THE DEATH OF KLINGHOFFER, di John Adams (diretta radiofonica da Ferrara)

Confesso che sono rimasto affascinato all’ascolto di quest’opera. Non 
conoscevo nulla di Adams, e pochissimo anche dei compositori 
minimalisti. 
Mi sono trovato davanti a un lavoro molto complesso, e nello stesso 
tempo attraente e invitante a riflessioni. 
Per fortuna la RAI ha messo in linea il libretto, senza il quale sarebbe 
stato molto difficile seguire l’opera. Alcuni che l’hanno vista 
affermano che per una comprensione più completa è indispensabile anche 
la parte scenografica.

Il libretto. 
È un libretto piuttosto difficile. La sua struttura prevede diversi 
strati. Uno è rappresentato dai cori: sono sette (coro degli esuli 
palestinesi, coro degli esuli ebrei, coro dell’oceano, coro della notte, 
Agar e l’angelo, coro del deserto, coro del giorno), più un ottavo, 
cantato da una voce solista (Aria del corpo che cade – Gimnopedia del 
corpo di Klinghoffer). Questi cori si trovano all’inizio (i primi due 
come prologo), e nel corso dell’opera, quasi come momenti di pausa della 
vicenda; hanno un po’ la funzione del coro nelle tragedie greche: 
possono essere commenti, reminiscenze, espressione di sentimenti, etc. 
Un secondo strato è rappresentato dai racconti dei testimoni (il 
comandante dell’Achille Lauro, il primo ufficiale, la nonna svizzera), 
che rievocano il momento in cui la nave è caduta in mano ai terroristi. 
Questo strato occupa tutta la prima scena del primo atto. In modo 
continuo, senza interruzione si passa quindi a un terzo strato, che è 
rappresentato dalla vicenda vera e propria, che tuttavia non è narrata 
in modo oggettivo, ma attraverso monologhi dei protagonisti (soprattutto 
le voci del comandante, dei terroristi palestinesi e di alcuni 
passeggeri, fra cui appunto lo stesso Klinghoffer). Queste voci non 
entrano in dialoghi veri e propri, ma sono per lo più monologhi, 
qualche volta con incrocio delle voci. Non vi sono didascalie nel 
libretto (almeno in quello in mio possesso). Chiaramente l’azione 
scenica deve essere il supporto alla voci dei protagonisti, dare loro un 
senso compiuto, fare sì che la storia diventi un racconto.

Dal punto di vista del contenuto, la Goodvin e Adams sono interessati, 
più che ai fatti in sé, alle diverse emozioni che questi fatti 
provocano sia in chi li determina, sia in chi li subisce. Il tutto parte 
dai due cori contrapposti, che stanno a significare l’esistenza di un 
odio senza confini  e senza ritorno fra i due popoli, ebraico e 
palestinese: popoli che, ci dirà il coro di Agar e l’angelo, sono 
fratelli, entrambi provenienti da un’unica radice, quella di Abramo, e 
che da allora si perpetua. L’odio per la rivalità del possesso della 
terra. Non a caso i due cori a essa fanno riferimento: i palestinesi 
alle loro case distrutte, gli ebrei alla loro Gerusalemme che hanno 
dovuto abbandonare. 
Il sequestro dell’Achille Lauro e l’assassinio di Klinghoffer sono solo 
un episodio di questo odio, ritmato e scandito da sofferenze di tante, 
infinite, eppur singole, persone. 
E queste sofferenze, che in misura e con motivazioni diverse affiorano 
nei protagonisti dell’opera, sono ciò che interessa Adams. Egli, 
appunto, chiama questo lavoro un‘opera religiosa.

Fra i protagonisti, i quattro palestinesi manifestano il loro diverso 
carattere: Molqi è chiaramente il capo che dà ordini; Mamoud, il 
carceriere del Comandante, racconta la sua vita fin dall’infanzia, non 
avendo conosciuto il padre, avendo perso la madre nella strage di Sabra, 
essendo abituato fin da piccolo all’idea della morte, la propria e 
quella altrui, quella che riceverà e quella che darà col “giocattolo” 
Kalashnikov; avverte il terrore dei passeggeri, e si preoccupa di 
tranquillizzarli, pur rimarcando la differenza che c’è fra loro 
palestinesi e loro occidentali: “noi vogliamo morire, voi volete 
vivere”. 
Rambo è il più duro e insensibile, i suoi interventi sono aspri; Omar, 
forse il più giovane, nell’opera cantato da una voce femminile, il più 
esplicito nel sentire la violenza come una vocazione al martirio. 
Il Comandante è una persona che ha su di sé il peso della 
responsabilità delle centinaia di passeggeri, e cerca a ogni momento 
da una parte di infondere calma e fiducia, dall’altra di discutere con i 
palestinesi, nel tentativo di trattenerli dal compiere azioni estreme, e 
quindi anche cercare di capire ciò che li muove. 
Fra i passeggeri, ciò che domina è lo stupore di essersi trovati in 
una condizione di tale pericolo, essendo essi persone ignare e 
innocenti, e a questo o si ribellano, o si rassegnano, o cercano una 
propria salvezza individuale, come la passeggera austriaca che si chiude 
in un cesso e vi rimane per tutta la durata del sequestro. 
Nei coniugi Klinghoffer c’è la consapevolezza della tragedia, anche a 
causa della loro etnia. Lui accusa esplicitamente i terroristi 
palestinesi di essere dei sanguinari, che non si preoccupano 
dell’umanità delle persone che uccidono o che fanno soffrire; e ha per 
loro parole di condanna. Lei è tutta tesa nella preoccupazione per il 
marito, persona anziana, sofferente, costretta a vivere su una 
carrozzella; è una donna con grandi problemi di vita, che nel corso di 
una vacanza vede improvvisamente aggravarsi, e che troveranno un epilogo 
nel lungo e splendido arioso finale, che conclude l’opera. In esso la 
signora Klinghoffer esprime il lacerante dolore, il dolore della donna 
strappata all’essere amato a causa della violenza, e conclude, quasi 
come un atto di accusa: “Se cento persone fossero state assassinate e il 
loro sangue colato nella scia di questa nave, solo allora il mondo 
sarebbe intervenuto: Avrebbero dovuto uccidere me. Ero io che volevo 
morire”. 
La morte di Klinghoffer non avviene sulla scena. È commentata solo da 
un intervento parlato (l’unico) di Molqi “American kaput”, e, alla fine 
della scena, dall’Aria del corpo che cade, un mesto lamento con immagini 
di decadenza e dissoluzione dei beni umani.

Tutti questi frammenti di umanità, di contrasti, di odio che corre 
trasversalmente e le cui radici, ci dicono Adams e la Goodvin, risalgono 
fino all’Antico Testamento, sono il contenuto dell’opera. Agli autori 
non interessa dirimere chi ha ragione da chi ha torto, non interessa 
esprimere giudizi politici, non interessa fare analisi storiche, non 
interessa raccontare come è andata a finire dopo. Il loro interesse è 
fermo alle circostanze della morte di Klinghoffer e a l’umanità quella 
delle singole persone che vi hanno partecipato, sia essa quella degli 
assassini terroristi, sia essa quella delle vittime, l’umanità che si 
è mossa, che ha agito, che ha sofferto, che ha subito nel corso della 
vicenda; ma anche umanità che proviene da lontano, come l’odio che la 
investe. Non ci sono né speranza, né ottimismo, né pessimismo, e 
neppure disperazione. C’è solo umanità. E in questo credo che stia 
l’affermazione che questa vada interpretata come un’opera religiosa.

La musica 
Non vi è un canto melodico vero e proprio. La grande maggioranza degli 
interventi, sia dei cori che delle voci dei protagonisti, sono dei 
declamati che si appoggiano sopra un tappeto sonoro rappresentato da un 
impasto timbrico prolungato, scandito da ritmi sempre diversi, cangiante 
nei colori, a volte arabescato da piccoli frammenti melodici. Quello che 
si modifica in continuazione è l’espressione di questo tappeto sonoro, 
a volte più concitato, a volte più incline al dolore, a volte alla 
riflessione, a seconda del contenuto del canto, del momento della 
vicenda, etc. E questi cambiamenti di espressione vengono rappresentati 
con variazioni, in cui possono prevalere timbri più dissonanti, ritmi 
più concitati, variazioni di colore più e meno rapide o più o meno 
lente, più o meno tumultuose, a seconda degli stati d’animo, o delle 
riflessioni, o delle azioni. È una musica mai ferma, a volte con 
effetti descrittivi, come esempio nel coro del deserto si avverte un 
tema ritmico ostinato che imita il cadere della pioggia tanto attesa; 
oppure, come nel primo coro, quello degli esuli palestinesi, il tappeto 
sonoro, lamentoso e mesto, quasi su una sola nota solo lievemente 
variata, nel corso delle strofe in cui domina il ricordo della casa, dei 
campi, della luna nei tempi felici, si agita improvvisamente per 
assumere un carattere addirittura tumultuoso ed esasperato quando, 
nell’ultima strofa, i giovani palestinesi, davanti alla distruzione del 
loro mondo, decidono di dar vita all’intifada. Ho portato questi due 
esempi, ma infiniti altri se ne potrebbero portare, poiché questa è la 
chiave musicale che attraversa tutta l’opera.

L’opera mi ha decisamente affascinato, e nonostante l’assenza di vere e 
proprie melodie cantabili, vi è una grandissima ricchezza musicale. Le 
parti che mi sono piaciute di più sono i cori, per quella loro funzione 
di scandire gli eventi, e per il colore non solo del tappeto musicale 
che sostiene il canto, ma anche per il colore del canto stesso, che le 
molteplici voci del coro contribuiscono a rendere continuamente 
cangiante.

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