STELLA ERRANTE, di Jean-Marie Le Clézio

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Esther e Nejma sono coetanee e sono le due protagoniste del romanzo. Esther è una bambina ebrea che all’inizio della seconda guerra mondiale, dopo che i tedeschi avevano sconfitto l’esercito francese e invaso, assieme agli italiani, la Francia, era stata costretta a fuggire da Nizza dove abitava con i suoi genitori e a trasferirsi a Saint-Martin-Vésubie, un paesetto alla base delle Alpi, poco lontano dal confine italiano.

Nejma è una ragazza palestinese, costretta a fuggire dalla sua abitazione di Acri per finire nel campo profughi di Nur al-Shams sotto la pressione di una guerra ferocissima, con la minaccia di soldati non meglio identificati: Israeliani? Arabi? Non viene specificato. Non importa, chiunque fossero quei soldati. Il problema vero è che si dissolve l’identità di Nejma, che deve vivere in un campo-prigione che le toglie ogni prospettiva per il futuro.Il romanzo inizia e si diffonde nel narrare la via di Esther, le sue gioie infantili, le sue tenere amicizie, il suo gusto per una natura selvaggia ma affascinante, la sua commozione quando ascolta una vecchio e un tempo acclamato pianista suonare, solitario e chiuso nella sua cucina, il suo amatissimo e preziosissimo pianoforte. Ma racconta anche le difficoltà delle famiglie a trovare il cibo che scarseggia, le umiliazioni alle quali gli ebrei devono sottostare, mettendosi in coda per farsi registrare ogni giorno presso il comando italiano, in un rito che gli abitanti del villaggio osservano senza capire. Gli italiani eseguono ordini assurdi e contro-natura, ma tutto sommato sono “brava gente” che non fa del male. Il vero pericolo sono i tedeschi, che, per fortuna, sono fermi al Nord e per ora non scendono, ma non si sa mai. Più in alto sui monti agiscono i partigiani, e il padre di Esther si reca spesso a trovarli, si dice, per aiutare ebrei in difficoltà a passare il confine.Ma la guerra evolve, l’Italia si è arresa, i tedeschi arriveranno a occupare quelle terre fino ad allora quasi sicure. Gli ebrei sono costretti a fuggire. È splendida nel romanzo l’immagine di tutti quei fuggiaschi che affollano la piazza principale, seduti su bagagli raffazzonati, valigie chiuse con lo spago, occhi sbarrati dal terrore, mentre gli abitanti del villaggio, radunati sotto i portici li guardano con pena, ma non osano fare nulla.Poi inizia la fuga su per la valle, con tutte le sofferenze e le difficoltà che si possono immaginare. E soprattutto manca il padre, partito per una delle sue imprese sulle montagne. Esther e sua madre riescono alla fine a raggiungere l’Italia e mettersi in salvo dal pericolo nazista. Ma le loro avventure non sono finite. Il padre è morto in uno scontro a fuoco con i nazisti. Il futuro è oscuro: l’unica soluzione è quella di emigrare in Israele, il piccolo nuovo stato che sta sorgendo in terra palestinese e nel quale finalmente gli ebrei non sono più sudditi tollerati o nemici da sterminare, ma cittadini a tutti gli effetti.E le due donne emigreranno, attraverso mille difficoltà: tornare in Francia, attendere la nave italiana che li porterà a Gerusalemme che nella fantasia di Esther diventa la città della Luce, trovarsi braccati dalle vedette francesi, venire imprigionati come emigranti clandestini, poi di nuovo ripartire con le autorità che chiudono tutti e due gli occhi, sfuggire al blocco inglese a Cipro, e alla fine sbarcare sulla spiaggia di Haifa. Sono in salvo? Potranno riprendere la loro vita? Forse, ma qui in Israele non c’è la tanto sospirata pace: l’esercito israeliano è in guerra contro gli eserciti arabi che vorrebbero smantellare lo stato di Israele. E mentre le due donne, assieme a tanti altri immigrati, attraversano il Paese per raggiungere le loro mete, incontrano una colonna di profughi. Questa volta non sono profughi ebrei come quelli che risalivano le valli delle Alpi. Sono profughi palestinesi, cacciati dalle loro case e diretti nessuno sa dove.Esther incontra Nejma. È un breve incontro, durante il quale le due ragazze si scambiano i nomi e si guardano fissamente, come se si trasmettessero l’orribile esperienza della vita da profughi: quella di Esther, nel passato, quella di Nejma nel presente.Le Clézio qui crea un gioco di specchi: la vita di Nejma non è altro che l’aspetto simmetrico della vita di Esther. Il campo profughi come la vita a Sain-Martin: il tentativo di organizzarsi, la costruzione delle baracche, le amicizie, le corse innocenti sulle colline sassose, la cronica e terribile carenza s’acqua, l’attesa del cibo portato dai convogli delle Nazioni Unite che non sempre arrivano, i teneri amori, la nascita di una bambina, e infine l’epidemia di peste che si porta via la maggioranza della popolazione del campo profughi. Nejma riesce a scappare con un giovane beduino. I due giovani, vincolati da un tenero amore cercheranno le terre della loro infanzia, passando attraverso la guerra, i pericoli mortali, e rifugiandosi alla fine (?) in una solitudine dove forse potranno organizzare una vita che sia proprio la loro e non la sudditanza alle violenze di popoli in guerra, incuranti delle sofferenze umane che queste guerre provocano.Il libro termina con Esther che, diventata adulta, sposata, in buone condizioni economiche e di vita quotidiana, torna col pensiero alle vicende della sua gioventù. Il ricordo, quello di Sain-Martin e della vita stentata, quello del padre e del suo tenero amore, quello della madre sua compagna di sofferenze, è quello che le permette di riconoscere la propria identità. E Nejma? Anch’ella è un ricordo: fuggevole, certo, ma profondo. Il ricordo della condivisione di un destino di succubi delle violenze altrui che potrebbe un giorno riaprirsi alla speranza.Il libro ha una scrittura elegante, morbida, come è lo stile di Le Clezio. Le immagini sono nitide, quasi cinematografiche, come ad esempio gli ebrei che si raccolgono sulla piazza di Saint-Martin pronti a fuggire davanti ai nazisti, o la lunga coda che si sgrana sulle montagne per raggiungere il passo che li porterà in Italia, o la processione di profughi palestinesi, la collina sassosa ai margini del campo profughi, etc. A differenza de Il verbale, in questo romanzo il linguaggio è soprattutto descrittivo, privo di considerazioni o approfondimenti filosofici, ma denso di significati sociali. La lettura è molto più facile e attraente.Leggendo questo libro si capisce la motivazione del Nobel: «autore di nuove tendenze, di un’avventura poetica e di estasi sensuale, esploratore di un’umanità oltre e sotto la civiltà dominante»

Vedi la lezione al Nobel di Le Clézio (dicembre 2008) �

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