FUOCO AMICO, di Abraham B. Yehoshua

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Amotz e Daniela sono una coppia alla soglia della terza età. Lui ha da poco oltrepassato i sessanta, lei di anni ne ha 57. Vivono a Tel Aviv, hanno un tenore di vita agiato: lui ha una piccola impresa di progettazione di ascensori, lei è insegnante. I loro figli hanno già preso il volo. Il figlio maggiore, Moran, è sposato con Efrat, vive con la moglie e due nipotini anch’egli a Tel Aviv. La figlia minore vive a Gerusalemme e fa pratica in un ospedale.

La vita della coppia è una vita con i normali problemi della quotidianità, divisi fra il lavoro e le frequentazioni di parenti e amici, ma su di essa grava un problema che, in un primo tempo apparentemente assorbito come una eventualità dolorosa, ma inevitabile, gradualmente si fa strada e si ripropone nella sensibilità donna, Daniela, come un dolore la cui natura e le cui cause devono essere rielaborate e rivissute: la morte della sorella maggiore, Shuli, avvenuta un anno prima. La sorella è morta in Africa, dove si era trasferita col marito Yirmiyahu in seguito alla morte di loro figlio Eyal, ucciso sei anni prima, nel corso di un’operazione militare, dal fuoco di commilitoni, il cosiddetto «fuoco amico».
La morte del ragazzo, avvenuta certamente per colpa sua e non per colpa dei militari che gli hanno sparato, ha gettato in uno sconforto infinito i due genitori: prima il loro rifugiarsi in Tanzania, dove il governo ha offerto a Yirmiyahu una specie di rappresentanza commerciale; poi le difficoltà di rapporti, anche di natura sessuali sorte fra i due; poi la morte di Shuli, la cui causa reale doveva essere ricercata nello stato di profonda depressione causato da un lutto mai completamente elaborato; infine, dopo la morte di Shuli, il rifiuto di Yirmiyahu di tornare in Israele e il suo ingaggio, come ragioniere ed esperto di contabilità, in una spedizione di scienziati, tutti africani, alla ricerca delle prove che il passaggio dalla scimmia all’uomo sia avvenuto proprio nel continente Africano.

Queste vicende, affiorando in modo sempre più insistente nell’animo di Daniela la convincono della necessità di fare un viaggio in Tanzania per poter rivivere il dolore della sorella: il dolore di madre trasferito in lei, la sorella minore, l’avrebbe in certo qual modo fatta rivivere nel suo animo. Ma tutto questo sarebbe dovuto avvenire senza il marito, senza quel senso di sicurezza e di normalità che la sua presenza avrebbe assicurato.
Daniela così decide di partire da sola, approfittando della settimana di vacanze della festa dell’Hanukkah, una festa che avviene nella prima metà del mese di dicembre, che ricorda la ridedicazione del Tempio dopo la vittoriosa rivolta degli ebrei contro la monarchia Seleucida, e che in Israele si celebra accendendo, assieme ad altre persone, ogni giorno per otto giorni una candela da un candelabro a nove bracci detto hanukkyah.

Il romanzo inizia con la separazione dei due coniugi: la preoccupazione di Amotz che la moglie, che è la prima volta che affronta da sola un viaggio così lungo, non incorra di pericoli di sorta, soprattutto a causa della sua inesperienza e della sua distrazione; l’eccitazione di Daniela, invece, che da un lato vorrebbe sentirsi autonoma e libera di decidere, e dall’altro sente come necessità interiore l’attenersi alla istruzioni del marito.

Il romanzo prosegue descrivendo alternativamente nei diversi capitoli, in contemporanea, gli eventi di cui è protagonista Daniela nel suo viaggio e poi nella sua permanenza in Tanzania, e gli eventi invece che avvengono a Tel Aviv e a Gerusalemme e che hanno come protagonista Amotz.
La vita di Amotz scorre nella quotidianità dei problemi, scandita durante la settimana dell’Hanukkah dal rito quotidiano dell’accensione delle candele: gli ascensori di un grattacielo troppo rumorosi per l’infiltrarsi di venti e che i condomini vorrebbero imputare alla progettazione; una complicata modifica di progettazione degli ascensori in uno stabile del ministero della difesa; la necessità di riparare un vecchio ascensore progettato dal padre per una vecchia signora di Gerusalemme, che poi risulterà essere stata la sua amante, almeno dopo la morte della moglie; l’arresto e la condanna ad alcuni giorni di prigione del figlio che, contando sulla distrazione dei militari, non si è presentato al richiamo per svolgere il proprio turno di riservista nell’esercito; e assieme a questi tanti altri piccoli problemi, come la necessità di fare da babysitter per i piccoli nipotini, le visite al vecchissimo padre gravemente malato di morbo di Parkinson, ma ancora mentalmente molto lucido e capace di sana ironia su se stesso e sul figlio, la visita alla figlia volontaria in ospedale, e sempre le candele da accendere alla sera ora con il figlio, ora col padre, ora con la figlia, ora con i nipotini.
Il ritratto che esce di Amotz è quello di un uomo positivo, che ama anche il proprio lavoro che fa correttamente rispondendo ad una solida convinzione morale; ma che ama tantissimo anche la propria famiglia, per la quale si prodiga anche oltre il necessario, ma mantenendo comunque sempre quel senso di sicurezza e autorevolezza per il quale tutti coloro che lo circondano, parenti e collaboratori, finiscono per affidarsi a lui.

Ma la vera chiave di lettura del romanzo emerge lentamente sull’altro versante, quello africano. Daniela viaggia da sola. È un’esperienza nuova, fa qualche errore, in qualche momento si sente insicura e sente la mancanza del marito che ha sempre provveduto a tutto, compresi i piccoli, noiosi ma indispensabili problemi della burocrazia di viaggio. Ma alla fine arriva alla fattoria dove vive il cognato. L’accoglienza non è entusiasmante. Si vede subito che il cognato si è chiuso a tutto ciò che gli può ricordare Israele. Daniela, certo, è una parente, l’ha conosciuta fin da bambina, con lei non manca di affetto. Ma all’aeroporto non è andato a prenderla per il timore di trovare, oltre alla cognata, qualche altro ebreo, e così ha inviato un’infermiera sudanese che lavora con lui; i giornali israeliani e le candele dell’Hanukkah che la donna gli ha portato, finiscono nel fuoco. Tutto si presenta in modo ben diverso da quanto Daniela si aspettasse, addirittura ha la sensazione che per il cognato la sua presenza sia un peso. Comunque ella si dedica a far riemergere l’immagine della sorella. Ne cercherà le tracce un po ovunque, e soprattutto a Dar es Salaam, al mercato dove è stata colta da malore, all’infermeria dove è stata subito portata ed è morta. Cercherà nei ricordi della gente che era presente le ultime immagini della sorella. Tutto questo sembra rispondere alle sue esigenze; ma mentre sembra che ormai il soggiorno africano non abbia più nulla da dirle, e le giornate trascorrano fra una visita ai luoghi delle ricerche, e visite al villaggio vicino, i colloqui con il cognato quasi impercettibilmente all’inizio, poi in modo sempre più traumatico, aprono una nuova prospettiva. La morte del figlio, annunciata da Amotz a Yirmiyahu come dovuta a «fuoco amico», ha scavato nell’uomo un bisogno irresistibile di capire. Dapprima c’è la ricerca dell’identità del soldato che ha sparato, per perdonarlo, dice, per fargli sentire la propria solidarietà: cosa che non gli riesce perché i suoi commilitoni si guardano bene dal rivelarlo. Poi la ricostruzione dei fatti: il figlio era sul tetto di una casa palestinese a Tul Karem, col compito di spiare le mosse di un ricercato terrorista, e segnalarlo ai commilitoni in agguato col compito di ucciderlo; l’errore tragico è stato provocato certamente dal fatto che Eyal è sceso dal tetto in un momento sbagliato ed è stato scambiato per il terrorista. Poi il desiderio di sapere, conoscere, capire ciò che è successo, perché il figlio, normalmente molto preciso, abbia commesso quell’errore così stupido. E allora Yirmiyahu cerca il contatto con i palestinesi che vivevano nella casa che Eyal aveva occupato militarmente. La cosa è molto difficile e anche pericolosa, ma possibile. Viene così a scoprire che fra Eyal e quei palestinesi si era creato un rapporto ambiguo, come fra nemici che non desiderino essere tali. I palestinesi gli offrono il caffè, cercano di impedire che i ragazzo si addormenti perché questo potrebbe indurli alla tentazione di ucciderlo; quando il ragazzo ha necessità corporali, si affrettano a portargli un secchio. E ancora, il ragazzo, prima di lasciare il suo posto per normale avvicendamento, vuol restituire il secchio pulito come segno di considerazione, e scende in anticipo per poterlo lavare; proprio in quella occasione si crea l’equivoco fatale e Eyal viene ucciso dal «fuoco amico». Questo tragico rapporto di gentilezze fra esseri divisi da identità diverse in guerra fra di loro, trova il contraltare negativo nei tentativi di colloquio di Yirmiyahu con una delle palestinesi che abitavano la casa, una ragazza incinta, colta di studi universitari, che non manifesta la minima solidarietà con il padre di un ragazzo ucciso mentre cercava di ricambiare delle gentilezze ricevute. Al contrario, la ragazza esce con un attacco intransigente contro una identità, quella ebraica: «Perché voi ebrei penetrate in luoghi che vi sono estranei e vi insinuate nell’anima degli altri? Perché vi è così facile vagare da un posto all’altro senza instaurare rapporti di amicizia con altri popoli, anche se vivete in mezzo a loro per centinaia di anni? […] Cosa vuole da me? Che mostri pietà per suo figlio? Perché dovrei mostrare pietà per un soldato che si introduce a forza in un luogo che non gli appartiene, che non gliene importa niente di noi […] e pensa che se ci farà un favore, se lascerà un secchio pulito e cancellerà i segni della paura, noi gli perdoneremo l’offesa, l’umiliazione? ma come è possibile perdonare? Ci si può forse comprare con un secchio pulito? […] Siamo esasperati, ci avete preso la terra, l’acqua, controllate ogni nostro movimento. Dateci almeno la possibilità di unirci a voi. Altrimenti moriremo con voi. Ma voi […] siete chiusi in voi stessi, non vi integrate e non lasciate che gli altri si integrino con voi…»
Ecco la tragedia. Una tragedia che nel romanzo coinvolge delle persone vere, con una storia, un passato, un futuro fatti di quotidianità all’interno di una tragedia più generale che li comprende. Yehoshua in una intervista dice esplicitamente: siamo un popolo che è in guerra da 120 anni, ininterrottamente. Occorre capire la stanchezza di un popolo che da generazioni non conosce la pace, non conosce la quotidianità che possono vivere gli europei oggi, dopo due guerre mondiali che ormai appartengono al passato. E questa stanchezza nel libro è rappresentata da Yirmiyahu, dal padre che non riesce a capire il senso della morte del figlio, avvenuta in circostanze stupidissime, che possono essere emblematiche della stupidità di tutte le morti che avvengono in una guerra; e che ancor meno capisce l’espressione che è costata la vita: “fuoco amico”. E questa stanchezza si esprime nel rifiuto dell’identità del suo popolo, di un popolo che da 120 anni è in guerra, e nella consapevolezza che dopo tanto tempo diventa grottesco parlare di “fuoco amico”. Nulla più c’è di “amico”. E il rifiuto, a scanso di equivoci è totale, quasi un rifiuto alla vita stessa e che trova l’espressione più dolorosa nel momento in cui Daniela, prima di ritornare in Israele, quasi per impersonare la sorella, sembra per un attimo offrirglisi.
Poi al ritorno di Daniela a Tel Aviv la vita riprenderà come sempre; ci saranno baci e abbracci, si accenderanno, finalmente riuniti, le candela dell’ultimo giorno della festa dell’Hanukkah. Ma la terribile esperienza del viaggio lascerà un traccia profonda sopravvivendo nel dolore, nella rabbia, nel tormento del cognato laggiù in Africa. Qualcuno, commentando il libro si lamenta della mancanza di una conclusione. Perché, si può pensare alla conclusione di una tragedia ininterrotta?

1 Commento a “FUOCO AMICO, di Abraham B. Yehoshua”

  1. Mariella Canaletti scrive:

    Ho finito ora il libro, è letto così la tua presentazione, che mi pare più che esauriente, puntuale, e che non può che essere condivisa. Vorrei aggiungere che il testo coinvolge, commuove ed emoziona, trascina in una lettura che non si vorrebbe smettere mai. E la tragedia di una guerra che sembra non avere mai fine è ancora più manifesta nella scrittura: la storia che pianamente racconta sembra scorrere come un fiume, nelle vicende quotidiane e nei momenti drammatici, e noi siamo immersi nel fiume, viviamo questa vita, con interrogativi che non trovano risposta se non in una pietà dolente per questa umanità incapace di comprendersi.

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