MACBETH, alla Scala

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Dopo aver ripetutamente visto l’opera sia in teatro che in riproduzione in DVD sono sempre più convinto che il Macbeth sia stato il frutto di un vero colpo di genio che ha investito Verdi. Scritto nel pieno degli “ anni di galera”, fra l’Attila e I masnadieri, mi ha colpito per la sua compattezza, per la sua essenzialità, per lo straordinario rapporto fra musica e drammaturgia.

È il primo incontro di Verdi con Shakespeare e mostra subito, in modo inequivocabile il legame che stringe i due grandi autori di teatro. Il libretto riesce a trarre dalla tragedia di Shakespeare l’essenziale: ne trascura gli aspetti e gli episodi di contorno o marginali per farne vivere in modo inalterato la sostanza. Il librettista, Piave, non è certo un genio: lo si evince dalla lingua italiana usata, spesso faticosa, a volte di difficile comprensibilità. Ma gli interventi sia dello stesso Verdi, sia di Maffei hanno permesso al musicista di disporre di un piccolo gioiello sul quale costruire il capolavoro.

Si dovrà aspettare fino alla fine della carriera perché Verdi affronti di nuovo Shakespeare, in due opere capolavoro quali l’Otello e il Fastaff. Ma altri due titoli, purtroppo senza esito, nel corso della sua vita si sono affacciati: l’Amleto e il Re Lear. Forse l’Amleto è una tragedia molto cerebrale e quindi non completamente adatta all’animo di Verdi, alla quale effettivamente egli non vi ha mai pensato molto seriamente. Diverso è il discorso sul Re Lear, molto più affine al carattere del compositore. Purtroppo Verdi non è riuscito ad affrontare quest’opera. Non mi sembra di esagerare se penso che avrebbe potuto essere un capolavoro da avvicinare alle altre tre.

Nel Macbeth la musica di Verdi si dipana fra brani solistici, pezzi d’assieme e soprattutto cori. La varietà dei toni espressivi crea fin dal principio uno stato di tensione nell’ascoltatore che perdurerà per tutto il corso dell’opera. Si pensi ad esempio alla varietà degli interventi corali: quello delle streghe, vivace e malizioso nel primo e nel terzo atto; il coro della fine del primo atto, in morte di Duncano, con l’andamento solenne della marcia funebre che tuttavia sfocia in un ritmo di rabbia e vendetta; il coro dei sicari guardingo e minaccioso (che sembra un’anticipazione del coro dei cortigiani del Rigoletto quando vanno a rapire Gilda); il coro che accompagna il brindisi alla fine del secondo atto; il coro “Patria oppressa” che richiama i due cori più famosi del Nabucco e dei Lombardi; e il coro finale che celebra ed esalta la vittoria di Malcolm su un ritmo vagamente marziale. Altrettanta varietà nei brani solistici e di insieme, dal duettino pieno di dubbi e di incredulità dell’inizio, a quello drammatico (e per me stupendo, incredibilmente bello e straordinariamente emozionante) dopo il delitto, “Fatal mia donna! un murmure”, o il monologo di feroce incertezza “mi si affaccia un pugnal?!” e così via. E fra i diversi numeri, sono particolarmente incalzanti i recitativi declamati non meno espressivi delle arie o dei duetti. Sarebbe inutile citare tutti i momenti critici dell’opera: mi basti dire che non vi è un momento di stanchezza, non un brano di semplice riempimento. Tutto è in funzione di una drammaturgia asciutta, essenziale, potente, coinvolgente l’ascoltatore dall’inizio alla fine.

La messa in scena di questa stagione è la stessa del 1997, regia di Vick e scene e costumi di Maria Bjornson. Diverso, ovviamente il cast: direttore è il giapponese Kazushi Ono; Violeta Urmana e Leo Nucci sono nelle due parti principali. Il cast è completato da Abdrazakov nella parte di Banco e Walter Fraccaro nella parte di Macduff.

Sulla messa in scena avevo già fatto delle osservazioni nell’edizione del 1997: l’elemento centrale dell’opera è l’immenso cubo che occupa gran parte del palcoscenico; appoggiato in modo da offrire le superfici obliquamente allo spettatore, il cubo è in grado di ruotare su se stesso. Una delle facce è aperta e nei momenti cruciali mostra l’interno. Da un punto di vista strettamente scenografico, il cubo potrebbe essere una simbologia del castello di Macbeth, in realtà sulla scena esso simboleggia il potere che incombe su tutto il dramma: al suo interno vedremo la figura di Duncan assassinato, o, nel secondo atto, le apparizioni di Banco; da sotto il cubo si vedranno apparire le streghe che faranno le predizioni; lady Macbeth accarezzerà sensualmente il cubo mentre canta “O voluttà del soglio” nell’aria “La luce langue”; ma, nell’ultimo atto durante la scena del sonnambulismo, la vediamo come schiacciata, proprio sotto il cubo; poi, ancora, uno dei lati del cubo gronderà sangue la notte dell’assassinio di Banco; oppure una verde mano rapace si stenderà sempre sopra una delle facce (quella man rapace che nel primo duetto Macbeth proclama di non voler alzare) quando Machbeth va ad interpellare le streghe sul suo destino.

Vick usa anche un linguaggio dei colori: il gran cubo è sempre di color azzurro cupo fino al blu, con un’illuminazione dei varia intensità; il suo interno è rosso; i costumi di Macbeth e della Lady sono rossi nel primo atto, gialli nel secondo, neri nel terzo e nel quarto, tranne il costume della lady che durante la scena del sonnambulismo è bianco.

Nessuno degli inconvenienti riscontrati e lamentati in alcune delle recite precedenti quella di domenica 13 si è verificato.

Il direttore ha diretto con ottima maestria un’orchestra in grandissima forma. Qualcuno ha trovato la sua direzione un po’ fredda, addirittura poco emozionante. A me non è parso. Ho seguito la sua direzione con grande attenzione, e mi è parso che riuscisse a offrire ai cantanti il terreno necessario su cui innestare la loro interpretazione. La Violeta Urmana è stata bravissima. Il personaggio di Lady Macbeth in lei ha saputo trovare una forza vitale che emergeva intensamente negli scontri col marito e nelle accuse di pavidità. Lady Macbeth è il vero genio del male, la forza distruttrice, la volontà implacabile, che cede di schianto nell’ultimo atto, e questo proprio Violeta Urmana ha saputo realizzare.

Leo Nucci è un Macbeth storico, come per molti anni lo è stato Bruson. Nulla si può criticare nella sua performance, se non forse quel tanto di abitudinariamente ripetitivo che toglie allo spettatore l’emozione della novità.

Comunque resta un po’ un mistero come un cantante, sia pure della bravura di Nucci (ma anche della sua età), possa comparire due volte in due opere diverse nella stessa stagione. Forse siamo così a corto di baritoni? o meglio, di baritoni che sappiano interpretare con credibilità personaggi drammatici?Di alto livello anche i comprimari come Fraccaro (nella sua unica aria nella vesti di Macduff) e Abdrazakov nella parti di Banco.

Nel complesso mi è sembrata un’ottima realizzazione, capace di coinvolgermi ed emozionarmi come già era avvenuto nell’97.

 

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