LA LULU ALLA SCALA: riflessioni sull’opera e sulla rappresentazione

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«Così l’immoralità dell’uomo trionfa sull’amoralità della donna» scrive Karl Kraus nella sua introduzione al Vaso di Pandora di Wedekind. E direi che questa affermazione riassume in sé tutto il senso di un’opera, la Lulu, che io considero fra le più belle di tutta la letteratura operistica.

A quest’opera mi ero già interessato nel lontano 1960: il personaggio così ambiguo di Lulu (che sotto certi aspetti mi ricordava il personaggio di Don Giovanni: il male percepito, che di fatto diventa un motore di progresso civile, il disordine che richiama l’ordine, il Prometeo della mitologia che disobbedendo agli dei porta all’uomo il fuoco); il modo con il quale viene espresso, cioè la dodecafonia, questa grammatica, o sintassi musicale che nega l’attrazione tonale per inseguirla, agguantarla solo per respingerla, e renderla così più espressiva; l’arco drammaturgico pieno di riferimenti simbolici interni ed esterni all’opera, avevano stimolato la mia curiosità e mi avevano convinto ad andare a vederla, approfittando dell’occasione (più unica che rara) che venisse rappresentata alla Scala, nel 1963. Di quella esperienza ricordo qualche particolare: il direttore Sanzogno, la protagonista Pilarczyk, ma soprattutto ricordo lo squallore di una platea vuota. Eravamo in non più di cinque persone, e credo di essere stato, fra loro, l’unico a parlare italiano. La rappresentazione era ancora quella in due atti, con il finale solo orchestrale, concluso dall’urlo di Lulu sgozzata e dal famoso accordo di dodici note.

Nel 1979 fu rappresentata per la prima volta l’opera in tre atti, con il terzo atto completato da Friedrich Cerha. Tutti sanno le vicende di questo terzo atto, che Berg, prima di morire, non ebbe il tempo di completare e pubblicare, ma che, a detta dei musicologi, era di fatto già pronto. Per renderlo utilizzabile ai fini rappresentativi sarebbe bastato fare solo alcuni piccoli interventi. Si conoscono anche le vicende per cui questi piccoli interventi non furono eseguiti alla morte del compositore, lasciando l’opera incompiuta fino al 1979, stante l’opposizione della moglie che sequestrò tutto il materiale.

Il compito della prima rappresentazione dell’opera completata spettò a Boulez, a Palais Garnier, proprio nel 1979, con la regia di Patrice Chéreau, e Teresa Stratas nelle vesti della protagonista. Dopo la prima di Parigi, l’opera, nella stessa stagione, venne rappresentata alla Scala, sempre sotto la direzione di Boulez, sia pure con una protagonista diversa. Io non ebbi l’opportunità di vederla dal vivo. Mi dovetti accontentare di sentire l’opera in disco e di vederla nella riproduzione televisiva. Ne rimasi impressionato, e successivamente invano cercai la possibilità di acquistare la cassetta della registrazione, per poter rivedere l’opera e per conservare un documento che ritenevo prezioso. Solo da pochi anni, per una strana coincidenza, sono venuto in possesso di un DVD giapponese, di qualità non eccelsa, ma perfettamente visibile (un po’ meno ascoltabile). Inutile dire con quanta cura io conservi la riproduzione di questo momento che io considero storico.

 

L’opera. Drammaturgicamente l’opera è derivata da due lavori teatrali di Frank Wedekind: Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora. I due lavori teatrali, pur essendo separati, anche come rappresentazione, di fatto sono un continuum. Il primo lavoro, in quattro atti, termina con l’uccisione di Schön. Il secondo lavoro in tre atti, inizia con l’evasione di Lulu, il suo rientro nella casa, e continua con la sua permanenza a Parigi prima e a Londra dopo, fino alla sua uccisione per opera di Jack lo squartatore. Il libretto della Lulu è stato scritto da Berg, adattando il lavoro di Wedekind in modo molto fedele: il primo atto dell’opera (con le sue tre scene) corrisponde ai primi tre atti, e la prima scena del secondo atto al quarto dello Spirito della terra; la seconda scena del secondo atto e le due scene del terzo atto dell’opera, corrispondono ai tre atti del Vaso di Pandora.

Lulu è la protagonista dell’opera, anche se Wedekind nel Vaso di Pandora considerava forse più più importante il ruolo della Geschwitz. La chiave dell’opera la si riscontra perfettamente nel prologo, dove uno strano domatore presenta gli animali del suo serraglio: animali di ogni tipo, feroci come la tigre, pazienti come il cammelli, insidiosi come il coccodrillo, ma soprattutto pericolosi come il serpente. E il serpente è Lulu, l’incarnazione della donna. E già dal primo atto gli animali del serraglio si identificano in persone, il Dott. Schön, suo figlio Alwa, il pittore, il Professore di medicina, che girano attorno a Lulu. Lulu è un personaggio che riveste in sé due caratteristiche drammaturgicamente molto importanti: è un essere vivente, con i suoi rapporti umani, le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, etc. Ma è anche un’idea, una manifestazione dell’attrazione sessuale indiscriminata, della mancanza di scrupoli, del comportamento animale. Come tale, potremmo definirla un essere “amorale”. Ricordiamo le parole della Canzone di Lulu, che ella canta subito prima di uccidere Schön: «Se degli uomini si sono uccisi per me, questo non diminuisce certo il mio valore. Quando mi hai preso in moglie, sapevi bene perché lo facevi, così come io sapevo perché prendevo te per marito. Avevi ingannato con me i tuoi più cari amici; non ti era facile ingannare anche te stesso. […] Io non ho mai voluto che il mondo mi credesse qualcosa di diverso da quello che mi ha considerato. E nessuno al mondo mi ha mai considerato altro che quello che sono.» Al contrario gli uomini che la circondano, che la bramano, non capiscono, sono attratti da lei cancellando ogni altro valore: sono “immorali”. Lo è Schön che cerca, invano, di correggere la sua immoralità con un matrimonio borghese; lo è il Pittore, che affascinato dal corpo della fanciulla, si disinteressa dei suoi pensieri, dei suoi stati d’animo; lo è il Professore di Medicina, assorbito, e poi ucciso, dalla gelosia; lo è Alwa che non esita a tradire il padre; lo è la Geschwitz. Sono tutti affetti da mania di persecuzione, dirà Lulu. E lo sono tutti gli altri personaggi maschili che, per un verso o per un altro, ruotano attorno alla donna, senza preoccuparsi di lei, preoccupandosi solo di se stessi e della attrazione morbosa che provano, e della sua soddisfazione.

Ma l’arcata drammaturgica ci porta lontano. Lulu, la amoralità, sembra essere vincente. Gli uomini muoiono, Lulu non solo sopravvive, ma domina. Ma la amoralità è qualche cosa che non sembra avere contenuti. Questo vuoto ad un certo punto si incrina, si sgonfia, non regge più. E questo avviene quando entrano in conflitto la donna vera, quella che vive e che ama (che ama Schön, per intenderci), e quella simbolica, quella che domina, l’espressione dell’amoralità: partono i cinque colpi di rivoltella. Finisce l’arcata ascendente, inizia quella discendente. Parigi prima, con il sordido mondo del gioco e dei ricattatori, Londra dopo, con la prostituzione da strada, sono le tappe della discesa, che avrà termine con la di lei uccisione. Qui sono gli uomini che aggrediscono il vuoto dell’amoralità, sempre più sgonfio e quindi sempre più fragile e inconsistente, e lo sconfiggono. E saranno proprio i tre uomini che nella prima parte sono stati le vittime a rovesciare la situazione: Il Professore di medicina, sotto le vesti del Professore di scuola, il principe negro, che ricopre il panni del Pittore, e infine Jack che impersona Schön. Ecco allora il senso della frase di Karl Kraus riportata all’inizio.

 

La musica. A differenza del Wozzeck, il cui linguaggio musicale è atonale, la Lulu utilizza una sintassi dodecafonica. Berg parte da una serie, la serie madre, e da questa, attraverso procedimenti non facilmente identificabili (c’è di mezzo persino un quadrante di orologio, come ci spiega Gérard Condé) ricava diverse altre serie nelle quattro definizioni: dirette, invertite, e dirette e invertite retrograde. Non entro nel merito del complessissimo gioco con il quale dalle diverse serie derivate vengono ricavati i diversi motivi che caratterizzano personaggi, situazioni, riferimenti vari. Questi motivi sono numerosissimi: alcuni rivestono un ruolo importante, altri sembrano essere più che altro di riempimento; si pensi al motivo del dott. Schön, o a quello di Alwa, o al tema del ritratto, che nell’opera occupa un posto determinante: diciamo che il ritratto è l’immagine della Lulu oggetto di attrazione, il personaggio amorale: amorale come personaggio e amorale come riproduzione su tela. Pensiamo al canto di Alwa nella soffitta di Londra, nell’ultima scena, che davanti al ritratto canta: «Di fronte a questo ritratto riacquisto la stima di me stesso. Mi rende comprensibile il mio destino. Chi di fronte a queste labbra piene e fiorenti, a questi grandi occhi innocenti di bambina, allo splendore di questo corpo bianco e rosa, non si sente scosso nella sua sicurezza borghese, scagli su noi la prima pietra.», mentre la reazione di Lulu, che sta uscendo, come donna vivente, dal vuoto che ormai si è instaurato nel sue essere simbolo dell’attrazione, ha una reazione violenta di rifiuto: «Il mio ritratto! Toglietemelo dagli occhi! Gettatelo dalla finestra!». Altri motivi importanti sono: quello relativo allo Spirito della terra, quello del Ritmo del destino (due note lunghe e due brevi sullo stesso tono), quello di Schigolch, il vecchio ambiguo, supposto padre, forse amante (incestuoso?) di tempi lontani, che non esce mai di scena, nel senso che rappresenta un punto di riferimento essenziale, e che è l’unico a sopravvivere di tutta la brigata. E infine, importantissimi, perché accompagnano proprio l’aspetto amorale di Lulu, sono il motivo della Canzonetta, quella che Lulu canta per la prima volta attorno al cadavere del Professore di Medicina; «Tutt’a un tratto si rialzerà… Pussi!… Fa finta di niente, etc.»; e l’altro motivo, quello della canzone di Wedekind, la “Canzone del trafficante di fanciulle” caratteristica per la sua volgarità, che occupa tutto l’interludio fra la prima scena (Parigi) e la seconda scena (Londra) del terzo atto. Anche qui, mi sembra di capire, come mentre la Canzonetta di Lulu appartiene all’arcata ascendente, quella di Wedekind la troviamo soprattutto nell’arcata discendente.

Tutti questi motivi anche se vengono associati a personaggi e situazioni, non sono certo da considerarsi del Leitmotiv. La loro forza espressiva non sta tanto nell’associazione, ma nello stato d’animo che riescono a creare attraverso reciproche associazioni, interferenze timbriche, intrecci di varia entità spesso non distinguibili nella loro identità, ma fortemente indicativi della psicologia del personaggio, o della assurdità della situazione, o della premonizione degli eventi o, insomma, di tutti gli aspetti che fanno procedere la vicenda verso la sua inevitabile conclusione. Ci sono dei musicologi che definiscono la dodecafonia come una specie di ponte fra la tensione del linguaggio diatonico dove la conclusione del motivo “cade” sulla nota finale, e la mancanza di tensione del linguaggio atonale, dove questa attrazione manca del tutto. Nella dodecafonia, almeno nella versione che ne dà Berg nella Lulu, questa tensione esiste e si manifesta in modo intenso, a volte addirittura violento, ma non c’è mai la caduta su una conclusione, sulla nota che “attrae” dove la frase termina, perché la attesa caduta viene impedita dell’irruzione di un altro motivo, e un altro ancora, e così via, sempre proveniente dalla serie o da una serie derivata. Per cui l’unitarietà della frase rimane, senza tuttavia che la sua conclusione porti alla distensione. Anzi. Dice Gérard Condé, l’aspetto diatonico, con la sua tensione non risolta che la dodecafonia mette in rilievo, è un modo per introdurre la drammaticità delle situazioni.

Chiedo scusa ai musicologi, per il mio linguaggio impreciso e forse anche errato. Ma non ho fatto altro che riportare le mie impressioni, aiutate da qualche lettura. Benvenuta ogni osservazione, ogni correzione.

 

La rappresentazione. È stata preceduta da un comunicato sindacale, nel quale si lamentavano i guasti della bondiana legge appena approvata, si annunciava che l’opera sarebbe andata in scena per rispetto al pubblico e alla musica, e si richiedeva la solidarietà del pubblico, ce ha risposto applaudendo. Una sola voce ha gridato per due volte l’epiteto di “conservatori” all’indirizzo dei sindacati, ma, mi è sembrato, senza successo.

Anzitutto la regia. Non mi è sembrata eccezionale. Un sipario accessorio, con figurati manifesti di spettacoli da circo equestre ha fatto da sfondo al prologo. Studio del pittore, casa del pittore, camerino del teatro, casa di Schön, sala da gioco parigina e soffitta di Londra, tutte scene tradizionali, direi con un occhio alla regia di Patrice Chéreau del ‘79, come per esempio la grande scalinata centrale nelle scene del secondo atto che si svolgono in casa di Schön. Da notare comunque, la semplicità e in certo modo anche l’eleganza degli arredi. Tradizionali del demi-monde anche i costumi. Nella recitazione, nulla di nuovo: quello che più colpisce è Laura Aikin. Una bella donna, che sa rendere il personaggio con un aspetto ricco di sex-appeal e un comportamento intriso di erotismo, con il suo rapido cambiare atteggiamento nei rapporti con l’altro sesso, sfruttando al massimo le sua attrattive. La Aikin l’avevo vista alla Scala nel ruolo di Zerbinetta in Arianna a Nasso nel 2000, e mi aveva colpito proprio per le sue doti interpretative, fatte con la voce ma anche con le movenze corporee. Ora, dieci anni dopo, mi ha dato la stessa impressione. La definirei una Lulu naturale. Mi risulta che abbia interpretato questo ruolo anche in altre occasioni. Ricordo solo quella di Zurigo del 2002 diretta da Franz Welser-Möst, purtroppo eseguita nell’edizione incompleta in due atti. L’unico neo che posso imputarle (ma forse dipende più dal posto da me occupato in platea, ovvero la seconda fila, che dalla cantante) è una voce un po’ piccola, particolarmente nelle note medie e basse, con una certa difficoltà a superare la barriera orchestrale.

Gli altri cantanti hanno tenuto alto il loro ruolo, a partire dalla Natasha Petrinsky della Contessa Geschwitz, a Stephen West del dott. Schön, al Franz Mazura di Schigolch, al Thomas Piffka di Alwa, anche se quest’ultimo forse ha ricoperto il  ruolo con eccessiva debolezza (?). E’ vero che Alwa è un personaggio che occupa sempre il secondo piano, non prende mai in mano le situazioni. Nella prima scena del secondo atto, quando si rivela innamorato di Lulu lo fa solo su insinuante sollecitazione della stessa, che ne ha capito lo stato d’animo già fin dall’ultima scena del primo atto dall’incredulo interrogativo “Nach Afrika?!”. E questo è un elemento caratterizzante che tuttavia non dovrebbe disegnare un persona completamente succube, ma quantomeno una persona travolta da sentimenti, come la gelosia nella scena finale quando cerca di evitare che Lulu si prostituisca. Ecco, forse mi è parso che Piffka non esprimesse questi stati d’animo in modo pieno, soddisfacente.

Per ultimo Gatti: è stato superlativo. Credo che Lulu sia un’opera difficile da dirigere, sia per quanto riguarda le dinamiche, che variano con grande frequenza, sia per quanto riguarda l’impasto di colori, l’intreccio dei motivi, che se non vengono proposti con grande chiarezza finiscono per essere incompressibili e giungere all’udito come dei pasticci ininterpretabili. Ebbene Gatti ha saputo evitare tutto questo, esercitando una grande chiarezza, nel contempo riuscendo a guidare gli stati d’animo e le tensioni che ne derivano in modo che potrei definire magistrale.

 

Il pubblico, numeroso (anche se qualche defezione dopo il primo atto c’è stata), ha applaudito in modo caloroso, soprattutto all’indirizzo del direttore e della Aikin e anche della Petrinsky. Un particolare: gli applausi sono partiti diversi secondi dopo l’ultimo accordo. Come vuolsi in una musica dodecafonica, l’accordo finale non è un accordo sul quale “cadono” le note precedenti. E un accordo che dà un po’ la sensazione di essere sospeso. Mi sono chiesto: questa pausa che ha preceduto l’applauso è dovuta a quella naturale sospensione che segue le grandi emozioni musicali, o semplicemente al fatto che il pubblico non ha capito che quello era l’ultimo accordo?

Spero che la risposta sia la prima, ma temo invece che sia la seconda.

Leggi l’analisi musicale di Gérard Condé (ASO)

Leggi l’introduzione al Vaso di Pandora di Franz  Wedekind, di Karl Kraus

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