IL RIGOLETTO alla Scala. Qualche considerazione personale sull’opera e sulla rappresentazione

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Il Rigoletto è una delle opere più rappresentate, e anche più apprezzate dal pubblico amante della lirica. È la prima, in ordine cronologico, della cosiddetta trilogia romantica o popolare (che comprende anche La traviata e Il trovatore), composta all’inizio degli anni Cinquanta e che ha significato una svolta importante nella carriera di Verdi.

Gli storici ci raccontano che Verdi si sia letteralmente innamorato del dramma di Victor Hugo Le Roi s’amuse, e che abbia fatto di tutto per poterlo utilizzare come libretto d’opera. E occorre dire che il Rigoletto opera ricalca molto fedelmente il dramma francese, con solamente una piccola (anche se importante) variante nel secondo atto dell’opera (terzo del dramma). La modificazione più vistosa che Verdi è stato costretto dalla censura ad apportare all’opera è nell’ambientazione e nel nome dei personaggi. In Hugo il protagonista maschile è Francesco I° di Francia, uno dei re più importanti della dinastia dei Valois, il re che invase l’Italia per ben due volte, che si scontrò militarmente con Carlo V° riuscendone sempre sconfitto e in un’occasione addirittura prigioniero, il re colto che conosceva e amava Leonardo da Vinci, che aveva ospitato negli ultimi anni della sua vita in un castello ad Amboise, poco lontano dal castello reale, il re dal bell’aspetto e corteggiatissimo dalle donne, l’amante di Diana di Poitiers.

Hugo (siamo negli anni Trenta), erede dello spirito repubblicano della Rivoluzione, in seguito alla grande rivolta parigina del 1830 che portò all’abdicazione di Calo X°, non esita a porre al centro di una vicenda torbida un monarca, addirittura un monarca emblematico come Francesco I°.  Questo tuttavia gli costa non solo le critiche dell’establishement, ma anche vari divieti di rappresentazione. Nel 32-33 in Francia siamo ancora sotto l’egida della monarchia. Il nuovo re, Luigi Filippo, anche se rappresenta una interruzione nella continuità della dinastia Borbonica assolutista, è pur sempre un monarca e non disposto a tollerare le intemperanze repubblicane del grande scrittore, e l’opera, con il solito giro di parole che in Italia conosciamo benissimo, viene censurata sotto l’accusa di immoralità.

Ma Hugo non si dà per vinto, e nella prefazione della pubblicazione a stampa, oltre all’invettiva contro la censura e a favore della libertà, fa anche un’appassionata difesa della sostanziale moralità dell’opera, di cui forse è opportuno riportare un brano.

 

«…la parola d’ordine che la censura ha dato alla polizia e che, da qualche giorno, si balbetta attorno a noi è la seguente: “è un lavoro immorale”. Alto là, signori miei! Silenzio su questo punto. Spieghiamoci comunque, non con la polizia a cui io, onest’uomo, proibisco di parlare di questi argomenti, ma col piccolo numero di persone rispettabili e coscienziose che, sulla base di opinioni altrui, dopo aver dato un’occhiata distratta allo spettacolo, si sono lasciate persuadere a condividere questo punto di vista… […] Il lavoro è immorale? Lo credete proprio? Per quello che descrive? Ecco la trama. Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è buffone di corte: triplice disgrazia che lo rende crudele. Triboulet odia il re perché è re, i signori perché sono signori, gli uomini perché non portano tutti una gobba sulla schiena. Il suo unico passatempo è di aizzare continuamente i signori contro il re, spezzando la resistenza del più debole contro l’arroganza del più forte. Perverte il re, lo corrompe, lo abbrutisce, lo spinge alla tirannia, all’ignoranza, al vizio; lo esorta a turbare la quiete delle famiglie dei nobili di corte, gli indica incessantemente la moglie da sedurre, la sorella da rapire, la figlia da disonorare. Tra le mani di Troboulet il re è solo una mostruosa marionetta che distrugge le esistenze che il buffone si diverte a mettere sulla sua strada. Un giorno, durante una festa, nel momento in cui Triboulet incita il re a rapire la consorte del signor di Cossé, il signor di Saint-Vallier giunto in presenza del re gli rimprovera senza mezzi termini il disonore di Diana di Poitiers. Questo padre, cui il re ha sottratto la figlia, Triboulet lo schernisce e lo insulta. Il padre solleva un braccio e maledice Triboulet. Da questo presupposto ha origine la genesi dell’opera. Il soggetto autentico del dramma è La maledizione del signor di Saint-Vallier. Ascoltate. Siete al secondo atto. Su chi è ricaduta questa maledizione? Su Triboulet buffone del re? No. Su Triboulet uomo, che è padre, che ha un cuore, che ha una figlia.

Triboulet ha una figlia, ecco il nodo centrale. Ha solo una figlia a questo mondo, e la nasconde agli occhi di tutti, in una località deserta, in una casa solitaria. Più contribuisce ad accrescere in città il contagio della depravazione e del vizio, più tiene la figlia isolata e murata. Educa la sua creatura nell’innocenza, nella fede e nel pudore. Il suo più gran timore è che la fanciulla cada vittima del male perché lui, il malvagio, conosce le sofferenze regalate dal male. Ebbene! La maledizione del vecchio coglierà Triboulet nella sola cosa che ami al mondo: sua figlia. Lo stesso sovrano che Triboulet spinge al rapimento, rapirà la figlia a Triboulet. Il buffone sarà colpito dalla provvidenza esattamente come è stato colpito il signor di Saint-Vallier. In seguito, dopo che sua figlia sarà stata sedotta e perduta, egli tenderà una trappola al re per vendicarla, ma ne sarà vittima la figlia. Il re che incita al vizio, la figlia che educa alla virtù. L’uno perderà l’altra. Vuole rapire per conto del re la signora di Cossé, e invece rapisce sua figlia. Vuole uccidere il re per vendicare sua figlia ed è proprio la figlia che finisce per assassinare. La punizione non si ferma a metà strada: la maledizione del padre di Diana si compie sul padre di Bianca. Indubbiamente non spetta a noi decidere se questa è un’idea drammatica, certo è un’idea morale. In un’altra opera dell’autore l’elemento costitutivo era la fatalità, l’elemento di fondo di quest’opera è la provvidenza.  […] Proseguiamo. Se l’opera è morale nell’invenzione, sarebbe immorale nella realizzazione del suo assunto? Posta così, pare che la questione si distrugga da sola. Tuttavia esaminiamola. Probabilmente non c’è niente d’immorale sia nel primo che nel secondo atto [nell’opera nei due quadri del primo atto]. Allora vi scandalizza la situazione che si crea nel terzo [nell’opera nel secondo atto]? Leggete il terzo atto. Volete dirmi in assoluta buona fede se l’impressione che ne riportate non è profondamente casta, onesta e virtuosa? Allora è immorale il quarto atto [nell’opera il terzo atto]? Ma da quando in qua non è più consentito a un re di corteggiare sulla scena la cameriera di una locanda? Non è una novità né in teatro né nella storia. C’è di meglio. La storia ci avrebbe permesso di mostrarvi Francesco I ubriaco nei tuguri di rue du Pélican. Anche se condurre un sovrano in un luogo malfamato certo non avrebbe rappresentato una novità. Il teatro greco, che è il teatro classico, l’ha fatto; Shakespeare, che è il teatro romantico, l’ha fatto; ebbene, l’autore di questo dramma non l’ha fatto! Sa tutto ciò che è stato scritto sulla casa di Saltabadil. ma perché fargli dire quello che non ha detto? Perché obbligarlo a oltrepassare un limite che è la cosa più importante in un caso simile, e che lui non ha oltrepassato? Quella zingara Maguelonne, tanto calunniata, non è certamente più sfrontata di tutte le Lisette e le Marion del vecchio teatro. Il tugurio di Saltabadil è una locanda, una taverna, la bettola “La Pomme de Pin”, un rifugio sospetto, un posto ideale per uccidere, sia pure, ma non un lupanare. È un luogo orribile, sinistro, pauroso, spaventevole, se volete, ma non è un luogo osceno. Rimangono quindi i particolari stilistici. Leggete. L’autore accetta come giudici della severa autorità del suo stile le stesse persone che trovano da ridire sulla nutrice di Giulietta e sul padre di Ofelia, su Beaumarchais o su Regnard, e sulla grande scena del Tartufo, quel “Tartufo” che ai suoi tempi fu anch’esso accusato di immoralità. Solo dove era d’obbligo la sincerità ha creduto di dover esserlo fino in fondo, a suo rischio e pericolo, ma sempre con severità e misura. Vuole che l’arte sia casta, non vuole che sia ipocrita. Eccola qua, dunque, quest’opera contro cui il ministero cerca di sollevare tante prevenzioni! Eccole messe a nudo questa immoralità, questa oscenità! Che misera! Il potere aveva i suoi motivi segreti, che noi più tardi riveleremo, per scatenare contro Le Roi s’amuse il maggior numero possibile di pregiudizi. […]»

 

Le notizie sugli ostacoli alla rappresentazione del lavoro di Victor Hugo, mettono Verdi nell’imbarazzo. Il problema della moralità o dell’immoralità è evidentemente una copertura. In Italia i poteri monarchici nei vari staterelli sono ancora molto forti. Appare chiaro che l’opera, in queste condizioni, è ad altissimo rischio di censura. Occorre intervenire. E questo Verdi  e Piave lo faranno trasformando la Corte di Francia nel ducato di Mantova, e il re Francesco I° in un non meglio identificabile Duca di Mantova. La drammaturgia tuttavia rimane la stessa, magistrale, dell’opera di Hugo, con un’unica differenza: nel lavoro di Hugo, il rapimento della figlia di Triboulet avverrà con la connivenza del re, e all’inizio del terzo atto il tempestoso dialogo fra l’impaurita (ma innamorata) Bianca  e Francesco si concluderà con la fuga della fanciulla direttamente… nella camera da letto del re, che avrà così buon gioco ad aver ragione del suo pudore. Nell’opera di Verdi, questa parte viene eliminata, e il rapimento di Gilda avviene all’insaputa del Duca, che, tuttavia, una volta messo al corrente degli eventi, si precipita ad incontrare la fanciulla portata a palazzo dai cortigiani.

L’arcata drammaturgica dell’opera è la stessa del lavoro teatrale di Hugo, e non può essere giudicata che in un equilibrio sostanziale, come Hugo ha saputo ben spiegare nella prefazione al lavoro stampato, in parte sopra riportata.

 

La musica del Rigoletto è introdotta con un breve preludio dal tema della maledizione, tema che tornerà con una certa frequenza ogni volta che la situazione tende a coinvolgere i sentimenti di Rigoletto. Si tratta di un tema essenzialmente tragico, a volte anche lugubre, scandito dagli ottoni, ma in alcune occasioni cantato sulle parole “Quel vecchio maledivami!”.

Quello che si può dire, secondo me, di particolarmente interessante, è che questa opera lascia poco spazio alle arie solistiche, e si basa invece soprattutto su brani d’insieme. Sia Rigoletto, che Gilda hanno solo un’aria solistica a testa: Gilda nel primo atto (“Caro nome”, aria fresca, leggera, con virtuosismi moderati, tipicamente descrittiva del carattere ingenuo, pudico della fanciulla) e Rigoletto nel secondo atto (“Cortigiani vil razza dannata” con la quale il buffone esplode in una violenta invettiva quando si accorge che la figlia è in preda al Duca). Un secondo intervento solistico, un arioso, Rigoletto lo ha dopo il primo incontro con Sparafucile (“Pari siam!”). Il Duca ha tre brani solistici, uno per atto. Ma il primo (“Questa o quella”) e l’ultimo (“La donna è mobile”) sono di fatto due canzonette che servono a darci un’idea della superficialità e del libertinaggio della persona. Il secondo (“Parmi veder le lacrime”) invece è un’aria vera e propria preceduta da un recitativo accompagnato (“Ella mi fu rapita”) e terminata da una brutta cabaletta lenta (“Possente amor mi chiama”): forse la più brutta cabaletta di Verdi.

Tutti gli altri sono brani d’assieme: cori, sia in concertato, come alla fine dei primo quadro del primo atto, sia come tali nel finale dell’atto (“Zitti zitti” che non può richiamare il coro del Macbeth che prelude all’uccisione di Banco), e all’inizio del secondo atto (“Scorrendo uniti remota via”, posto fra l’aria del Duca e la cabaletta).

I duetti sono i brani più numerosi: dal duetto all’inizio del primo atto del Duca con la contessa di Ceprano, ai tre duetti fra Rigoletto e Gilda, uno per atto (bellissimo quello del secondo, “Tutte le feste al tempio” che si conclude con la stretta “Sì, vendetta”), o ancora al duetto fra Rigoletto e Sparafucile all’inizio del secondo quadro del primo atto, nel quale il tema vero e proprio, anziché essere affidato alla voci, è suonato dall’orchestra, al bellissimo duetto fra il Duca e Gilda.  Meritatamente molto famosi sono poi il terzetto (fra Sparafucile, Maddalena e Gilda) cantato nel pieno della tempesta del terzo e il famosissimo quartetto “Un dì, se ben rammentomi” in cui intervengono Rigoletto e Gilda da una parte, e il Duca e Maddalena dall’altra. Questa impostazione fa sì che il Rigoletto sia proprio un’opera assieme, in cui i personaggi partecipano tutti a pari livello allo svolgimento della vicenda: poche arie e virtuosismi vocali, per convenire su una drammaturgia che non si affida a un “protagonista”, ma si avvolge e si svolge attorno a un triangolo centrale (Duca, Gilda, Rigoletto) nei personaggi del coro, di Maddalena e di Sparafucile.

 

La messa in scena: è quella di Deflo del 1994, ripetuta altre volte, sempre sul palcoscenico scaligero, e quindi anche in questa occasione. Si tratta di una regia molto fedele alle didascalie del libretto, basata sulle scene di Ezio Frigerio alternativamente sontuose quando vengono rappresentati gli ambienti interni al palazzo ducale, teatro delle imprese libertine; e tenebrose quando si riferiscono agli ambienti esterni, notturni, teatro dei tragici eventi del rapimento e della morte. Un ruolo importante perciò gioca l’illuminazione: chiara, solare, scintillante da una parte; cupa con sprazzi di luce radente nelle scene notturne, e lampi di luce chiara, pervadente nelle scene della tempesta del terzo atto dall’altra; ciò contribuisce a rendere ancora più lugubre l’ambientazione della locanda di Sparafucile. Come le scenografie, anche i costumi di Franca Squarciapino in stile cinquecentesco sono particolarmente sontuosi nei personaggi della corte; più essenziali e rozzi nei personaggi di basso rango (Sparafucile, Maddalena, Rigoletto fuori dalla corte, etc.).

Gli interpreti hanno dato vita a uno spettacolo dignitoso, senza tuttavia, secondo me, eccellere in modo particolare. James Conlon, ha diretto, a mio avviso, cercando l’ espressività della partitura più attraverso le variazioni della dinamica che non attraverso le sottolineature timbriche, che spesso sono state coperte dall’intensità dell’emissione del suono orchestrale. Ne è risultato un Rigoletto un po’ monocorde, privo di quelle sfumature che ne caratterizzano proprio l’aspetto morale sottolineato da Hugo.

Su Leo Nucci non c’è molto da dire: è il Leo Nucci che conosciamo, grande interprete di un tragico personaggio, con una voce ancora bella, potente nonostante la vicinanza dei settant’anni, e la capacità di esprimere nel canto, come nelle movenze corporee, la falsa buffoneria, il timore della maledizione, la sgomento, la rabbia, che di volta in volta coinvolgono il personaggio nella sua difesa della figlia prima, nella ricerca della vendetta poi e infine nella disperazione finale. Per lui ovazioni a non finire da parte del pubblico.

Molto brava, a mio avviso è stata anche la giovane e carina soprano polacca Aleksandra Kurzak, a me fino a quel momento del tutto sconosciuta. La sua interpretazione è stata di una grande freschezza, come si conviene a una ragazzina timida ma catturata dal primo segreto sentimento d’amore. Questo carattere si è ben palesato nel duetto con Rigoletto prima, in quello con il Duca dopo e soprattutto nella bella aria “Caro nome” dove ha saputo condurre con grazia e agilità i bei virtuosismi vocali, compreso un ineccepibile trillo. Anche per lei, applausi fragorosi.

Quello che invece non è piaciuto è stato Stefano Secco nella parte del Duca. Canto molto fermo, voce debole, espressione “seduta”, priva della vivacità che un duca libertino si immagina debba avere. Nessun applauso dopo i suoi tre interventi solistici, e qualche sonoro boo alla fine.

Di ottimo livello, mi sono sembrati sia Maddalena (Mariana Pentcheva) che Sparfucile (Marco Spotti): quest’ultimo nel duetto con Rigoletto nel primo atto e nel terzetto con Maddalena e Gilda nel terzo. Maddalena ottima nel quartetto. Come sempre il coro ha saputo dare il meglio di sé.

Applausi e chiamate alla fine di ogni atto e dell’opera hanno espresso il gradimento del pubblico per uno spettacolo tutto sommato risultato piacevole a me, ma anche al pubblico.

 

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