LA CASA MADRE, di Letizia Muratori

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Qualche commentatore l’ha chiamato un dittico. In realtà si tratta di due racconti che pur nelle differenze degli eventi narrati, sono collegati fra loro dall’ambientazione: il gioco e il suo significato nella fantasia e nella percezione della vita nel bambini. I due racconti, raccomanda la stessa scrittrice, vanno letti in successione. 

Nel primo racconto la protagonista è una bambola, la cabbage, in inglese “cavolo” (evidente riferimento ad una favola popolare con la quale si racconta ai bambini come i figli vengano alla luce: sotto un cavolo, appunto). Essa viene inviata alla bambina che la richiede ricostruendo nella finzione del gioco l’evento della nascita: l’aspetto, il nome stesso della bambola, è sconosciuto alla ricevente, così come è sconosciuto per la mamma l’aspetto del proprio figlio prima della nascita. L’estrazione della bambola dalla confezione deve avvenire mentre la bambina allarga le gambe e geme, scimmiottando la postura e la sofferenza del parto. La bambola, una volta entrata nel possesso della bambina contrae con lei il classico rapporto madre-figlia. La bambina deve esercitare tutte le attenzioni necessarie che si dovrebbero esercitare su un vero figlio, con tanto di veglie notturne per darle la “pappa”, per calmarla quando ci si immagina che pianga, etc. Il padre della bambola-bambina è un certo Xavier Roberts, il responsabile della ditta americana che invia le cabbages, la Casa madre, appunto. A Xavier le bambine devono, oltre che accusare la ricevuta della bambola, prospettare tutti i problemi che insorgono nello svolgere il loro ruolo di mamme.

Nel racconto, dal titolo La casa madre, la scrittrice immagina una bambina, Irene, che narra l’arrivo della bambola e il suo ingresso nella comunità delle bambine-mamme che popolano la scuola che frequenta. Irene appartiene a una famiglia benestante: il padre è un medico molto indaffarato che segue i problemi della figlia come può fare qualsiasi uomo indaffarato; la madre è una donna fragile, impegnata all’università, ma scarsamente attiva e spesso imbottita di medicinali contro la depressione. I rapporti fra i genitori sono pessimi, con frequenti litigate. Irene lo sa, e questo la irrita. Ella sente di appartenere alla famiglia, come qualcosa che fa parte della natura delle cose; considera i genitori più come nonni (e non sempre bravi) della cabbage, che come fonte di affetto filiale. La vera vita della bambina ruota attorno alle immaginarie esigenze della cabbage.

Ciò diventa ancora più evidente a scuola, dove tutte le sue compagne hanno a che fare con la loro bambola. Ci sono confronti, piccole invidie. Nell’ambito scolastico, è frequente lo scontro con le insegnanti, poco inclini ad accettare il fanatismo delle bambine per le loro cabbage; ma le bambine si sentono protette dalla complicità delle suore, responsabili della scuola.

Il racconto si anima per un evento che sconvolgerà le piccole mamme: Guendalina, la cabbage di Francesca Romana, una delle leader del gruppo, è scomparsa. A farla scomparire è stata proprio Irene, per nascondere il fatto che la bambola è stata sporcata. Ma ben presto nella mente di Irene, e della sua complice Carla, nasce un idea: restituire Guendalina a Francesca Romana dietro il pagamento di un riscatto. Il racconto assume così le caratteristiche di un thriller abbastanza ingenuo, la cui conclusione sarà molto amara: il riscatto fallirà, Irene verrà allontanata da scuola. Ma non è una punizione, come potrebbe sembrare: proprio in quella circostanza la vita si abbatte sulla bambina in modo brutale. Il gioco è finito, sua madre è morta. Nel rientrare in casa, assieme al padre distrutto dal dolore, Irene sembra rendersi conto di ciò, e, sia pure con stordimento e con difficoltà, è costretta e riemergere alle vere responsabilità della vita.

Il racconto si sviluppa bene, Irene riesce ad uscirne con una propria personalità infantile credibile e riconoscibile. Diciamo che la si avverte come un bambina antipatica, i cui “capricci” come li definirebbe un adulto (per esempio l’insegnante di matematica della scuola) sono solo l’espressione dell’interesse che un gioco, fatto ad imitazione della vita adulta, suscita nella bambina. L’imitazione è innocente fino al momento in cui le cose si complicano. Allora l’imitazione travalica il gioco costruito come imitazione della vita “normale”: la storia del ricatto trae nutrimento dall’insegnamento di film o della TV, e trascina la bambina su un piano pericoloso, dalla quale la tragedia della morte della madre, più che la paura della punizione, la allontana. Questa conclusione con la sua virata in un thriller ingenuo, e la contemporanea tragedia della morte della madre sono, secondo me, le parti più forzate, e quindi più deboli del racconto.

Il secondo racconto ha come titolo Il segreto. Anche in questo caso il protagonista è un gioco: ma non, come nel precedente, un “oggetto” che incarni la fantasia del bambino; è, invece, la stessa fantasia di Luca che crea gli oggetti, o si aggrappa a quelle cose o persone “reali” che egli trasforma negli “oggetti” del gioco. La fantasia del bambino in questo racconto è accesa dalle avventure che si leggono nei libri o si vedono nei film d’argomento “fantasy”. Egli si costruisce un mondo, fatto di cavalieri, draghi, fate, giardini incantati. Questo mondo è realmente popolato: ci sono i suoi amici coetanei con i quali condivide l’esperienza magica, ci sono le prostitute che frequentano la pineta sotto il castello sulla riva del mare e che per luca sono le fate, ci sono gli adulti il cui mondo tuttavia, per volere di un potente mago non può essere messo a contatto col mondi dei bambini, c’è la serva, Fatima, che è una strega con la quale si ha a che fare quotidianamente, ma dalla quale bisogna guardarsi per non cadere in orrende trappole.

I personaggi che lo attirano di più sono le fate. Le conosce tutte per nome: Aisha, Bloom, Tecna, etc. Sono i nomi delle Winx, che quando le va a trovare lo accolgono con simpatica dolcezza. Luca le ammira tutte, ma ne ama una sola, Flora che, chissà perché, dice invece di chiamarsi Marisha. Per passare qualche minuto con Flora occorrono soldi: un euro ogni minuto. Flora è brava, la sua compagnia dà la felicità, e allora Luca, per procurarsi i soldi necessari, si ingegna a vendere oggetti Winx collezionati dalla sorella, oppure piccoli sorsi di un liquido magico, rubato in casa, che provoca il fuoco nello stomaco.

Un giorno andando a trovare Flora della quale vuol vedere la “grotta” nella quale abita, si trova a scontrarsi con un essere ignoto, forse un orco che vuol saltare addosso a Flora. Flora prega Luca di fuggire, e Luca scappa, non senza aver fatto il proposito di tornare armato per vendicare Flora dall’affronto subito. E infatti torna, ma nella grotta di Flora-Marisha anziché l’orco, troverà il padre. Luca rimane sorpreso dalla cosa e non capisce. Non ci deve essere incomunicabilità fra il modo proprio dei bambini e quello degli adulti? Il padre, scopertosi, trova una soluzione accettabile. Chiama e sé il piccolo, e con aria misteriosa gli dice: Ecco, Luca, questo è il nostra segreto (da cui il titolo del racconto).

Questo secondo racconto mi è sembrato più debole del primo. Luca costruisce un mondo che non ha materia, ma si comporta come se l’avesse. Non so se questa può essere considerata una lettura giusta della psicologia della mente infiammata dalla fantasy di un bambino. Tutti i suoi pensieri, i suoi progetti mi sono sembrati piuttosto artificiali. Come nel caso del primo racconto anche qui c’è una certa esagerazione nei comportamenti suscitati dal gioco. Ma mentre Irene riesce a dimostrare una personalità, appare perfino antipatica, Luca mi sembra più meccanico, più genericamente connesso ad un mondo del tutto artificiale. E artificiale mi sembra lo stesso personaggio.

La chiave di lettura complessiva, dei due racconti, credo che vada cercata nel rapporto che si stabilisce fra la mente del bambino, catturata dal gioco, e le esigenze della realtà che, a un certo momento, come avviene nei due finali, entrano prepotentemente nel mondo del gioco e lo sconvolgono, richiamando il bambino a una realtà nuova, quella della vita. Ma è così che il tutto funziona? Non è forse un po’ troppo schematica questa lettura?

 

Ascolta l’intervista a Letizia Muratori su Fahreneit 

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