FABULAZZO OSCENO, di Dario Fo, 1991 e 2002

TEATRO OLIMPICO " IL MISTERO BUFFO "

Si tratta di tre monologhi secondo uno schema mutuato dalla commedia dell’Arte, quando questa forma di teatro era dovuta emigrare in Francia a causa dell’intolleranza esercitata dalle autorità religiose in Italia. Erano chiamati fabliaux, ossia fabulazzi, e avevano spesso un contenuto osceno. Non pornografico, specifica Dario Fo nell’introduzione, ma osceno, scurrile tale da suscitare lo sghignazzo del pubblico.
Vengono rappresentati: i primi due, La parpàja tòpola e Arlecchino fallotropo al teatro Lirico di Milano nel 1991; il terzo Il tumulto di Bologna nel 2002 al teatro Strehler di Milano.

La parpàja tòpola. È un appellativo in lingua dialettale dell’organo genitale femminile. La storia si basa sul un povero pastore che ha passato tutta la sua vita in mezzo ai greggi, ed ignorante anche delle cose più comuni della vita quotidiana, compreso l’amore e il sesso. Il padrone, un vecchio simpatico, lo mette in guardia dalle donne, che con la loro parpàja tòpola possono procurargli de guai incredibili, addirittura mozzargli le dita delle mano e il pisello. Il povero pastore ci crede e non si lascia avvicinare da alcuna. La vicenda vuole che il prete del villaggio vicino, un personaggio astuto e gaudente di nome don Faina, si scopa una bellissima fanciulla, Alessia. Nessuno conosce la tresca, tranne la madre di lei, che la approva, certo, ma pretende che don Faina trovi un marito per la figlia in modo che possa mantenerla e non gravare sulle sue scarse risorse. Gli occhi del prete cadono sul povero pastore, nel frattempo diventato assai ricco, poiché il padrone, morendo, lo ha nominato erede universale di tutti i suoi beni.
La storia prosegue con l’innamoramento del pastore per la fanciulla, il matrimonio felice e soprattutto con il prete che, finalmente, può scoparsi la ragazza ora sposa, senza difficoltà fin dalla prima notte di nozze. Il povero marito, invece, è costretto, con varie scuse, a trascorrere la notte fuori casa. In primo luogo lo costringono ad accompagnare alla sua magione la madre. In secondo luogo, la giovane sposa, che vuole liberarsi del marito per il resto della notte e sollazzarsi ancora col prete, conoscendo l’ignoranza del pastore in questioni sessuali, gli racconta di non poter indulgere con lui in giochi amorosi perché ha dimenticato la casa della madre la parpàja tòpola. Nuovo viaggio del pover’uomo a casa della madre con tutte le difficoltà di un percorso accidentato. Ma la parpàja tòpola, sotto forma di topolino gli sfugge e si perde nel fiume. Vane le ricerche. Alla fine, il poveraccio tutto sporco e stanchissimo al mattino rientra afflitto e disperato. Questa volta la moglie capisce che l’uomo la ama davvero e ha pietà di lui. Gli rivela finalmente che tutto è rientrato nella norma che il giorno successivo potranno dedicarsi ai tanto sospirati giochi d’amore.

Il secondo monologo, Arlecchino fallotropo, deriva da una recita di Arlecchino, come ci assicura Dario Fo, davanti ai re di Francia. Ed è talmente scurrile da emozionare soprattutto le donne, alcune delle quali pare che siano addirittura svenute. Il racconto: Arlecchino è servo di un signorotto in decadenza economica oltre che fisica. Questi si è pazzamente innamorato di una bellissima fanciulla, ma i timori di fallimento sessuale, a causa del decadimento fisico lo tormentano. Arlecchino lo tranquillizza. Conosce una megera che dispone di un rimedio sicuro. Occorrono solo trenta denari d’argento. Con sacrificio il signorotto se li procura e Arlecchino si reca dalla megera, che gli dà una pozione, con la raccomandazione di prenderla a cucchiaini, e che deve essere assunta nell’arco di almeno 15 giorni. L’ingestione in una sola volta di tutto il flacone avrebbe provocato un gravissimo guaio. Arlecchino (furbescamente, da bravo ladruncolo) paga solo 15 danari, mentre gli altri 15 li tiene per sé e per gli amici. Si va al bar e, con grande allegria, ci si ubriaca. Purtroppo nella foga del divertimento, Arlecchino si beve anche tutta la pozione della megera. I risultati non tardano a farsi sentire. Il suo pene si erge e si ingrossa rapidamente al punto di strappare bottoni e cuciture del suo abito, e uscire allo scoperto. Occorre nasconderlo alla vista di giovani e meno giovani signore che si stanno avvicinando. Con terrore e preoccupazione, Arlecchino trova una pelle di gatto, con la quale ricopre il pene, e lo tiene in braccio fingendo davanti alle sopravvenute di accarezzare la bestia. Ma ben presto si fa vivo un cane che, visto il gatto, lo vuole aggredire. Bisogna cambiare travestimento, e l’enorme pene viene fasciato, con tanto di cuffietta, e ninnato fra le braccia di Arlecchino come se fosse un bambino. Le donne che lo vedono vorrebbero ninnarlo loro, ma non fanno a tempo. Il pene si ingrossa ancora fino a scoppiare, e il povero Arlecchino rimane così, castrato e tutto sommato, felice.

Il terzo monologo è Il Tumulto di Bologna. Questo monologo viene recitato al teatro Strehler a Milano nel 2002, quindi 11 anni dopo i due monologhi precedenti. Qui l’argomento è una guerra, quella fra la città di Bologna, che fa parte dello stato pontificio, e la città di Ferrara, indipendente e autonoma. Come spesso accade, città che si ritengono militarmente potenti, hanno l’ambizione di estendere il loro potere a spese delle città vicine. Così i bolognesi vorrebbero conquistare Ferrara. Il loro esercito è forte, e costituito in parte da milizie francesi (Provenzali e Bretoni) e in parte da giovanotti reclutati fra gli stessi bolognesi. La guerra inizia col tentativo dei bolognesi di attraversare il Po sul ponte che unisce le due rive e aggredire le mura della città. I Provenzali e Borgognoni sono i primi a passare sul ponte, ma trovano ad attenderli un forte esercito, appoggiato dalla cavalleria veneziana accorsa in aiuto. Non resta loro che arrendersi e tornare a Bologna sconfitti. Ma la sorte dei giovani bolognesi è ben diversa. Sorpresi in mezzo al ponte dall’esercito ferrarese cadono in gran numero nel Po e in moltissimi muoiono annegati.
A Bologna amici e parenti li attendono, ma essi non arrivano. Provenzali e Bretoni, consapevoli di essere stati loro la causa del disastro, si rendono conto che gli abitanti della città li avrebbero incolpati del disastro e avrebbero finito per vendicarsi su di loro. Decidono quindi di rifugiarsi nel Bon Castello, dopo avere razziato tutti gli alimenti in città e nelle campagne. I Bolognesi capiscono le mosse dei francesi e dei papisti, e li vogliono sloggiare dal Bon Castello, ma l’impresa è ardua. Il castello è inespugnabile. Neppure l’Imperatore in precedenza, pur dotato di catapulte, arieti, torri e quant’altro è riuscito. Borgognoni e Provenzali deridono dalle mura i bolognesi impotenti. Come fare?
Un vecchio muratore esprime un’idea che entusiasma tutti: vedrete che dopo qualche giorno di un trattamento come quello suggerito, gli occupanti usciranno in ginocchio, dice il vecchio muratore. E questa idea è la merda. In primo luogo far defluire la cloaca e i liquami sporchi nel canale che porta l’acqua al castello. Poi raccogliere tutta la merda che viene prodotta in città, fare impasti, metterli sulle catapulte e scagliarli oltre le mura del castello. Ben presto il fetore è intenso, sempre più dilagante; oggetti, strade, e persone si trovano ricoperti dal liquame, lo stesso vitto diventa immangiabile puzzolente com’è. Alla fine, dopo alcuni giorni di questo trattamento, gli occupanti escono chiedendo umilmente perdono. I Bolognesi, soddisfatti della vittoria li lasciano andare. Anche l’arcivescovo delegato, il vero padrone della città per conto del papa, vorrebbe uscire indenne, e per questo porta con sé l’ostia consacrata, nella convinzione che la gente, per rispetto al Cristo vivente, lo avrebbe lasciato passare. Ma questa volta i bolognesi non si lasciano ingannare: al grido che se Cristo riesce a vivere in mezzo a tanti stronzi, riuscirà bene a vivere anche in mezzo alla merda. E i cittadini lo aggrediscono inondandolo della profumata materia.

Fo recita i fabulazzi nel solito grammelot, questa specie di linguaggio formato con parole, espressioni, modi di dire di diversi dialetti, soprattutto della pianura padana, e che offre, assieme alla inarrivabile mimica di Fo, un modo espressivo molto musicale e coinvolgente. L’effetto è globalmente assai comico. Lo spettacolo sembra essere un po’ una continuazione dei monologhi che hanno reso così famoso Mistero Buffo.

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