LA CAPANNA DI BETULLA, di Louise Erdrich

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Ho letto questo libro perché è di una scrittrice che quest’anno è arrivata seconda, dopo Elizabeth Strout, al premio Pulitzer. Non avendo trovato una traduzione italiana del suo libro, mi sono dedicato a un’altra sua opera, appunto questa Capanna di betulla. Accingendomi a leggerlo ho visto, con un po’ di raccapriccio, che si tratta di un romanzo per bambini da 10 anni in su. L’ho letto ugualmente, e ho fatto bene.

Il libro è scritto con molta grazia, e descrive la vita di una tribù di indiani, gli Ojibwa, che popolavano le rive settentrionali del Lago Superiore. La protagonista è una bambina, Omakayas, in italiano “ranocchietta”, così denominata perché la prima cosa che ha fatto quando ha imparato a camminare è stato un piccolo salto. La sua famiglia comprende i genitori, la nonna Nokomis, una sorella maggiore Angeline molto bella e già matura come comportamento e sotto sotto già in competizione con Omakayas, un fratello minore, dispettoso e irrequietissimo, Piccolo Morso, che ad Omakayas è antipatico, e un fratellino piccolo piccolo, Neewo che Omakayas adora.

Il racconto dura un anno, le quattro stagioni e ci mostra le difficoltà e i piaceri della vita di un popolo non ancora influenzato dal progresso dei bianchi e per il quale la natura, con i suoi doni e i suoi pericoli è l’ambiente naturale e grandemente amato.

In primavera e in estate l’abitazione è una capanna di betulla, leggera, aperta sull’ambiente circostante. Gli uomini vanno a caccia, o si dedicano ad attività indispensabili per la sopravvivenza: la raccolta del riso selvatico, la semina e la difesa del mais dalla voracità dei corvi, la mietitura, il commercio. Il padre, Deydey, un uomo grande e grosso, che ha nelle vene ancora un percentuale di sangue bianco, ma che si sente un Ojibwa al 100%, viaggia per giorni e giorni per portare al mercato le pelli degli animali cacciati. I bambini giocano, raccolgono fiori, si adornano. Una delle attività cui Omakayas è costretta, e che non vorrebbe svolgere, perché questo la allontana dal gioco e dal girovagare, è la concia di pelle di daino per fare i mocassini, calzature resistenti e calde, foderate di pelliccia di coniglio. Nelle sue peregrinazioni, salva un corvo ferito, Andeg, che le si affeziona e che da quel momento vive sempre appollaiato sulla sua spalla. In un’escursione nel bosco, incontra due orsacchiotti che la incuriosiscono, come i due sono incuriositi da lei. La conoscenza reciproca è interrotta dall’arrivo di mamma orsa, che spinge via i piccoli, tuttavia senza aggredire la bambina.

Le donne passano la loro giornata nei lavori domestici e soprattutto a cucire abiti, sia da indossare per bellezza, sia per coprirsi d’inverno: soprattutto fatti di cotone filato e di pelle di alci, o di cervi, etc.

Nel villaggio vivono altre persone con le quali ci sono rapporti più o meno di amicizia. Un tipo caratteristico è Vecchia Candela, che non dà confidenza a nessuno, ha un aspetto mascolino, va spesso a caccia e ha anche proprietà divinatorie. Naturalmente l’unico essere che Vecchia Candela guarda con simpatia se non addirittura con affetto è Omakayas, che la va a trovare e che da lei ottiene sempre buoni consigli. Altre persone che popolano la tribù sono Albert LaPautre e Coda di Cavallo, due uomini che ogni tanto si appartano con Deydey a discutere. L’argomento sono gli uomini bianchi, che esercitano una pressione continua affinché gli Ojibwa lascino libero il territorio, spostandosi a ovest, cosa che non si vorrebbe fare.

La nonna Nokomis è una vecchia con molta autorità e molto ascoltata nelle scelte della famiglia; ma è anche una donna amabile che intrattiene i bambini raccontando loro delle belle fiabe, o, in alternativa, spiegando loro il potere degli spiriti del bosco che vanno rispettati e ai quali si devono fare sacrifici, come offrire loro il tabacco di salice rosso che tutti, uomini e donne, fumano in pipe di legno di betulla.

L’autunno e l’inverno sono le stagioni difficili. Gli Ojibwa si trasferiscono in capanne più solide, al centro del villaggio, e cercano di difendersi dal freddo. All’inzio l’arrivo dell’inverno è salutato con allegria. Le prime nevi portano gioia e voglia di giocare nei bambini. Nel lago si forma un leggero strato di ghiaccio nel quale di fanno dei buchi per poter pescare qualche pesce. Ma non è solo il freddo il nemico: col freddo arriva spesso anche la fame. Le provviste raccolte durante le primavera e l’estate sono indispensabili per sopravvivere. Ma se l’inverno dura troppo a lungo, potrebbero non bastare. Allora ci si indebita, si vendono le pellicce non ancora cacciate; si mangia meno, si dimagrisce, ci si ammala. Quell’inverno è stato particolarmente terribile. L’uomo bianco non solo rappresenta una minaccia, perché vorrebbe cacciare a ovest la tribù per impadronirsi del suo territorio, ma è anche portatore di malattie. Una di queste è il vaiolo, che fa ammalare quasi tutti (epidemia) e fa morire molti. Una delle vittime, con grande strazio di Omakayas è proprio il piccolo Neewo, che la bambina ha cercato di curare, assieme agli altri membri della famiglia. Il piccolo Neewo, uscito di scena ancora prima di avere fatto i primi passi, rimarrà nell’animo della bambina per tutto il resto dei giorni. Anche Angeline si ammala gravemente, ma guarisce, rimanendo tuttavia deturpata dalle cicatrici in faccia.

In un modo o nell’altro, comunque l’inverno passa. I morti vengono seppelliti e la primavera si affaccia: e con la primavera la festa della raccolta dello zucchero e dello sciroppo d’acero. Il libro si conclude con il ciclo dell’anno e con la rivelazione che Omakayas non appartiene alla sua famiglia, ma è stata salvata e portata alla tribù proprio da Vecchia Candela, che l’ha raccolta alcuni anni prima come unica sopravvissuta in un’altra tribù sterminata dal vaiolo. Ecco perché Omakayas non si è ammalata è ha potuto curare gli altri membri della famiglia.

Il libro è sì per bambini: basta vedere la meraviglia con la quale la scrittrice suscita l’interesse dei piccoli lettori con le fiabe, gli incontri con gli animali, le storie degli spiriti del bosco, etc. perché ne siano affascinati anche gli adulti. Almeno a me è successo così. Ma quello che deve essere valorizzato, oltre alla scrittura leggera, piacevole, è la ricostruzione autentica della vita di un popolo pacifico, civilissimo, che abitava prima dell’arrivo dell’uomo bianco territori vastissimi e bellissimi, e che si è dovuto ritirare sempre più ad ovest fino a farsi rinchiudere in miserabili riserve, dove i discendenti vivono tuttora. 

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