L’INIZIO È IN AUTUNNO, di Francesca Sanvitale

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Si potrebbe dire che il vero protagonista del libro è il Giudizio Universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina? O forse, ancora di più, il suo restauro?
Oppure che il vero motore che fa procedere il libro e la vicenda che vi si narra è il valore relativo della verità?

Questo e altro. Molto apprezzabile, interessante è l’idea originale del racconto. La stessa Sanvitale ha confessato che l’idea prima del libro le è venuta in seguito alle polemiche insorte a causa del restauro dell’affresco. Si sa che allora l’opinione dei critici si spaccò: alcuni, pochi per la verità, gridarono allo scandalo, giurarono che il restauro aveva rovinato il dipinto; altri, la maggioranza, fra cui la stessa scrittrice, manifestò il parere contrario: il Giudizio Universale era stato restituito al suo splendore originale.

Scrivere un libro che avesse come ambiente di fondo la vicenda del restauro era una bella sfida, e la Sanvitale la colse, mi sembra, anche con un certo successo.

La vicenda si svolge per le strade di Roma, nei quartieri che circondano la Città del Vaticano: via Porta Angelica, viale Vaticano, piazza Risorgimento. Il protagonista è uno psichiatra, Michele, che deve scrivere un libro, una raccolta critica dei casi clinici più interessanti capitatigli nel corso della sua professione. Già nell’incipit fa irruzione uno dei temi chiave del romanzo: il concetto relativo di verità. In alcuni dei casi descritti la guarigione avviene al di fuori delle regole canoniche. Michele si pone il problema: esiste anche in psichiatria l’effetto placebo? Quanto di ciò che emerge durante le sedute di psicoterapia è da ascriversi alla malattia dichiarata e quanto a una forma deviante che tende a nascondere la verità? Estrarre queste verità ambigue e nascoste è il compito dello psichiatra: liberarle dalle incrostazioni. Ma ciò che risulta è proprio la verità?
Rispondendo a queste riflessioni, un amico fraterno di studi, Guido, gli rimprovera di volere ad ogni costo stabilire la verità, quando essa stessa è incapace di porre un margine che la separi dalla non verità. E questo diventerà il tema principale del romanzo.

Michele, secondo il suo carattere, si aggira solitario per le vie e i vicoli che confinano con le mura della Città del Vaticano, finché è attratto da un ristorante: dal suo profumo, ma anche dall’aspetto oscuro, solitario, quasi fosse nell’attesa di lui. E in questo ristorante, mentre viene servito da un cameriere che è sì, un’ombra nell’oscurità del luogo, ma è anche una realtà che ispira simpatia (di Michele, ma anche del lettore), incontra Hiroshi, il restauratore, la persona che diventerà sua amica e che condizionerà, con i suoi racconti, con le sue angosce e con la sua sapienza, i pensieri, le certezze, le verità credute del nostro psichiatra.
Si apre così un duetto nel quale emerge un’analogia fra il mestiere del restauratore e quello dello psichiatra. Il restauratore con mezzi dolci, usando acqua e sali neutri, carta giapponese, assorbe la sporcizia, il grasso depositato da secoli e riporta alla luce il colore; lo psichiatra attraverso i colloqui col paziente cerca di assorbire tutta la “sporcizia” che avvolge la psiche malata e la riporta alla sua integrità.
La scoperta di questa affinità introduce il meccanismo con il quale la Sanvitale attiva un gioco di specchi fra il restauro del Giudizio Universale, il racconto di Hiroshi, l’istinto di Michele che come psichiatra cerca nel racconto ambiguo di Hiroshi la verità, e nello stesso tempo la ricerca in se stesso di chiarire il senso reale della verità ricercata.
Michele riceve da Hiroshi un libro sul restauro del Giudizio Universale. Studiarlo per lui è una fissazione, la fonte di domande, problemi, misteri. Vede le fotografie dell’opera in corso, le confronta con i racconti di Hiroshi. Forse Hiroshi ha a che fare col restauro dell’affresco michelangiolesco. Piano piano sembra che certi misteri si svelino, ma nel contempo ne compaiono altri. La verità misteriosa delle cure psichiatriche si intreccia con la verità misteriosa del restauro della Cappella Sistina. Queste misteriose verità si proiettano nelle stesse misteriose verità della mente di Michele, che cerca la soluzione di quei misteri, ma nel contempo è alla ricerca della soluzione dei misteri delle propria vita. Sorgono allora, e si intrecciano con le vicende del restauro e dei casi clinici, le vicende amorose della sorella Beatrice, l’innamoramento di Michele per Miriam, ma anche l’irresistibile attrazione sessuale per Karen, la moglie di Hiroshi. E sorge ancora più accanito il conflitto fra il sesso come espressione d’amore e la carnalità, il suo protendersi nell’atto del godimento durante le ore dell’amore, e il suo riverberarsi nell’ammirazione davanti all’affresco michelangiolesco, dove corpi, carni, muscoli, facce espressioni felici, disperate, bocche gonfiate nello sforzo di suonare lunghe trombe del giudizio tutto concorre a, finalmente, estrarre, restaurare la personalità di Michele, lo psichiatra, il restauratore di anime, che sarà a sua volta restaurato (inconsapevolmente?) dal restauratore di quadri, in un gioco di specchi che domina un po’ tutto il racconto. E in questo avvilupparsi di rincorse frenetiche alla ricerca di questa verità sempre più ambigua, sembra quasi scandire le tappe la lettura da parte di Michele di racconti di La Comédie humaine di Honoré de Balzac.

La vicenda procederà alle sue conclusioni che non saranno, come del resto un po’ tutta la vicenda, la soluzione di alcun mistero; fatti nuovi arricchiranno la trama, ci saranno addirittura colpi di scena, che richiameranno altri misteri, altre domande, altre risposte contraddittorie. E i diversi misteri che si rispecchiano in continuazione troveranno solo soluzioni ipotetiche, contrastanti, e cercare di risolverli non porterà ad altro che a constatare quanto la verità sia subordinata a compromessi, come già era apparso al nostro Michele mentre elaborava i suoi studi sulle terapie ai propri pazienti e sugli esisti finali delle stesse. E il finale del racconto lo sottolinea in modo impietoso, quando egli, seduto nel parco, vede passare una delle sue ex-pazienti, quella forse guarita col placebo, e comunque in un modo al di fuori dei canoni della medicina ufficiale, ormai inserita in una vita normale, mamma certamente felice del bambino che spinge nella carrozzina. Michele non ne gioirà, ma anzi eviterà di salutarla e cercherà di non farsi notare.

Il libro si affida ad un idea molto brillante, si introduce nei misteri della verità come forma di compromesso fra la realtà e il nostro pensare. Il gioco di specchi del restauro della mente e della pittura, dell’incrocio dei due “restauratori”, dell’incrocio delle plurime verità è un argomento affascinante. Tuttavia mentre per lungo tratto del racconto queste interconnessioni rispondono ad una ricerca, nel procedere le descrizioni, a volte ripetitive, delle stupefatte riflessioni di Michele finiscono per appesantire il libro, togliendogli quell’immediatezza che l’argomento, mi pare, richiedesse. Questa sensazione è poi accentuata, come notato da altri, da un diverso tempo fra la prima parte, analitica, progressiva, ben calibrata, e la parte finale, dove date e epoche corrono via, i fatti sono quasi entità simboliche, appena accennate. Lo squilibrio che ne deriva mi sembra la critica più importante che si possa fare al libro.

Il romanzo ha vinto il premio Viareggio 2008

Ascolta l’intervista a Francesca Sanvitale su Radio3 Fahreneit

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