OUTIS, di Berio alla Scala

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È la seconda volta che vedo Outis di Luciano Berio. La prima volta è stato nel ’96. Allora l’opera era una novità assoluta. Ricordo che ero stato molto impressionato dallo spettacolo, ma anche da tutte le considerazioni che ne avevano fatto lo stesso Berio, e il librettista Del Corno, in diversi loro articoli e interventi.

Si tratta principalmente del tentativo di impostare il teatro musicale su nuove basi.

Anzitutto, l’elemento scenico: la trama del lavoro, tradizionalmente impostata su uno sviluppo lineare (premessa, sviluppo, climax, conclusione), viene sostituito un disegno circolare, ciclico. Il lavoro è quindi strutturato in cinque cicli, all’inizio del quale, ogni volta, Outis  muore per lasciar posto a un suo “doppio” che, dopo uno o più eventi, riprende il viaggio.

In secondo luogo, la trama non si sviluppa come un racconto, ma come un insieme di situazioni, o, forse più propriamente, le definirei “condizioni”.

In terzo luogo vi è una strettissima relazione fra musica, libretto e realizzazione scenica. Occhi e orecchi vengono sollecitati contemporaneamente e questo, contribuisce, forse, a creare l’unità dell’opera.

Il tutto quindi gira attorno alla figura di Outis, e alla sua curiosità, al suo desiderio di sapere, e soprattutto di capire. È il mito di Ulisse che, dall’Odissea di Omero attraversa la storia dell’arte, occasione di diverse interpretazioni (sono sempre sta affascinato da quella di Dante), per arrivare a quella di Joyce alla quale, credo, l’Outis di Berio si ispiri molto, almeno come impianto drammaturgico.

La visione del ’96 mi aveva affascinato ma mi aveva anche riempito la testa di interrogativi.

Intanto: il libretto è un collage di citazioni riprese da poeti di varia estrazione. Si va da Catullo, a Celan, a Auden, a Sanguineti, a Joyce, a canti popolari (funebri) greco-salentini, etc. per lo più nella lingua originale. Si fa presto a verificare che le parole di questi frammenti poetici non hanno un nesso immediato con l’evento scenico; ma certamente mediato lo devono avere. E questo non sempre appare chiaro. Diciamo che già solo queste considerazioni dimostrano che alla base di Outis c’è stato un notevole sforzo intellettuale, un grande lavoro. E questo è degno di nota e di ammirazione. Ma la mia sensazione è che l’autore abbia riversato sullo spettatore altrettanto lavoro. Per capire fino in fondo l’Outis, e il perché Del Corno e Berio abbiano scelto questi frammenti, credo che sia necessario conoscere non superficialmente i poeti dai quali sono stati tratti i frammenti. E questo io lo trovo un limite. Grandi opere, anche recenti, penso alla Lulu, al Wozzeck, alle opere di Janacek, etc., non richiedono, per essere capite, una conoscenza particolarmente approfondita della fonte (Buchner, o Ostrov, o Dostojevskij, etc.). Cioè credo che l’eccesso di intellettualità, di costruzione, quando viene avvertito dallo spettatore, sia un limite alla grandezza dell’opera d’arte. Se lavoro intenso intellettuale c’è (e certamente ci deve essere), io credo che il tutto debba essere fatto “prima”, e non debba essere trasferito sullo spettatore. Questo non toglie che lo spettatore debba avere una sua cultura, e possa essere in grado di approfondire i diversi temi. Ma l’opera d’arte dovrebbe presentarglisi nella sua “semplicità”, sia pure ottenuta attraverso un grandissimo lavoro preparatorio; anzi forse proprio attraverso questo lavoro ottenuta.

Detto questo, che mi sembra il limite principale di quest’opera, devo dire che, rivedendola, certamente non mi si siano sciolti tutti i numerosi interrogativi; tuttavia ho avuto la sensazione di essere “entrato” molto di più nel lavoro di quanto non mi sia accaduto la prima volta.

Ero già preparato al tipo di impianto drammaturgico, e non sentivo il bisogno di una trama. Ciò mi ha aiutato. I diversi quadri, con la superba regia di Vick, si susseguivano accompagnati (o preceduti) da una musica sempre molto interessante, a tratti affascinante.

Nei cicli si assiste allo scontro dei miti dell’era moderna: nel primo ciclo c’è un’asta di oggetti impensabili (la mercificazione di tutto, valori compresi); nel secondo è la banca, il tempio del denaro, che si trasforma in un bordello; nel terzo un altro tempio dell’età moderna, il supermarket, si trasforma in un campo di concentramento; nel quarto il mito della guerra con i suoi orrori si scontra con l’innocenza infantile, e con i valori dell’umanità degli affetti; nel quinto la nave nella tempesta, il naufragio e la ripresa del viaggio.

Nei personaggi si possono identificare, sia pure con nomi variati, alcuni dei principali personaggi dell’Odissea. Così c’è Emily, la sposa, innamorata ma continuamente abbandonata (e alla fine non conosciuta, come viene cantato nel “quartetto” finale) facilmente identificabile con Penelope. C’è Marina, una dolce fanciulla che è presente nei momenti tormentati di Outis, con un canto dolce e consolatorio (Nausicaa?); ci sono Olga e Samantha, le due prostitute che cercano di attrarre Outis con le loro arti (Circe? Le sirene?).

Altri personaggi sono meno individuabili: il regista, per esempio. La sua malvagità potrebbe essere il corrispettivo degli dei dell’Olimpo. Ma il tutto mi ha rapportato a una delle caratteristiche più interessanti del teatro pirandelliano: Il teatro nel teatro. E a questo proposito mi è sorta un’associazione (che non ho trovato in nessuna delle diverse esegesi) con i Giganti della Montagna. Entrambe, sia Outis, sia quest’opera di Pirandello, sono opere dell’avanzata maturità, che in parte riprendono esperienze del percorso artistico precedente, ma in parte si pongono come ricerche di nuove strade di espressione teatrale; ed entrambe sono intrise di uno strenuo lavoro intellettuale che si riversa, forse in modo eccessivo, sul risultato.

La musica.

Berio afferma di avere impostato alcune fasce sonore e di avere lavorato su quelle con un’opera di sottrazione, quasi a modo di scultore secondo i dettami di Michelangelo. E queste fasce sonore si avvertono molto bene all’inizio di ogni ciclo. Da un inizio in pianissimo, il suono si espande sia nella dinamica che nell’armonia che nel timbro, per entrare poi più specificamente nella musica che rievoca le situazioni o condizioni di cui si compone l’opera. Nel primo ciclo, la concitazione dell’asta, della gente che riempie la scena, dell’aggressività del banditore (la stessa che poi troveremo nel regista), sono ben descritte dal suono appropriato, nel quale, in un sottofondo orchestrale di grande movimento, si staccano le singole voci, a volte anche solo come vocalizzi. O al contrario, la scena del canto funebre di Steve, uno dei figli di Outis, che cerca il padre, lo trova senza riconoscerlo, è espressa da una melopea piena di nostalgia, e descritta molto bene sulla scena da Steve che cammina diritto in mezzo a corpi sdraiati che si rotolano a terra, in una tenue luce azzurra.

Naturalmente non è possibile (e credo inutile) descrivere momento per momento (l’opera è molto ricca, sotto questo profilo).

Si può dire in generale che le fasce sonore hanno un non equivoco sapore marino, che sarà ripreso molte volte nel corso dell’opera. Il regista traduce visivamente questo senso, questo sapore (direi profumo) marino con la proiezione sullo sfondo con la quale iniziano tutti i cicli: una spiaggia lambita dalle onde del mare, mentre in controluce si vede la scena dell’omicidio di Ulisse da parte di Isaac, l’altro figlio.

Scene particolarmente belle, o che a me sono particolarmente piaciute, sono i canti di Marina, struggenti di dolcezza, come struggenti, sia pure in modo differente, diciamo di nostalgia, sono quelli di Emily. Il canto di Outis, che fa sempre riferimento al viaggio (“andare” e”mare” sono le parole più ricorrenti), ha una linea melodica comprensibilmente tortuosa. Molto bello è il secondo ciclo, con il canto di Olga e Samantha, che oscilla fra l’allegro, il beffardo e il sensuale (“Da mihi basia mille“), mentre dietro una quinta fatta da un velo teso di traverso sul fondo si susseguono scene che richiamano situazioni erotiche. Il terzo ciclo culmina con uno coro pieno di dolore, cantato dai deportati. Il quarto ciclo, incentrato soprattutto sui “war games”, vede il contrasto fra il canto aggressivo del regista che invita i bambini a sparare e il canto della filastrocca, dolce e cullante come una ninnananna, o la scena dei clown, con una musica di sapore “felliniano” (violino, armonica e trombone), che conclude il ciclo. Nel quinto e ultimo ciclo, il mare è il protagonista, anche nella musica, che assume a tratti una forma di tremolio, come di luce riflessa dalle onde, fino a esprimere addirittura in modo onomatopeico lo stridio dei gabbiani in volo al momento del naufragio di Outis e al sua arrivo, privo di sensi, sulla spiaggia. Il ciclo si conclude con un “quartetto-duetto” accompagnato da due pianoforti, che si svolge fra Emily, e il suo doppio, da una parte, e Outis e il suo doppio dall’altra. Il desiderio della ricerca, la consapevolezza della non conoscenza, termina con Outis che sta per riprendere a cantare, ma non lo fa, lasciando intendere che il suo canto non può essere nient’altro che la ripresa del ciclo.

La cosa da osservare, per quanto riguarda l’esecuzione, è che quest’opera, per essere, se non capita, almeno apprezzata, deve essere vista; Prima di recarmi a teatro ho provato ad ascoltare la registrazione che avevo fatto nel ’96 dalla diretta RAI. Questo riascolto mi è servito per imprimere nella memoria i principali passaggi, e quindi rendermi più facile la fruizione dell’opera. Ma mi sono reso subito conto della enorme differenza, fra ascolto puro, e ascolto accompagnato dalla visione. Sono due universi differenti. Qui la regia è assolutamente importante, e quella di Vick è una regia molto bella, che, appunto, mi ha fatto fare l’affermazioni di cui sopra. Non potrei concepire questa musica, senza un opportuno apparato visivo sulla scena.

Sulla interpretazione specificamente non sono in grado di dire molto, se non che l’orchestra ha suonato molto bene, gli sviluppi musicali erano molto chiari.

Sui cantanti, come sempre non mi pronuncio. Il cast era solo in parte lo stesso dell’edizione del ’96. I cambiamenti principali hanno riguardato due personaggi: Emily e Olga. Tuttavia ho notato una maggior disinvoltura nel canto e nella recitazione rispetto alla precedente edizione, che mi fa pensare che, appunto, le cose nuove devono essere metabolizzate non solo dagli ascoltatori, ma anche dagli interpreti.

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