LA STRADA, di Cormac McCarthy

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“Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo.”
Così inizia un libro straordinario, La strada, di Cormac McCarthy. In questo incipit, in queste poche parole c’è già tutto il libro: l’ambiente di una natura morta, ostile e l’amore vivo, caldo del padre per il proprio figlio.

I due, padre e figlio, percorrono la strada in un mondo distrutto da una catastrofe immane (guerra atomica? gigantesco meteorite? McCarthy non lo specifica, e non importa saperlo. E non importa neppure sapere quale sia il luogo della terra che i due stanno percorrendo). Non vi è più traccia di vita: né animali sulla terra, né uccelli nel cielo o pesci nelle acque; i boschi sono bruciati, gli alberi ridotti a tronchi privi di vita; non ci sono colori, il cielo è un grigio uniforme, il sole è pallido e lo si intravede attraverso le dense nubi di cenere che affollano il paesaggio; le notti buie sono senza stelle; pioggia, neve, vento gelido dominano il clima. Gli uomini sono quasi tutti morti. I pochi sopravvissuti sono alla ricerca disperata di cibo; di qualunque cibo; in molti casi anche del cibo fornito da carni umane. In questo ambiente l’incontro con i propri simili, ben lungi dal rappresentare un segno di calore e di solidarietà si rivela un pericolo gravissimo, dal quale si può sopravvivere solo uccidendo o fuggendo.

I due protagonisti proseguono il loro cammino, con grande fatica. Sono anni che sono su questa strada, da quando c’è stato l’evento catastrofico; non si sa, forse da cinque, forse da dieci, l’età del bambino. Portano con loro su un carrello come quelli della spesa gli oggetti che riescono a trovare: coperte per ripararsi dal freddo, tele cerate per ripararsi dalla pioggia; qualche abito di ricambio e scatolette di cibo che ancora a volte, raramente, si trovano fra le macerie dei supermercati delle città distrutte e spopolate.
Qualcuno ha commentato che per leggere l’odissea dei due occorre quasi più coraggio di quanto non debbano avere i due per progredire nel loro cammino. È paradossale, ma vero. Il libro si offre ad una lettura angosciante, tiene il lettore in ansia pagina dopo pagina, per conoscere, addirittura condividere la sorte dei due. E la scrittura di McCarthy, asciutta, essenziale, priva di retorica di qualsiasi tipo, incolla alla lettura, trasforma le parole in fatti, i fatti in sensazioni, le sensazioni in emozioni e sentimenti.

Padre e figlio vanno verso sud, verso la costa, nella speranza (che si rivelerà vana), che il mare attenui i rigori del clima e offra un ambiente dove sia meno difficile sopravvivere. Padre e figlio discorrono con poche parole. Nelle poche, essenziali parole si manifesta l’amore reciproco dei due: il padre protettivo, attento, pronto a qualsiasi sacrificio, che offre il proprio corpo per trasmettere calore e difendere la fragilità del figlio dalle intemperie; il figlio che vive l’avventura sotto la protezione del padre, ma che al padre comunica in continuazione la sua bontà d’animo, la sua preoccupazione di non essere di peso, il suo desiderio di salvare persone deboli che si incontrano lungo il cammino, pur sapendo che questo potrebbe costar loro la vita, la sua ingenuità infantile ma fortemente legata ai valori dell’amore. Lui e il padre, si sono detti tante volte, sono i buoni; e sono i buoni perché portano il fuoco (s’intende, dell’amore). E questo è una valenza fissa del bambino, alla quale egli non vuole rinunciare per nessun motivo. I dialoghi fra i due, asciutti, scarni, trasmettono in continuazione questi sentimenti: quando il bambino non approva l’operato del padre perché gli sembra crudele nei confronti delle persone che incontrano, manifesta la sua disapprovazione con il silenzio; e il padre, premuroso, preoccupato lo richiama: “mi parli ancora?”
A volte trapela l’amore per una mamma che non c’è più. In uno dei pochissimi flash-back del libro, apprendiamo che la mamma, in un passato forse non molto recente, non resistendo più a percorrere una strada senza prospettive, ostile, tragicamente faticosa, ha deciso di andarsene a trovare il suo nuovo amante: la morte. E la morte è un fantasma sempre presente anche ai due, padre e figlio, ma per ora la voglia di vivere, soprattutto la necessità di vivere per essere di aiuto all’altro, ha il sopravvento. E alle domande del figlio, il padre risponde invariabilmente: “No, non moriremo”.

Lungo la strada attraversano montagne innevate, pianure gelide, boschi battuti dal vento in cui difendersi dal freddo è l’obiettivo principale; il fuoco è la loro sorgente di vita più importante e durante le notti buie e fredde, permette loro di dormire, spesso abbracciati sotto coperte in qualche modo da qualche parte rimediate. E oltre le montagne, essi attraversano città fatte di macerie; cercano, e qualche volta trovano cibo commestibile; una volta addirittura una lattina di coca-cola che il padre si affretta a regalare al figlio che in questo modo assapora un gusto per lui nuovissimo; a volte fanno incontri con altri esseri viventi, qualche volta esseri isolati, innocui malconci, che destano la pietà del piccolo; ma altre volte si imbattono in squadre o addirittura in intere tribù di esseri malvagi, certamente cannibali, alle quali sfuggono nascondendosi o allontanandosi.
Le avventure sono numerose, piene di suspence, a volte raccapriccianti, come quando capitano in un sotterraneo dove poveri esseri umani macilenti vengono tenuti in vita da una tribù di cannibali per essere divorati pezzi alla volta.

Finalmente padre e figlio arrivano alla costa. Ma quello che essi speravano, cioè di trovare un clima più mite, di vedere un mare blu, e di poter raggiungere una più facile sopravvivenza non si realizza. Un mare plumbeo, la cenere, i segni delle gigantesche combustioni che hanno distrutto il pianeta, sono tutto ciò che li accoglie.
Il loro cammino proseguirà lungo la spiaggia, dove relitti di navi arenate a volte offrono rifugio, a volte cibo, a volte mezzi per potersi difendere dal freddo e dalla fame. Le avventure continuano, le difficoltà anche. La strada si prolunga all’infinito.

E leggendo si voltano le pagine con l’ansia di sapere, di seguire il destino di padre e figlio, nella speranza, vana, di sapere dove porta la strada. A me questo andare, apparentemente senza una meta, o con mete illusorie, superando difficoltà di ogni genere, sembra possa essere considerata la metafora della vita in sé: la vita di ogni uomo, le sue lotte, le sue speranze, i suoi obiettivi che alla fine si rivelano essere effimeri, o addirittura vuoti e senza altro significato che l’averli perseguiti. Forse il vero, l’unico contenuto della vita è l’amore. Essere buoni vuol dire portare il fuoco.

Ascolta l’intervista a Fahrenheit su Radio3

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