mia innanzitutto, qui è enorme.

Il canto disteso passa poi nel canto di disperata tristezza di Turandot, che chiede al padre di violare il patto. La tensione della scena degli enigmi, qui si scioglie in una specie di compassione per un orgoglio vinto e sconfessato. L’emozione, alta per la tensione, in questo episodio si mantiene elevata fino a culminare ancora nella esclamazione di Calaf «No, principessa altera, ti voglio tutta ardente d’amore» e nella sua perentoria proposta «Tre enigmi mi hai proposto! Tre ne sciolsi! Uno soltanto a te ne proporrò!» E qui si sente per la prima volta il bellissimo tema del «Nessun dorma». Grande, grandissima emozione, in una delle scene più coinvolgenti che io abbia mai ascoltato. Un coro solenne chiude l’atto. Anche qui l’atmosfera è piena di attesa. Ma non di un bandolo della matassa, come in Busoni, ma dello svolgimento di un dramma annunciato.

Concludo le mie considerazioni sulle due Turandot, prendendo in considerazione le fasi che dal climax della scena degli enigmi portano alla conclusione. In entrambe le Turandot esse sono rappresentate dalla disperata ricerca da parte della principessa del nome del Principe, e così vincere la tenzone.

Tuttavia le linee drammaturgiche nelle due opere si distaccano nettamente, e non consentono confronti diretti dei singoli episodi; e questo proprio in funzione della diversa concezione della figura di Turandot.

In Busoni l’atto si apre negli appartamenti di Turandot, con i cori e le danze delle ancelle davanti alla loro sovrana: la musica ha un sapore arabizzante, e ricorda un po’ la prima scena del secondo atto dell’Aida. Segue un declamato, che trapassa quasi senza soluzione di continuità in un’aria di Turandot, nel quale la principessa è combattuta fra amore e orgoglio «Ah, forse amarlo pur io potrei? Ah, no, ché odiarlo solo vorrei». Vince l’orgoglio e la volontà di risolvere l’enigma. La musica qui abbandona il distacco del racconto, la sottile ironia, per essere più partecipe del conflitto interiore della principessa, e nell’aria Busoni ricorre all’uso dei corni e degli altri ottoni, per sottolineare il prevalere della volontà sull’amore.

L’episodio successivo, che ha per protagonista Truffaldino, il capo degli eunuchi e maschera della commedia dell’arte, il quale fallisce nella ricerca del nome del principe, riporta il tono alla leggerezza propria dell’opera. Ma subito dopo vengono due altri episodi di sapore nettamente più drammatico: l’arioso di Altoum che rivela alla figlia di conoscere il nome fatale, e di essere disposto a rivelarglielo per evitarle l’umiliazione della sconfitta solo se accetterà di sposare il principe ignoto (ma Turandot rifiuta, vuole vincere a tutto spessore); e il duetto della principessa con Adelma, nel quale la schiava-ex principessa, nella speranza di riconquistare Calaf decide di rivelare il suo nome.

Nel primo dei due episodi l’orchestra di Busoni ricorre ancora agli ottoni, ma questa volta alla tromba, sottolineando l’asprezza del confronto padre-figlia. Nel secondo episodio, che viene qualificato come duetto, si oppone la voce drammatica, quasi impaurita di Turandot, a un parlato di Adelma. L’effetto è altamente drammatico, forse il più drammatico di tutta l’opera.

Un intermezzo orchestrale molto bello, suonato dagli archi in sordina porta alla scena finale nella quale Turandot usando il parlato finge di essere stata sconfitta e umiliata, ma subito dopo rivela il nome. Qui non c’è alcun colpo di scena drammatico, al contrario ironia. Il tono ritorna ad essere quello della favola. Naturalmente la vittoria ottenuta consente alla principessa di manifestare il proprio amore e l’opera si conclude con un insieme che via via assume un sapore di gioia e allegria, con danze e con la finale celebrazione delle nozze.

In Puccini il terzo atto si basa fondamentalmente su tre (ma forse e meglio dire due) episodi: la grande romanza del tenore che si sente sicuro della vittoria, nonostante Turandot abbia mobilitato tutta la città sotto minacce di morte; e la morte di Liù. Qui si vede molto bene la differenza rispetto a Busoni. In Puccini la crudeltà di Turandot esplode in tutta la sua violenza. Ping, Pong, Pang avvertono il Principe «Straniero, tu non sai, tu non sai di che cosa è capace la crudele». E questo sarà poi portato sulla scena esplicitamente nell’episodio della morte di Liù, dove le minacce di torture, ammazzamenti e quant’altro si sprecano. Di questo non c’è traccia in Busoni, e neppure in Gozzi.

L’episodio della morte di Liù doveva avere una precisa funzione drammaturgica: quella di aprire una breccia nel cuore di Turandot: la parola Amore, che viene pronunciata per la prima volta dalla principessa; il supremo sacrificio della vita in nome di questo sentimento… Ma la figura di Liù ha preso la mano a Puccini, e alla fine questo personaggio ha assunto uno spessore tale da rischiare di offuscare quello di Turandot. Liù finisce per essere l’incarnazione della vera eroina pucciniana che in nome dell’amore perde la vita, con un corredo musicale di commovente intensità.

In questi due episodi la musica di Puccini raggiunge vette altissime. L’emozione è palpabile, penetra nella pelle, ti prende. E Puccini, giustamente non vuole interruzioni di applausi. Dopo la bellissima romanza «Nessun dorma» il tenore non conclude sulla tonica e si ha immediatamente una modulazione dell’orchestra. Niente applausi, ci dice il Puccini, che potrebbe indebolire la tensione!

La soluzione del dramma, fallita (si direbbe) con la morte di Liù viene rimandata all’ultimo episodio, il famoso duetto e al bacio rivelatore. Ma purtroppo qui il maestro è mancato.

In sostanza, io trovo che, per quanto molto diverse come tono, come “tinta”, le due opere sono entrambi dei capolavori, che suscitano, almeno in me, un grandissimo interesse e piacere di ascolto. Musica raffinata, coloratissima, intensamente espressiva. C’è solo da aggiungere che in più la Turandot di Puccini porta con sé quell’elemento di grande intensa emozione che forse la Turandot di Busoni, più descrittiva e meno partecipe del dramma, non contiene.

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