PATRIMONIO, di Philip Roth

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E’ una storia. Una storia vera. La storia del rapporto di Philip Roth col padre dal momento in cui gli è stato diagnosticato un tumore al cervello fino al momento della fatale conclusione. Una storia angosciosa, ma che Roth sa raccontare con grande leggerezza. Egli non cerca di coinvolgere il lettore in una sofferenza senza ritorno, quale quella che una situazione del genere potrebbe evocare, ma trasmette principalmente il profondo senso di tenerezza che lega i due personaggi lungo questo impervio e difficile cammino.

E così Roth ci fa conoscere un padre che pur in un’età molto avanzata (siamo oltre gli ottanta anni) mantiene un forte senso di identità personale, non cede né davanti all’azione devastante del tempo né davanti all’azione distruttiva del tumore. Non chiede pietà, né tanto meno compassione. “Capiva solo quello che capiva, ci dice Philip, però quello lo capiva intensamente”. Dopo la morte della moglie, egli intraprende una relazione con una vicina di casa, e si costruisce una nuova famiglia; non lo fa per cercare un aiuto, ma per avere una compagna con la quale fare progetti di vita. E non importa se con lei litiga e discute perché la giudica troppo remissiva e comunque incapace di comprendere la sua ansia di vivere.

La storia comincia con la scoperta di una paralisi del nervo facciale, che viene all’inizio interpretata come una paralisi di Bell, una paralisi benigna, dovuta ad un raffreddamento, o a un virus, e comunque reversibile. Invece, anche a causa della necessità di un intervento per cataratta per ricuperare una vista gravemente compromessa, le indagini accertano che la paralisi del facciale dipende da una grossa neoplasia che sta crescendo all’interno del cervello. Da quel momento comincia un lungo tragitto, durante il quale Roth deve affrontare col padre la verità della diagnosi, deve assisterlo nelle decisioni da prendere su una terapia che si presenta sempre più problematica, sempre più pericolosa e sempre meno sicura; deve, alla fine, cedere alla sua volontà di affrontare comunque l’intervento per cataratta e riacquistare la vista, per lui più importante di qualunque futuro di sofferenza si possa aprire a causa dell’espansione del tumore.
I dubbi da risolvere, le decisioni da prendere, i consulti medici, le domande che scritte dal padre su un foglietto vengono recitate davanti al consulente, la domanda vera, quella che non viene mai detta ad alta voce ma è sempre sottintesa nell’animo del vecchio padre: “Perché un uomo dovrebbe morire?”, l’accettazione di sottoporsi ad un esame invasivo del cervello, il rifiuto di affrontare un intervento chirurgico che potrebbe durare fino a quattordici ore, tutte queste sono le tappe del percorso. E lungo queste tappe Phil ci racconta chi è quest’uomo, forte e debole nello stesso tempo, lottatore e vittima, affettuoso e testardo. E i tanti episodi che costellano la loro vita, ci vengono narrati perché non si deve dimenticare nulla. “Essere vivi – ci dice Roth – per lui, è essere fatti di ricordi: per lui, se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”.
E fra i ricordi ci sono anche le difficoltà dell’immigrazione alle origini, l’essere ebreo, ma anche tutto il lavoro che lui, assieme agli altri ebrei, hanno fatto per diventare americani. E diventare così i cittadini migliori. Nei ricordi affiorano anche le radici ebraiche, simboli religiosi come gli scialli da preghiera, o i tefillin, magari depositati e dimenticati in qualche cassetto, ma comunque mai rinnegati né tanto meno buttati via; le discussioni sull’antisemitismo, i giudizi sui gentili.
E, sempre fra i ricordi, episodi come quello di una eredità rifiutata ma poi rimpianta, non per il valore, ma per il ricordo che essa portava con sé; quello di una vivace protesta di Hermann quando il figlio gli ha taciuto un grave e pericoloso intervento che ha dovuto subire per evitare di emozionarlo eccessivamente: “Siamo o non siamo una famiglia? […] Non azzardatevi più a risparmiarmi”; quello di un rifiuto di attribuire al tumore i peggioramenti che sorgevano ogni giorno, e attribuirli alle piccole banalità quotidiane che la nostra salute è costretta a sopportare; oppure quello di un ebreo sedicente sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, e che vuol scrivere un romanzo che poi si verifica essere un romanzo porno, e così via. I ricordi sono tanti e tutti commuoventi non in quanto episodi, ma proprio in qanto ricordi che portano con sé tenerezza, affetto, e in fin dei conti, vita.
Il percorso termina inevitabilmente con la morte. “Morire è un lavoro – scrive Roth – e lui era un gran lavoratore. Morire è orribile, e mio padre stava morendo.” Roth è commosso. “È sempre orribile la morte di un genitore” – scrive in un’altra occasione – “se ne va metà della tua vita, o anche di più. Ti senti più povero…”.

Quello che in questo libro mi ha profondamente colpito è che io ho vissuto una simile esperienza. Ho vissuto, come Roth, quel particolare sentimento di chi vive vicino a un genitore che una grave malattia porterà a morte. E leggendo il libro ho rivissuto nella memoria quei momenti difficili, dell’informazione, delle decisioni da prendere, del sentirsi un punto di riferimento per combattere la disperazione sempre in agguato. Il libro di Roth è stato, sotto questo aspetto, una fonte di ricordi angosciosi, ma anche un invito a fare affiorare ricordi di tenerezza, di vicinanza, di affetto. Posso dire anch’io con Hermann Roth: un uomo è vivo solo se riesce a far rivivere i propri ricordi. Anche con l’aiuto, in questo caso, di Philip Roth.

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