BEATRICE DI TENDA, agli Arcimboldi

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Premesso che io non amo svisceratamente le opere di Bellini, mi sento di essere d’accordo con la osservazione fatta dal compositore dopo il fiasco clamoroso a Venezia nel 1833, cioè che la Beatrice di Tenda non è opera “indegna delle sue sorelle”. Probabilmente il fiasco di Venezia ha contribuito a relegare quest’opera fra quelle minori di Bellini: certamente non è fra le sue opere più rappresentate. Eppure la musica che ho ascoltato martedì sera è una musica bella, con le melodie ampie, cantabili che si sentono in genere nelle opere del cigno di Catania. Forse non ha i vertici della Norma e neppure quelli dei Puritani, ma l’ascolto è stato ben lungi dall’annoiarmi. Anzi.

Certamente il lato più brutto dell’opera è il libretto. Romani riprende un episodio del rinascimento italiano realmente accaduto: la condanna a morte e l’esecuzione di Beatrice, la prima moglie di Filippo Maria Visconti. Questo episodio, sul quale esistono poche e frammentarie documentazioni, ha acceso la fantasia di scrittori, cronachisti, artisti in genere e compositori in particolare, che hanno arricchito i documenti disponibili di eventi per lo più fantasiosi ma comunque tali da valorizzare il sapore romantico di questa donna e della sua vicenda.

Quello che si sa con certezza è che Beatrice di Tenda (della quale, da un punto di vistata storico è incerto perfino il nome e la casata), vedova del capitano di Ventura Facino Cane, arricchitosi e diventando signore di un non piccolo territorio con le sue imprese militari, sposò Filippo Maria Visconti essendo una ventina di anni più vecchia di lui. Al suo nuovo sposo portò una ricca dote in danaro, in città e soprattutto in uomini d’arme. Tutto ciò aiutò il giovane duca a riconquistare Milano e a ricostruire la signoria del padre Galeazzo, che dopo la morte di quest’ultimo si era andata disfacendo. Sei anni dopo il matrimonio Beatrice venne condannata a morte su istigazione del marito e giustiziata.

Romani ha scelto la versione romantica più accettata, cioè che Beatrice viene accusata di avere tradito il marito con un giovane conte, Orombello. L’accusa, pretestuosa, deve consentire a Filippo, liberato dal vincolo matrimoniale, di sposare Agnese del Maino della quale è innamorato. Tutto questo naturalmente non è provato storicamente, ed è frutto della fantasia romantica. Agnese è un personaggio riportato dalle cronache, ma il suo rapporto con Filippo non è noto.

Ma Romani ha accettato anche la versione “politica” (considerata più probabile dagli storici): cioè Beatrice sarebbe stata eliminata in quanto la sua presenza poteva in certo qual modo (essendo, tutto sommato, la referente dell’esercito ereditato da Facino Cane) limitare il potere del duca. E nel libretto i due motivi (quello politico e quello amoroso) si accavallano, dando prevalenza ora all’uno ora all’altro a seconda delle circostanze. Morale della storia, nel libretto le motivazioni della condanna di Beatrice non sono chiaramente definite. E in più Romani inventa un equivoco che sarà, in modo mooolto più efficace, utilizzato da Verdi nel Don Carlos: Agnese, innamorata di Orombello scopre in un colloquio con lui, che egli in realtà è innamorato di Beatrice; decide quindi di vendicarsi portando a Filippo lettere compromettenti della rivale che saranno poi la base dell’accusa; poi, pentita del malfatto chiede perdono a Beatrice prima che questa salga sul patibolo. La differenza sta che mentre nel Don Carlos questo equivoco ha una travolgente forza drammaturgica, qui appare chiaramente un episodio appiccicato per giustificare l’accusa di Filippo.

In sostanza il libretto non solo è senza una vera e propria azione, senza un momento di vera e propria tensione, ma anche dal punto di vista drammaturgico stenta a reggersi.

Eppure Bellini vi compone sopra della musica molto bella. I personaggi chiave sono Beatrice e Filippo, ai quali vengono attribuite arie di bella melodia; gli altri due personaggi o non hanno arie, come Orombello, o ne hanno una sola, oltretutto fuori-scena, come Agnese (anche questa di bella melodia). Il punto forte della musica tuttavia sono i brani d’assieme: il duetti (terzetti, quintetti), i cori e i concertati nei due finali d’atto, dove melodia e ritmo si legano in un incalzare molto coinvolgente.

A me sono piaciute molto, ad esempio l’arioso di Beatrice all’inizio dell’ultima scena del primo atto “Deh, se mi amasti un giorno”, oppure l’aria di Filippo del secondo atto, preceduta da un bell’intervento dei corni “Qui mi accolse oppresso, errante”. Mi sono piaciuti molto anche il dolcissimo terzetto “Angiol di pace all’anima” introdotto dal tenore fuori campo nell’ultima scena del secondo atto, e il quintetto del processo, accompagnato da un coro in pianissimo, ricco di tensione.

Anche i due cori, quello alla fine del primo atto (al quale mi pare che Verdi si sia ispirato nel coro degli assassini nel Macbeth) e soprattutto quello all’inizio del secondo atto, che descrive la tortura e relative sofferenze di Orombello sono molto belli. Molto gradevoli sono anche il preludio e gli intermezzi puramente orchestrali.

La regia. Pier’Alli si è dimostrato più che un registra, uno scenografo, un costumista e un coreografo. Le scene, sono molto sobrie, con sfondi scuri che la luce tinge di un color blu, o addirittura sfondi nero intenso, compatto, nel quale si illumina chiaro un dipinto posto lateralmente. Gli spazi sono delimitati da alcune colonne disposte in modo ritmico tali da delimitare delle aperture o degli sfondi disegnati (un giardino, delle piccole statue, etc.). Gli arredi scenici sono pochissimi e tali da suggerire in quale ambiente ci si trova (per lo più tutti interni del castello).

Ricchi e molto curati i costumi, tutti ispirati al secolo XV°: quelli delle donne con ampie gonne colorate e corsetti con veli (ma a colori tenui), quelli degli uomini con mantelli che ricoprono il classico costume rinascimentale. Anche i personaggi del coro hanno costumi ricchi e sfarzosi con colori tenui e quasi sempre tendenti all’azzurro o al blu cupo.

I personaggi sulla scena si muovono pochissimo. I movimenti sono lenti, volti a suggerire volta a volta l’ira, l’autorità, il disprezzo etc. Ma di recitazione non se ne parla neppure. L’immobilità regna sovrana. E così anche il coro viene disposto in ordini regolari sulla scena, tuttavia con movimenti, soprattutto nella parte femminile, ritmici, svolti contemporaneamente a suggerire una forma di danza per esprimere i vari sentimenti che la musica suggerisce.

Con danze viene anche accompagnato il preludio orchestrale, e alcuni momenti degli interludi.

In sostanza la regia mi è parsa gradevole e efficacemente accompagnarsi alla musica: sobria ed elegante, attenta soprattutto alla visione d’insieme, con geometrie che si trasferiscono dalle componenti sceniche a quelle umane dei cantanti e del coro.

L’esecuzione mi è parsa di ottimo livello. La direzione orchestrale limpida, tale da valorizzare le voci e le dolci e ampie, rotonde melodie della musica belliniana. Una piccola stecca del corno all’inizio non mi è sembrata neppure degna di menzione.

Fra i cantanti la Devia è stata bravissima, sfoderando agilità ed espressività con una bella voce, sempre chiara, con dizione perfettamente comprensibile.

Bravi mi sono sembrati anche Michel-Moore nella parte di Filippo, Jose Bros nella parte di Orombello e Maria Piscitelli nella parte di Agnese. Ottimo il coro.

Insomma, Questa Beatrice è stato uno spettacolo che ha destato la mia attenzione dall’inizio alla fine quando mi sono unito agli applausi generosi del pubblico.

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